Il Romanico in Sardegna (2) [di Giuseppina Deligia]

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La Santa Sede è la prima in ordine di tempo ad affermare le proprie pretese di dominio sulla Sardegna: nell’864 papa Niccolò I (858-867) intervenne duramente per condannare la pratica delle unioni incestuose, diffusa sia tra le famiglie reali che tra il popolo sardo. Due secoli più tardi, e precisamente nel 1073, Gregorio VII rivendicò per i successori di San Pietro la sovranità sulla Sardegna, esigendo che i quattro giudici facessero atto di sottomissione, in caso contrario tutto ciò che di brutto sarebbe avvenuto all’Isola e ai suoi abitanti sarebbe stata solo una loro responsabilità. La minaccia che ai giudici e a tutto il popolo sardo potesse accadere qualcosa di grave era tutt’altro che ipotetica visto l’interesse per l’Isola che le nazioni europee stavano iniziando a manifestare.

Di lì a poco infatti l’Impero iniziò a mostrare la propria volontà di intromettersi nelle questioni sarde: nel 1163 Federico I Barbarossa rivendicò la propria supremazia sulla Sardegna basandosi sulla dottrina del verus Imperator, secondo cui l’imperatore era l’unico padrone del mondo e quindi poteva vantare dei diritti su tutto.

Le pretese imperiali sembrarono concretizzarsi nel 1238 quando, alla morte del giudice di Torres (e di Gallura) Ubaldo Visconti, la vedova Adelasia sposò Enzo, figlio naturale dell’imperatore Federico II di Svevia, che ricevette dal padre il titolo di rex Sardiniae. La vicenda delle seconde nozze di Adelasia, ultima giudicessa di Torres, è sintomatica di quanto la Sardegna abbia giocato un ruolo decisivo nell’equilibrio della politica europea e di come ormai le vicende sarde fossero del tutto condizionate dalle ingerenze esterne. Attorno alla vedova infatti s’intessero numerose trame matrimoniali ordite dal Papa, dall’Imperatore, dai Pisani, dai Genovesi e dagli altri sovrani sardi. Ciascuna fazione proponeva un pretendente che avrebbe portato il giudicato turritano o nell’orbita ghibellina o in quella guelfa.

Anche se in un primo momento sembrò aver vinto il partito filoimperiale, ben presto la situazione si ribaltò: Enzo infatti poco dopo il matrimonio partì in aiuto del padre, impegnato nella lotta contro i comuni guelfi, e non fece più ritorno in terra sarda, tanto che, per volere della stessa Adelasia, nel 1245 il suo matrimonio venne annullato da Innocenzo IV. Adelasia, pentita, morì in solitudine indicando come erede la Santa Sede. Era il 1259 e la morte di Adelasia segnò la fine di fatto del giudicato di Torres. La vittoria del Papato sull’Impero in suolo sardo altro non era che un riflesso di quanto stava avvenendo negli stessi anni a livello europeo. La Santa Sede svolse un ruolo assai importante anche nell’espansione pisana e genovese nell’Isola, favorendo di volta in volta una delle due Repubbliche Marinare a secondo dei propri interessi. La politica commerciale di Pisa e Genova nei confronti della Sardegna fu singolarmente combattiva: le due Repubbliche infatti fecero uso di tutti i mezzi a loro disposizione per garantire ai propri mercanti la possibilità di commerciare liberamente.

Gli sporadici contatti commerciali fra l’Isola e il continente divennero sempre più frequenti a partire dalla vittoria della flotta pisano-genovese sui mussulmani comandati da Museto (1015-1016): da quel momento infatti la strada per l’espansione pisana e genovese in terra sarda si fece in discesa, ostacolata esclusivamente dalla lunga lotta che vide contrapporsi le due Repubbliche e, ovviamente, dalla Santa Sede. L’espansione delle due potenze commerciali venne rafforzata anche dalle concessioni che i giudici e le famiglie nobili fecero all’Opera del Duomo di Santa Maria di Pisa o all’Opera del Duomo di San Lorenzo di Genova, i due organismi pii costituiti per provvedere al mantenimento e alla conservazione delle rispettive cattedrali ma che, in realtà, fungevano da tramite diplomatico fra i governanti sardi e quelli continentali. Le sempre più pressanti interferenze esterne e l’incapacità dei giudici di imporre la propria autorità a quanti tentavano a più riprese di ledere l’autonomia dei regni sardi sono tra i motivi che a partire dal XIII secolo hanno portato alla fine del periodo giudicale in Sardegna. L’unica eccezione è rappresentata dal giudicato di Arborea, il quale resistette per quasi due secoli dando vita all’ultimo grande tentativo di creare un regno sardo indipendente.

L’interferenza della Santa Sede sulle questioni sarde fu consolidata anche mediante un’abile politica finalizzata a promuovere e incentivare la diffusione degli ordini monastici nell’Isola. Non ci deve dunque stupire che il primo giudice di Torres di cui abbiamo testimonianza documentaria, Barisone I, sia menzionato per la prima volta in un documento del 1063, quando – stando al Chronicon monasterii Casinensis – inviò dei legati a Montecassino per richiedere la fondazione di un monastero nel suo regno. La richiesta di Barisone I rispondeva al desiderio sincero dei sovrani sardi di risolvere due ordini di problemi: il primo era di tipologia prettamente spirituale e riguardava la loro volontà di riformare il clero sardo conformemente alla Chiesa romana, ponendo così fine alla sua decadenza morale e intellettuale.

Il secondo problema era invece di natura specificatamente amministrativa e si riferiva alla riorganizzazione del territorio, anche dal punto di vista economico. La volontà manifestata da Barisone I di dare inizio nel Logudoro allo «studium monachiae religionis» collimò però con gli interessi di Pisa: la Repubblica negli stessi anni era impegnata ad affermare la propria supremazia commerciale, e non solo, in territorio sardo. Fu così che i dodici monaci partiti da Gaeta in direzione del Logudoro furono intercettati dai pirati pisani presso l’isola del Giglio e depredati di ogni bene: libri sacri, paramenti liturgici e sacre reliquie. Si dovette attendere il 1065, e l’intervento papale, perché i monaci di Montecassino potessero raggiungere l’Isola senza incorrere in nessun pericolo e stabilirsi così nelle terre a loro concesse ovvero quelle di pertinenza delle chiese di Santa Maria di Bubalis e di Sant’Elia di Montesanto, in territorio di Siligo.

Negli anni a seguire l’invito di Barisone I fu imitato dagli altri giudici: giunsero così in Sardegna non solo i benedettini di Montecassino ma anche il Camaldolesi e i Vittorini, seguiti poi nel tempo dai monaci cistercensi. La presenza di questi monaci, e in particolare dei cassinesi e dei vittorini, rappresentava per il Papato un’arma formidabile per ricondurre l’episcopato isolano all’ortodossia romana e ridurre i giudici sardi all’obbedienza. Tali ordini monastici sfuggivano infatti al controllo regio e vescovile, permettendo alla Santa Sede un controllo diretto sul territorio. Nonostante il secondo fine della Santa Sede, non si può negare che l’arrivo e la diffusione degli ordini monastici nell’Isola abbia comportato dei benefici tangibili: i giudici infatti erano ben consapevoli che gli ordini monastici erano in possesso delle conoscenze tecniche in campo agricolo indispensabili per una seria e razionale riorganizzazione del territorio.

*Laureata e Specializzata in Conservazione de Beni Culturali

**La prima parte è stata pubblicata il 19 novembre

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