Violenza e politiche antifemministe del fascismo e del nazismo [di Luisa Maria Plaisant]
Il contributo è stato letto nel corso della III Tavola Rotonda “Violenze antiche e violenze recenti: Modelli a confronto” nell’iniziativa “Tre passi nella violenza” organizzata Sabato 28 novembre da SardegnaSoprattutto, Istuto Gramsci della Sardegna, Biblioteca Universitaria del MIBACT nella Sala Settecentecentesca a Cagliari in via Università (NdR) Per parlare di violenze antiche sulle donne ho scelto di analizzare alcune particolari forme di violenza perpetrate dal fascismo e dal nazismo attraverso politiche antifemministe e di offese reiterate al corpo e alla dignità della persona. Si tratta di violenze difficili da documentare in una narrazione storiografica, per la mancanza di visibilità e legittimità politica che le donne hanno avuto in questi regimi e per le difficoltà che hanno manifestato le sopravvissute nel raccontare esperienze gravemente lesive della loro integrità fisica e spirituale. Il fascismo. Il fascismo ha rappresentato un passaggio particolare della supremazia patriarcale: le donne, infatti, oltre ad essere considerate inferiori rispetto agli uomini, avevano per il regime il dovere di fare figli. Ed è alla meta degli anni venti che il fascismo diede inizio ad una politica pro-natalista di aumento demografico fondata, da un lato sulla repressione di qualsiasi forma di controllo delle nascite e dall’altro sulla modernizzazione della maternità. La prima, che richiedeva una pressante azione di propaganda, si prefiggeva di restaurare l’ordine gerarchico nei rapporti tra i sessi sconvolto dalla guerra e dalle agitazioni sociali del dopoguerra e di contrastare il diffondersi di stili di vita alternativi al modello dell’eterosessualità obbligatoria, considerati causa di disordini sociali, oltre che sanitari e demografici. Il fascismo imponeva dunque un vero e proprio stigma sociale sulle donne che non esercitavano la facoltà riproduttiva, sino a parlare di degenerazione razziale per le donne italiane «considerate deboli ed imperfette nell’apparato della generazione – scrive Nicola Pende, uno dei firmatari del Manifesto sulla razza – e soggette a generare una prole anormale». La modernizzazione della maternità si espresse principalmente nella tendenza alla medicalizzazione attraverso l’assistenza ospedaliera al parto e l’educazione alla maternità. Interventi educativi e di supporto medico in forme diverse riguardavano anche la sterilità, ritenuta peraltro fenomeno squisitamente femminile. Ho rinvenuto al riguardo presso l’Archivio del Comune di Cagliari documenti in cui medici o assistenti dell’ONMI (Organizzazione nazionale maternità e infanzia) presentavano istanza al comune per il ricovero di «donne affette da sterilità». La sterilità come malattia, dunque, e come degenerazione di una condizione psico-fisica naturale della donna che la conduce all’improduttività, come traspare anche da una vasta letteratura scientifica di formazione positivista sviluppatasi tra Ottocento e Novecento che aveva portato all’individuazione di tipi criminali e/o devianti tra i quali le donne, se prostitute, invertite sessuali e ebree. La Shoah. Esiste nella storia della deportazione e della Shoah uno spazio specifico da dedicare alle donne, alla peculiarità delle offese arrecate al corpo femminile, alla famiglia e agli affetti. Se il mondo del lager è un mondo i cui valori sono capovolti, ciò che nel lager viene fatto alle donne, con la sterilizzazione di massa e l’infanticidio, è una pratica di morte che si oppone alla vita. «Nessuno mai capirà. – afferma una deportata politica a Ravensbruck che ha visto morire di inedia il proprio bambino appena nato – . Neanche se mi ricoprissero d’oro non sarei ripagata per quello che hanno fatto». Le donne, inoltre, erano più spesso selezionate per gli esperimenti medici e pativano sofferenze inaudite che erano esse stesse cause di morte. Esisteva infatti un interesse specifico dei nazisti nei confronti delle capacità procreatrici della donna oggetto di studio da parte dei medici e se si pensa che le donne naziste ariane erano considerate semplicemente uno stock di ovaie per il popolo tedesco, possiamo immaginare come le donne, ebree e politiche, rom o malate di mente o asociali non avessero nessun valore se non quello di cavie umane. A tal proposito vorrei ricordare che certi farmaci come i sulfamidici furono oggetto di sperimentazione proprio sulle donne deportate, su quelle del Blocco 10 di Auschwitz e su quelle di Ravensbruk. Devastante era inoltre l’impatto delle nuove deportate con l’universo concentrazionario: la visita medica e la doccia, la rasatura del capo e la vestizione, assieme a tutti quegli altri aspetti legati alla violazione di qualsiasi intimità e senso del pudore, costituiscono il primo contatto con la vita nel campo. Il tema del corpo costretto a mostrarsi è un tema specifico della sofferenza femminile nella deportazione, un trauma profondo, tanto che in tutte le testimonianze, anche a distanza di anni, viene ricordato. La Resistenza. Le donne parteciparono alla guerra di liberazione come staffette e partigiane combattenti. Per le molte che combattevano solo poche ebbero accesso a ruoli politici o militari importanti e pochissime diventarono comandanti. Ciò che emerge infatti nei confronti delle donne partigiane è una certa diffidenza per il loro rappresentare una figura femminile fuori dal ruolo, una donna che ha fatto una scelta doppiamente difficile, quella di uscire di casa e quella di andare a combattere con le armi, una scelta che appare incompatibile con la femminilità. Le perplessità erano così frequenti che il comando generale del Corpo volontari della libertà decise di costituire, additandolo a modello, «un reparto di donne che stirano, cuciono e rammendano». Sappiamo che il cammino verso la parità dei diritti è stato lungo e difficile e che non è ancora del tutto compiuto. Voglio ricordare che, anche dopo la promulgazione della Costituzione, la giurisprudenza ha continuato ad affermare la sussistenza del potere correttivo e disciplinare del marito nei confronti della moglie. Sino alla sua abolizione, grazie ad una sentenza della Corte di Cassazione del febbraio del 1956. Fino a quel momento, dunque, era consentito al marito di picchiare la moglie, a scopo educativo naturalmente. *Foto: la filosofa Hannah Arendt |