La GPA attiene all’ordine simbolico della madre [di Maria Giovanna Piano]
Nel sofferto dibattito in corso sulla GPA il confronto ha visto momenti di forte conflittualità e come spesso accade, quando la posta in gioco è alta, gli assoluti tendono a farla da padrone. In questo caso gli assoluti del desiderio, del diritto e ahimè delle interdizioni.Il clima da crociata proviene da più parti ed è arrivato, in alcuni momenti, ad oscurare persino la più elementare e lapalissiana delle verità, ossia che a tutt’oggi, piaccia o meno, siamo tutti nati di donna. L’incubatrice, che in un futuro prossimo porterà da concepimento a compimento molti degli esseri che verranno, costituirà il decisivo pezzo di una catena di montaggio tecnologico funzionale alla completa esternalizzazione del servizio infanzia lieta, e chissà taglierà in radice alcuni dei dilemmi che ora ci arrovellano. Ma nel nostro presente per mettere al mondo una creatura ci vuole una donna. E non una porzione di donna, ma una donna intera che respiri, mangi, beva, cammini, insomma un essere umano vivente di sesso femminile. Con buona pace degli uomini e delle novelle Atena, uscite armate di tutto punto dalla testa di Zeus e scese in campo a darci lezioni di modernità riproponendoci, in tema di generazione, qualcosa che sembra riecheggiare niente meno che le stantie argomentazioni dell’Apollo di Eschilo, buone per mandare assolto il matricida Oreste, ma decisamente fuori tempo massimo per neutralizzare la millenaria competenza materiale e simbolica delle donne in fatto di nascita o per avere la meglio sul lavoro fatto per restituire alla madre la centralità politica che le spetta. Non ci si sbarazza della madre con i mantra dell’omologazione paritaria o con quattro ridicole considerazioni sociologiche sull’intercambiabilità dei ruoli, né la si può svilire incorporandola a una idea di natura quale detrito residuale della più nobile Cultura, come vorrebbero coloro che, per fuggire il determinismo biologico corrono con entusiasmo verso un’eugenetica da supermercato. In materia di nascita, e non solo, non c’è simmetria tra i sessi. Madre non è il femminile di padre. Senza il riconoscimento di questa disparità la presa di parola cade nel più sterile marasma simbolico. Non ci si sta accapigliando unicamente per garantire i diritti ai bambini, diritti che per quello che mi riguarda sono fuori discussione, come è fuori discussione, per me, il riconoscimento delle nuove formazioni familiari. Non si farebbe tanta cagnara per garantire pensioni vedovili o per ristrutturare assi ereditari di coppie che possono permettersi di spendere una cifra per dar corso al proprio desiderio. Oltre alle importanti questioni etico giuridiche, analizzate nel dibattito, credo proprio ci sia dell’altro. C’è un cuore politico della questione che non fa capo ai partiti e attiene, ancora una volta, all’ordine simbolico della madre. E’ attorno alla scena originaria della nascita che è divampato il conflitto, e a quella scena occorre tornare perché è lì che ci aspetta un ineludibile e impegnativo lavoro di risignificazione a cui tutti siamo chiamati, donne e uomini. Ma non si entra in quella scena a gamba tesa e con i toni trionfalistici da conquistatori del nuovo mondo, sventolando una carta dei diritti da far valere come passaporto per ogni dove. Ci sono passaggi che non si possono saltare. E’ costretto a tenerne conto anche il mercato che sulla messa a valore del desiderio costruisce fortune, e che con scrupolosa attenzione rileva i fabbisogni etici della filiera, per approntare in tempo reale le maschere etiche adatte alla bisogna. Né li salta il marketing pronto ad aggiustare il tiro e a declinare lo scottante contratto GPA come il portato di una nuova antropologia del dono. Circolano già nei social pseudo ricerche con report di interviste alle contrattualizzate GPA, un coro di offerenti che recitano tutte lo stesso copione: non è un lavoro è un atto d’amore, e il dono fatto ai committenti consiste nel rischiare la propria vita per donarne una ad altri (sic). Non c’è che dire, la mistica sacrificale è una buona mediatrice anche per la razionalità tecnologica. Io non discuto, anche se si potrebbe visto che qui si confrontano opinioni e non si emettono verdetti, su quello che liberamente una donna fa del proprio utero e del proprio corpo, discuto moltissimo, invece, su quello che una donna o un uomo fanno dell’utero e del corpo di un’altra, per realizzare il proprio personale desiderio. Ritengo che in questo caso il “come” costituisca una dirimente e sostanziale misura di legittimità del desiderio stesso. Non sto teorizzando la mortificazione dei “non destinati”, sto dicendo che ci sono desideri profondamente umani che non possono essere rivendicati come diritti né, per contro, possono essere normativamente repressi, vanno piuttosto interrogati sapendo che il desiderio di un figlio non è desiderio di qualcosa, ma di qualcuno. Tutte/i sperimentiamo i benefici e l’ampliato orizzonte delle possibilità offerti dalla tecnologia ma di quella Razionalità che ha sottratto la nascita alle circostanze della vita, occorre disinnescare il dispositivo di potere e controllo che si esprime, come giano bifronte, all’interno, nella ferrea disciplina contrattuale e nelle forme procedurali che smontano corpi e relazioni, e all’esterno, in una paradossale imitatio di libertà che conduce ai sentieri melodiosi di una super incentivata permissività. Un lavoro non da poco, un lavoro della soggettività. E per intanto c’è una soggettività femminile, la stessa, per intenderci, che ha strappato la maschera del neutro alla cultura maschile, che non è disposta a farsi dettare l’agenda da quella Razionalità Tecnologica. Né accetta di assistere indifferente al fatto che la donna che partorisce un essere sia ridotta ad un dettaglio di poco conto. Perché quel dettaglio pesa come un macigno e per quel dettaglio passa la misura e il punto di equilibrio del rapporto tra desiderio e scelta. *Filosofa |
Molte grazie Maria Giovanna
condivido la tua analisi e ti ringrazio
bella analisi, condivisibile in moti punti. Ne desumo che quello che fa la differenza, che umanizza rapporti che sarebbero solo tecnico commerciali a fini riproduttivi è la relazione tra le persone, uomini e donne, uniti in modo diverso dal tradizionale, ma comunque in relazione affettiva al fine di portare al mondo un nuovo essere umano. Se le cose vengono viste così si ha comprensione di un fenomeno che altrimenti si guarda solo con paura.