Sull’uso (politico) della memoria, tra consumismo e tragedia [di Carlo Olmo]

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Il Giornale dell’Architettura 24 febbraio 2016. Sommario: Aspettiamo tutti come inevitabile un museo della più tragica comédie dis-humaine che stiamo vivendo – la migrazione di milioni di uomini – costruito magari a Lampedusa o a Lesbo

L’uso politico della memoria è oggi ormai un dato acquisito. La differenza forse è che oggi lo spartiacque è segnato dalla trasparenza con cui è messo in scena. Se nel 1989 e per più di un decennio la memoria è stata l’oggetto che discriminava il progetto culturale e scientifico dei curatori di mostre o degli scrittori di testi, caduto il muro di Berlino, piano piano quello spartiacque si è prima offuscato, poi è sparito.

E con quello spartiacque si sono via via offuscate le grandi stagioni dei musei della cultura materiale, dell’etnografia come nuovo canovaccio e nuova legittimazione d’intere tipologie di musei, dell’affermarsi delle petites histoires sulla grande storia. Aratri, miniere, torni, piatti e vestiti sono tornati lentamente nell’oblio. Hanno lasciato il posto a tragedie. Pochi hanno sottolineato un dato in realtà impressionante.

Come travolti dai sensi di colpa, quasi tutti i più importanti musei della memoria sono nati e nascono dalla necessità di ricordare tragedie. Dalla Shoah sino alla prima guerra mondiale, oggetto privilegiato dei luoghi della memoria sono quasi sempre avvenimenti e personaggi del “cane nero” che vive dentro un’umanità condannata a una permanente dissociazione.

L’altra faccia dell’uso politico della memoria è diventata la messa in scena del divertimento consumista che ha invaso i territori prima occidentali poi orientali. Accanto ad una memoria della tragedia si sono aperte infinite Disneyland del presente, sino, come a Celebration City (Florida), a far vivere le persone in maniera permanente dentro un parco giochi, dove la memoria era certamente semplificata e banalizzata ma trama essenziale di racconti per generazioni cui la storia non doveva più interessare.

Così a un uso identitario della memoria – all’ebreo, zingaro, oppositore che si poteva riconoscere nel museo della Shoah o nella Topografia del terrore – si è contrapposto un uso citazionista e apparentemente meno pernicioso di luoghi magari ricostruiti interamente, per viaggiatori di un immaginario volutamente superficiale e decontestualizzato. La memoria ha così finito per sanzionare, suo malgrado, il conflitto, ben più ampio, che oggi esiste in società che si vogliono globalizzate.

Le radici, in questa società, non possono che essere identitarie: e quale maggiore forma d’identità vi è della tragedia? Aspettiamo tutti come inevitabile un museo della più tragica comédie dis-humaine che stiamo vivendo – la migrazione di milioni di uomini – costruito magari a Lampedusa o a Lesbo, magari come risarcimento per quei veri cittadini dell’umanità, per gli infiniti disagi e per aver dovuto vivere in presa diretta la banalità del male.

Come aspettiamo, aiutati da una rappresentazione virtuale sempre più invadente e da una necessità di essere connessi senza fine – quasi fosse valore in sé -, chi per primo consentirà una passeggiata tridimensionale in tempo reale per le calli veneziane o per i passages parigini, magari ammantata dalla necessità di non “consumare” fisicamente quei luoghi: viaggiatori accompagnati, quasi necessariamente, da una reinvenzione dei sons et lumières che tanto facevano sognare i visitatori delle Esposizioni universali ottocentesche.

La memoria oggi non è solo un luogo di contese e conflitti: basti ragionare sulla distruzione di Palmira e sul perché si è sentito il bisogno di distruggere “memorie” che si volevano universali. Come appare irrefrenabile la messa in circuito d’immagini di quasi ogni luogo, private di contesto e di ogni lembo di memorie collettive tragiche o meno. Quel che oggi si può domandare è che conflitti e appropriazioni siano sfacciatamente dichiarati. Non si distrugge solo Palmira, si può distruggere il valore delle memorie, facendo diventare universali o identitari luoghi e monumenti.

Forse è utile lasciare le tracce del passato che si possano ricucire anche per le prossime generazioni, anche senza che queste memorie debbano valere per tutti o che siano il povero fondamento d’identità, in seguito inevitabilmente destinate in seguito a costruire steccati.

Un appello inutile? Quasi sicuramente. Il possibile usage politique du passé era già stato denunziato in un famoso testo curato da due grandi storici, François Herzog e Jacques Revel all’inizio del nuovo millennio, nel 2001. Oggi forse una memoria che rimane sospesa tra tragedie e consumismo, fa squillare un campanello d’allarme ancora più grave.

Speriamo che – finita la ricreazione – studiosi, cittadini che vogliano ripensare come si realizza il diritto a esserlo, ma soprattutto una cultura che pensi che non esista una consolazione nella memoria, si risveglino dal sonno della ragione, ricordandosi che la memoria è ben povera, se non è fonte di nuove avventure intellettuali e umane.

Basterebbe a questo proposito forse rileggersi le pagine di Darwin, quando il Beagle sta per lasciare le banchine del porto di Davenport il 27 dicembre 1831.

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