Brexit: una buona dose di Realpolitik [di Nicola Ortu]

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Le prime pagine dei più importanti quotidiani inglesi guardano tutte all’annuncio dell’accordo fra Regno Unito ed Unione Europea, per garantire uno status speciale alla Gran Bretagna all’interno dell’UE. Il primo ministro Britannico David Cameron ha chiamato alle urne i cittadini Britannici, Irlandesi e i cittadini del Commonwealth per il 23 giugno, per decidere le sorti sulla questione Brexit, l’ormai famoso neologismo per indicare l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, analogo al forse più conosciuto Grexit, spinto però da ben altre motivazioni.

A testimonianza della grandezza della cosa, si pensi che Cameron, a detta del Times, ha convocato una riunione di gabinetto dei suoi ministri di sabato, una cosa che non accedeva dal 3 Aprile 1983, ai tempi della guerra delle Falkland. Ma dopo trenta ore di negoziati ed un accordo raggiunto all’unanimità, Cameron dovrà affrontare la battaglia più dura: convincere gli elettori indecisi, non tanto gli euroscettici, ma la stragrande percentuale di Britannici, specialmente Inglesi, che si trovano sul filo di lana fra un appoggio alla permanenza e all’uscita del Regno Unito dall’UE.

La partita sull’Unione Europea attendeva da giorni la sterzata decisiva. Ma che cosa ha portato il leader del partito conservatore a chiamare un referendum così importante? Le vittoria nelle elezioni politiche del 2015, che hanno visto i conservatori consolidare una maggioranza assoluta in parlamento, con risultati che non si vedevano da decenni in quel di Westminster, è arrivata però ad un costo. Considerati gli ancora evidenti strascichi della crisi economica del 2008, un flusso migratorio elevato-specialmente dai paesi dell’Est europeo – hanno fatto in modo che il concetto di integrazione europea subisse un forte arresto nell’opinione pubblica.

Cameron, con una brillante mossa degna del più acuto realista politico, ha voluto soddisfare la parte più radicale del suo elettorato, così come rosicchiare una buona fetta di elettorato al partito degli euroscettici di Nigel Farage-UKIP-promettendo in caso di rielezione un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. In questo modo il premier si è sì assicurato per sè e per il suo partito una maggioranza parlamentare assoluta, ma ha forse firmato la sua condanna politica.

Già prima delle elezioni del 2015, Cameron annunciò di non voler correre per un eventuale terzo mandato al numero dieci di Downing Street, aprendo così la partita per la sua successione alla guida del partito Conservatore. I nomi oscillano, dal ministro delle finanze, George Osborne, che riscuote grande simpatia nella parte più moderata del partito, a Theresa May, attuale ministro dell’interno. Ma colui che in questi ultimi giorni è riuscito a conquistare le prime pagine e una grande copertura mediatica per prendere le redini dei Conservatori è l’uscente sindaco di Londra Boris Johnson, che non si ricandiderà per la carica di Mayor of London.

Quest’ultimo, il 21 febbraio, ha ufficialmente annunciato che non supporterà, al contrario di Cameron, la permanenza del Regno Unito nell’UE. Dietro tale scelta stanno non solo motivazioni politiche, ma, come riportato dal Telegraph, anche motivazioni personali. Non è un mistero che i due uomini più chiacchierati sulla scena politica britannica, che si conoscono fin dai tempi del prestigioso Eton College e dell’Università di Oxford, abbiano una accesa rivalità ben prima di arrivare nei salotti buoni della politica londinese.

Si vocifera infatti che a quei tempi il sindaco di Londra fosse considerato dai più come l’astro nascente della politica nazionale, e non invece Cameron, che al contrario è dipinto come un ordinary man. Che la situazione si sia invertita da quando i due sono entrati nel mondo della politica nazionale non è evidente; che sia la volta buona per l’eclettico Boris Johnson di riappropriarsi dello scettro di leader dalle mani del rivale Cameron?

A livello di relazioni internazionali il concetto di bilancia del potere offre un altro interessante colpo d’occhio sulla situazione del Brexit. Le istituzioni internazionali, da un punto di vista della teoria realista, sono viste come strutture per il mantenimento dello status quo da parte degli stati dominanti. A molti sarà saltato all’occhio il rapido tasso di crescita del Regno Unito dopo le Olimpiadi di Londra 2012, e una dinamicità economica tale da poter mettere addirittura in dubbio la leadership europea della Germania di Angela Merkel, che basa molta della sua egemonia sul sistema Europa. Che il Regno Unito stia cercando di riemergere come potere dominante nel vecchio continente non è un mistero: che l’Europa sia la chiave di volta per una svolta in politica internazionale passando da una rinnovata linea nazionalista britannica?

David Cameron ha giocato forte su una strategia coercitiva, sapendo bene che un Regno Unito fuori dall’UE sarebbe più debole, ma allo stesso tempo tenendo a mente che una Brexit non sarebbe negli interessi nemmeno degli altri paesi membri. Londra è dopotutto il polo economico del vecchio continente, ed agisce da ponte fra le borse asiatiche ed americane, nonché come portale di ingresso alla grande economia europea. Puntando su questo ed altri fattori, Cameron è riuscito a strappare un accordo che, pur discostandosi dalle iniziali richieste, riesce a garantire al Regno Unito uno status di superiorità all’interno dell’Unione.

I cambiamenti che saranno introdotti in caso di permanenza dell’Inghilterra nell’UE riguardano la sfera del welfare, fra cui i pagamenti di assegni familiari ai lavoratori migranti e pagamenti ai lavoratori immigranti: il Regno Unito potrà decidere di limitare i benefit a tali lavoratori entro i primi quattro anni. Per quanto riguarda la sfera economica, il Regno Unito potrà continuare ad utilizzare la Sterlina senza discriminazioni nei mercati Europei. Lo stesso si applicherà alla City di Londra, la cui attività non potrà essere limitata da regolazioni Europee.

L’accordo spazia poi a livello di sovranità, assicurando al Regno Unito la permanenza all’interno di un’Unione così come oggi la si conosce, evitando quindi possibili sviluppi europei sul modello federale tanto caro al nostro Altiero Spinelli. Allo stesso modo, ci saranno più controlli per quanto riguarda le frontiere britanniche, con più aspri limiti ai diritti di libera circolazione per coloro i quali sposino un cittadino comunitario.

L’atmosfera politica qui a Londra si sta facendo sempre più incandescente. La domanda ora sta nel constatare che cosa rimanga davvero dell’Unione: l’accordo con la Gran Bretagna è sintomo di una crescente sfiducia nelle istituzioni europee od una coraggiosa prova di unità e coesione da parte dei leader europei? A poco più di cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale, è bene non dimenticare i motivi fondanti che hanno condotto alla fondazione di una comunità di stati sempre più integrata quale è l’Unione Europea.

Proprio in un momento delicato come quello in cui viviamo oggi non bisogna perdere la fiducia nelle istituzioni europee e nelle possibilità di una più forte unione economica e politica fra i paesi membri. Che la scommessa del premier Cameron sia rischiosa è di per sé evidente, ma ciò potrebbe portare anche aspetti positivi per una più ampia revisione di certi aspetti dell’Unione che, visto un comune malcontento, non funzionano come dovrebbero. Le alternative sono due, o una più forte cooperazione europea tratta da una riforma della stessa unione, o la dissoluzione di un grande ed ambizioso progetto di coordinamento politico.

*Studente cagliaritano Department of War Studies – King’s College London

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