Maria Ripley [di Francesca Gallus]

L'Aquila_eathquake_prefettura

È mattino, finalmente. Le prime luci mostrano i contorni grigi e polverosi di queste rovine. Fumo aspro e nuvole di pioggia nel cielo appena illuminato; è l’ora migliore per uscire a cercare qualcosa da mangiare, prima che la vertigine mi blocchi, in un angolo, al riparo dai proiettili vaganti, a vomitare l’anima. Ho molta fame e molta nausea in quest’ultimo scorcio d’inverno e i miei movimenti si fanno sempre più goffi e pesanti. La caccia è difficile in queste condizioni. 

Il pensiero del cibo mi eccita e mi repelle nello stesso tempo. Ho bisogno di ingoiare qualcosa, di riempire il più possibile e più in fretta che posso il mio ventre gonfio perché so che dopo poco non riuscirò più a trattenere niente e ciò che avrò potuto mettere in corpo andrà ad ingrassare i topi, che già banchettano senza sosta, in questa città di morti. Poco resta della grande metropoli in cui sono nata, niente della società che l’ha edificata.

Individui soli, senza più senso della comunità, di appartenenza, si combattono con ogni attrezzo utile a offendere, per sopravvivere un giorno o un’ora di più. È il dopo bomba, mito della mia infanzia, sempre evocato, raccontato in migliaia di film, di videogiochi, di fumetti. È finalmente arrivato, ed è in tutto simile a quello che avevamo immaginato: buio, freddo, grigio e nero, rovine fumanti, uomo contro uomo.

Non c’è più legge, non c’è più Dio e mi muovo senz’altra speranza che prima della fine ci sia un evento che rimedi a tutto questo, una miracolosa redenzione. Per strada non c’è più strada, ci sono spazi aperti ingombri di macerie e circondati da monconi di muri, di costruzioni o di altri materiali, carbonizzati. Carcasse di auto, carogne, scoppi e incendi improvvisi.

Di giorno, finché la fame non è scongiurata, muoversi con circospezione, fin dove si può arrivare. Una tana fra le macerie per passare ogni notte incerta, all’erta ad ogni rumore, ad ogni odore più dolce del solito. Perché è dolce l’odore degli uomini e degli animali da temere: i topi, i cani. I gatti, prolifici, difficili da prendere ma buoni da mangiare, non sono pericolosi. Ma questi ratti repellenti, grossi e violenti, li decimano, come nei peggiori cartoni animati.

La vita è semplice e dura in questi giorni d’inverno. Poche cose da pensare, poche esigenze, poca scelta. Fino a qualche mese fa, all’inizio dell’autunno, si potevano ancora trovare molti generi alimentari, scatolame, perfettamente commestibile, nei pressi degli ipermercati della prima cintura periferica. Strano ma nessuno ne ha fatto incetta: si prendeva solo quello che si riusciva a portar via in una volta, il resto, finché dura, per chi viene dopo. Da questo ho capito che non deve essere rimasta nemmeno molta gente in gamba, in grado di spostarsi abbastanza lontano, perché gli ipermercati sono molto distanti da qui, dal centro città.

Io non sarei già più in grado di raggiungere quelli che frequentavo, perché resisto sempre meno la fatica e muovermi diventa difficile e pericoloso. È difficile trovare da nascondermi, un riparo abbastanza grande da celare tutta la mia figura è raro e, se c’è, instabile e pericolante, è più micidiale dei cecchini. Non siamo in molti, ma finiti i viveri disponibili, esauriti per sempre i sapori familiari, siamo diventati molto più feroci.

Attenta a tutto, chiunque può farmi fuori, per mangiarmi, per sopravvivermi. Ho trovato, per difendermi, diverse armi: un coltello, da macellaio credo, una picca, sarà stato un utensile da marinaio, una mazza di legno, relitti di un mondo di sport. Altri, meglio armati, dispongono di pistole e fucili da caccia, e contro i proiettili le mie povere difese non possono nulla. Cosa ci sia altrove non so.

Potrebbe non esserci più niente: ovunque morte, noi, qui, soli superstiti; potrebbe essere come qui, mille e mille bombe uguali, di uguale potenza devastatrice, cadute in ogni città, in ogni abitato, a lasciar vivere solo i più forti. Oppure potrebbe essere tutto come prima, intatto, efficiente, attivo. E noi isolati, come appestati chiusi dentro il lazzaretto, abbandonati dagli altri esseri umani a morire come bestie. Dal giorno della bomba non ho più mondo che non sia questo mondo di atroce paura. Non ricordo quasi niente degli avvenimenti che ci hanno portato qui; un lampo nel cielo, abbacinante, che mi ha lasciato cieca per diversi giorni, un rombo assordante, che mi ha spaccato i timpani e fatto sanguinare le orecchie.

E poi il crollo immane di ogni struttura e il fuoco, ovunque, rombante, ciclopico, infernale. E nel rumore e nel calore che fa accartocciare le ciglia, dietro le palpebre venate di rosso, oltre il bianco lattiginoso del colore del lampo, per il delirio della debolezza e dell’infezione ho visto figure innominabili, correre e saltare, e volare sulle rovine. Nere come sagome sataniche, lucide. Brillanti, alate, crudeli come angeli.

Le loro strida acute risuonavano nella testa e nel petto, aumentando i brividi, già violenti per la febbre, fino a farmi tremare come in preda all’epilessia. Sono stata semisepolta fra massi e travi d’acciaio la faccia incrostata di polvere il naso pieno di fuliggine, a soffrire la fame e la sete sino a quando la lastra che mi bloccava è stata sollevata. Ho potuto muovermi, strisciare fuori, ma le poche forze non mi hanno permesso di mettermi in piedi e sono caduta in ginocchio, a capo chino, per poter tenere facilmente gli occhi bassi e non guardare mai colui che mi soccorreva.

Tenevo le braccia incrociate sul petto, le mani a stringermi le spalle per la paura ed il freddo improvviso che mi ha raggiunto il cuore. Mi copriva solo una lunga maglia, bianca di calcina, che usavo per dormire, e che ancora indosso sotto gli strati di indumenti rimediati in giro. Non so per quanto tempo sono rimasta immobile. Poi il mio salvatore mi ha messo in piedi, di fronte a lui, leggera come una nuvola, mi ha posato sulle spalle una coperta azzurra, mentre una pioggia leggera cominciava a cadere, e ho visto le sue ali, ho sentito il suo fiato, la sua voce che mi sussurrava parole di una lingua sconosciuta: un annuncio, un presagio.

Potevo distinguere solo il mio nome: Maria, un nome dolce e antico, ripetuto e ripetuto. Sulla mia veste si allargava, scarlatto, un fiore di sangue. E senza alcuna ragione ho sentito che le forze mi tornavano, nonostante il digiuno e le ferite, e mi è sembrato di sentire nel mio corpo un vigore nuovo, l’alito di una nuova giovinezza. Da allora il mio aspetto è mutato ogni giorno, i seni più gonfi, i fianchi rotondi, fino a quando ho capito che dentro di me sta crescendo qualcosa, che mi è stato imposto, introdotto in qualche modo che non so, in un momento di cui la mia coscienza non ha ricordo.

Mi indebolisco e mi consumo per quest’ospite che si nutre   di me, odio e amo questo parassita avido che cresce nelle mie viscere. Ho il viso gonfio, occhiaie, le gambe sempre più stanche, perdo agilità e sono preda di nausee incontrollabili, squassata dai conati. L’orrore del ricordo dell’essere che mi ha salvata mi invade i sogni, e squame, scaglie creste, bargigli, vertebre, denti, artigli compongono nella mia mente l’immagine ripugnante del figlio che partorirò. Molte parole hanno perduto senso dal giorno dell’esplosione: casa, amico, amante; ma madre, figlio sono parole che non potranno mai essere dimenticate, e che sono incise nella mia carne e portate dal mio sangue ad ogni battito del cuore.

 

Porto dentro di me la vita e devo lottare, conservando audacia e coraggio, anche per questo. Per vedere il frutto del mio ventre, che non so quando maturerà, ma sento crescere ogni istante nutrendosi della mia linfa. Ho sedici anni; erano pochi per generare un figlio prima della bomba, è l’età più giusta adesso. Sono sana, giovane, adatta. Nonostante tutto l’esperienza non mi ha ancora insegnato a diffidare, ho il cuore intrepido dell’adolescenza, ho l’età della madre di Dio.

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