La Repubblica del 26 novembre 2013. Uno dei temi più vicini all’indagine psicoanalitica che attraversano il dibattito politico è quello del carisma. A destra e a sinistra, passando per il M5S, l’aggregazione del consenso non sembra poter prescindere dalla dimensione carismatica del leader. Questa constatazione appare preoccupata soprattutto in coloro che ne sono privi e che guardano il cosiddetto “uomo solo al comando” con sospetto. Non hanno però tutti i torti. Non è forse il carisma quella forma di potere che rende ciechi, che muove le masse suggestivamente, ipnoticamente? Non è il fascino carismatico del leader a spegnere il giudizio critico celebrando religiosamente l’Imago del leader come una sorta di idolo pagano?
Indubbiamente la dimensione carismatica del potere suscita legittime preoccupazioni anche se solo si rilegge la storia del Novecento e i disastri generati da masse irretite dal fascino morboso provocato dalla voce e dallo sguardo invasati del leader. Freud ne ha fornito un ritratto insuperabile nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io proprio mentre l’Europa si infilava nel tunnel dei totalitarismi. E tuttavia queste condivisibili preoccupazioni sembra scaturiscano da una concezione della politica ancora ingenuamente razionalista secondo la quale il consenso sarebbe il risultato di un discernimento puramente logico del livello di persuasività degli argomenti dei diversi contendenti.
Non era certo necessario il ventennio berlusconiano per smontare questa idea solo “cognitivista” del consenso. Uno dei contributi decisivi che la psicoanalisi ha introdotto nel campo della politica consiste, infatti, nel pensare che le scelte degli individui — anche quelle elettorali — siano sempre mobilitate non solo dal giudizio ma anche da spinte pulsionali acefale, da desideri più forti, da esigenze “illogiche” che la ragione non è mai in grado di governare del tutto. Queste esigenze non sono solo quelle avidamente pulsionali del guadagno immediato, della difesa accanita ed egoistica dei propri interessi, dell’accrescere la propria potenza, ma anche quelle — altrettanto pulsionali — dell’aspirazione al cambiamento, alla trasformazione dell’esistente, alla giustizia, all’apertura di mondi nuovi, all’affermazione coraggiosa di una visione differente del nostro futuro.
Questo significa che la politica implica sempre la pulsione e il desiderio e non solo la ragione. È un dato di fatto. Gli enunciati senza la forza singolare dell’enunciazione (desiderio) risultano vuoti.
Traduciamo questa tesi più semplicemente con un esempio: io posso condividere quasi tutto di ciò che dice un segretario di partito, ma il modo in cui lo dice, le parole che usa nel dirlo, il livello singolare (desiderante) della sua enunciazione, può rischiare di contraddire proprio ciò che dice e ciò ben al di là della sua volontà poiché è il livello dell’enunciazione che può fare vivere, o morire, il valore degli enunciati. Basta entrare in un’aula universitaria per rendersene conto. Il professore preparato può non sapere cosa sia un’ora di lezione. Saper tenere una lezione non risiede solo nella retorica di chi parla, nella sua capacità di comunicazione, ma nella forza di saper incarnare la verità di quello che dice, la trasformazione che la parola introduce in chi la ascolta. Questa forza ha precisamente a che fare con il carisma. Il problema, infatti, non è demonizzare il carisma nel nome di una visione razionalistica della politica che esclude dal suo orizzonte la dimensione della forza e dell’eccesso — pulsione e desiderio — , ma costruire una clinica differenziale del carisma. Cosa osserviamo a questo proposito? Semplice: l’esistenza di carismi differenti.
Il carisma berlusconiano non è assimilabile a quello renziano o a quello grillino. Si tratta di carismi che hanno supporti diversi: il carisma berlusconiano poggia sul fantasma della libertà, o, meglio, sulla riduzione della libertà al principio di fare quel che si vuole, sull’inno dell’individualismo — la riduzione della Legge a Legge ad personam — come valore antropologico assoluto che finisce per rendere impossibile la vita insieme. Gli altri suoi attributi — non secondari — sono quelli del potere, del sesso e del denaro che radunano il consenso a partire da un meccanismo elementare di identificazione proiettiva: essendo il nostro tempo il tempo della morte degli Ideali, ciò che conta è godere il più possibile senza vincoli di sorta e Berlusconi incarna con forza carismatica questo godimento libero dalla Legge e per questa ragione ha saputo generare un consenso ventennale attorno alla sua persona. Non nonostante infrangesse la Legge, ma proprio perché sottoponeva la Legge a una volontà — la sua — più forte. Si tratta, come si vede, di una versione del carisma che trova la sua linfa sulfurea nell’antipolitica, cioè in una rivendicazione di totale estraneità rispetto al mondo della rappresentanza politica.
È su questa linea — quella dell’antipolitica — che dobbiamo collocare anche il carisma di Grillo che, sebbene antropologicamente assai differente da quello berlusconiano, condivide la stessa rivendicazione di se stesso come di un corpo estraneo e separato dalle istituzioni democratiche della rappresentanza. In Grillo il vento dell’antipolitica è suscitato non da un fantasma di libertà, ma da quello di purezza e di incontaminazione sostenuto da un confine immunitario rigido e fondamentalmente paranoico che rende impossibile qualunque trattativa con chi non appartiene alla casta identitaria dei puri. Qui non è il potere, né il sesso, né il denaro, né una visione iperindividualista della libertà, a fondare il carisma. Le ragioni da cui scaturisce il carisma di Grillo sono le stesse ragioni della sinistra, ma in esso si miscelano in modo singolare e inquietante estremismo (verso l’esterno) e autoritarismo (verso l’interno) secondo la più tipica fenomenologia di tutti i leader integralisti.
Ci si può chiedere di quale natura sia il carisma di Renzi. Mi pare che questo carisma faccia perno essenzialmente su un’idea positiva della giovinezza. Non certo quella estetica perseguita pateticamente da Berlusconi, ma quella che coincide con l’esigenza del sogno e della trasformazione, del progetto e del coraggio, della necessaria assunzione di responsabilità che attende le nuove generazioni. Per questo, probabilmente, esso sa radunare attorno a sé quei giovani che abbandonano le sedi più tradizionali dei partiti, Pd compreso, e che rischiano di essere assorbiti dall’antipolitica dell’iperindividualismo berlusconiano o del fondamentalismo grillino. Si tratta chiaramente di un carisma che non si sostiene più — come accadeva per i grandi leader storici della sinistra democratica — sull’autorevolezza della figura paterna. Da questo punto di vista i funerali di Enrico Berlinguer non hanno solo chiuso una stagione politica, ma hanno anche segnato il tramonto definitivo del carisma patriarcale di cui il leader era la personificazione. Con Achille Occhetto inizia un processo di umanizzazione e fragilizzazione del leader che giunge sino a Matteo Renzi, il cui carisma sembra sganciarsi decisamente dalla forza verticale del padre per assumere una dimensione più orizzontale. Anziché aver nostalgia dell’epoca del leader-padre conviene interrogare la natura di questa nuova versione del carisma.
Quale? Quella della fratellanza di una nuova generazione che chiede diritto di parola esigendo che questo sia il tempo nel quale dare prova della propria capacità di governo? Staremo a vedere.
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