Ci sono reati che si possono commettere contando sul silenzio della donna [di Ermengarda Ferrarese]

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Il contributo è stato portato alla I Tavola Rotonda “Confini e Territori della violenza” nell’iniziativa “Tre passi nella violenza” organizzata Sabato 28 novembre da SardegnaSoprattutto, Istuto Gramsci della Sardegna, Biblioteca Universitaria del MIBACT nella Sala Settecentecentesca a Cagliari in via Università (NdR).

Una premessa che potrà sembrare provocatoria: non ho mai pensato di giudicare certi reati meglio di un uomo per la famosa “sensibilità” femminile e mi piacerebbe che si superasse questo stereotipo come uno dei punti di approdo del lungo e complesso percorso culturale in atto. Ho accettato questo invito con titubanza perché sono profondamente contraria al presenzialismo dei giudici che dovrebbero “parlare” esclusivamente con le loro sentenze e i loro provvedimenti. Sono contenta, però, se posso contribuire, con la mia esperienza, a questa tavola rotonda alla quale Susi Ronchi ha dato un taglio particolare.

L’attuale presenza massiccia delle donne in magistratura – dopo decine di anni rispetto agli uomini – e, ormai, anche nei ruoli di vertice, segna il superamento di pregiudizi con l’affermarsi delle qualità professionali riconosciute e riconoscibili. Non credo abbia un senso la permanenza di genere nella definizione del ruolo di magistrato perché la professionalità e la competenza dovrebbero rendere neutro il maschile ed il femminile.

Sono molto affascinata dal linguaggio e dall’uso della lingua, formidabile strumento di comunicazione. Ma non mi infastidisco se si parla del Prefetto, del Comandante della Polizia Penitenziaria, del Presidente della Corte d’Appello, del Giudice e così via. L’importante è che ognuno, quando si ha a che fare con la vita delle persone, siano esse vittime o imputati, agisca con la massima professionalità.

Ho selezionato tre casi tra i tanti dei quali mi sono occupata. Sono tutti conclusi con sentenza di condanna irrevocabile cioè definitiva ma eviterò qualsiasi riferimento che possa consentire di individuare le vittime.

Primo caso: ambiente familiare completamente degradato dal punto di vista morale, materiale e sociale, genitori separati, padre con problemi giudiziari che facevo uso di sostanze stupefacenti davanti alla figlia.

Quando era ancora molto piccola la madre intraprese una relazione con uno straniero che, dopo un po’ di tempo, iniziò a percuotere la madre e ad abusare di sostanze alcoliche. Inoltre, dall’età di nove anni, iniziò a “toccarla”. Ne parlò con la madre e, siccome non le aveva creduto, impaurita, sostenne, falsamente, di avere inventato tutto. Gli atti sessuali, nel frattempo, divennero sempre più invasivi. Ad un certo punto, insieme al fratellino, furono ospitati in alcuni istituti.

Rientrò a casa e, a sedici anni, ebbero i primi rapporti sessuali completi. A 17 anni fece amicizia con un ragazzo che le fece capire la gravità della situazione, la convinse a parlare col padre il quale, insolitamente adeguato nell’occasione, la spinse a denunciare i fatti. Durante le peregrinazioni nei vari istituti di accoglienza manifestò disturbi comportamentali tanto da subire un ricovero nel reparto di neuropsichiatria infantile, aggressività patologica espressa nei confronti degli altri ospiti, disturbi dell’immagine di sè, disturbo dell’adattamento, disturbo dell’identità di genere, disturbo psicotico a tendenza cronicizzante.

Nessuno degli specialisti che si occuparono di lei hanno ricollegato quei sintomi drammatici, evidente espressione di un Disturbo Post-Traumatico da stress, non solo e non tanto alla disastrosa situazione familiare ma ad una possibile genesi connessa ad abusi sessuali. Né riuscì mai a confidare ai vari specialisti la vera causa del suo profondo dolore considerato che la mamma non aveva creduto e non si poteva certo pretendere che la bambina, in uno stato di totale confusione, potesse sperare di essere creduta da estranei per quanto dotati di specifiche qualifiche professionali e competenze.

Secondo caso: marito e moglie normoinseriti, contesto sociale adeguato, esposizione prolungata a maltrattamenti, denuncia e richiesta di intervento ai Carabinieri da parte della figlia perché il padre, in evidente stato di alterazione psicofisica da abuso di alcol, stava minacciando la madre con un coltello. Arresto in flagranza e applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare. L’imputato decise di avviare un programma per il recupero dall’alcoldipendenza mentre era ospite della figlia.

Nel corso del processo la moglie minimizzò tutti gli episodi e persino il gravissimo stato di dipendenza (risultante pacificamente anche dai documenti sanitari relativi al programma terapeutico). Emerse, inoltre, che era andata a trovare il marito sistematicamente a casa della figlia, sin dal primo momento di applicazione della misura cautelare.

Terzo Caso: media-alta borghesia, l’imputato abusò sessualmente della bambina – ragazzina sua parente, sempre in casa o in altri luoghi riconducibili alla famiglia quando la moglie, spesso, era presente negli spazi adiacenti.

La ragazza trovò il coraggio di affidare la sua terribile esperienza ad un tema perché, crescendo, si rese conto che il comportamento dell’imputato non era normale. L’insegnante colse immediatamente il profondo disagio e ne parlò con la madre. I genitori, di buon livello culturale e adeguati dal punto di vista affettivo, l’affidarono immediatamente ad una psicologa e sporsero denuncia-querela.

Mi sono chiesta perché avessi selezionato nella mia mente – che è il mio archivio personale – questi tre casi: ambienti sociali da un lato ed abusanti o maltrattanti profondamente diversi ma un unico comune denominatore: l’atavica complicità delle donne con il marito-compagno abusante o maltrattante. Esiste una sorta di rassegnazione incistata che impedisce alle donne di reagire persino quando hanno non il sospetto ma la certezza dell’abuso intramurario. Certi reati si possono commettere soltanto contando sul silenzio della donna.

E’ fondamentale che le istituzioni parallele alla magistratura lavorino in questa direzione mediante un sostegno adeguato sin dall’inizio perché anche queste vittime trovino il coraggio e la forza per fare emergere queste tragedie.

* Gip/Gup Tribunale di Cagliari

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