Gramsci prigioniero tra bianchetti e pennarelli [di Giorgio Fabre]
Rivista “l’INDICE DEI LIBRI DEL MESE” 7/03/2016. Quella che si racconta qui è una piccola storia di documenti. Ma con grandi protagonisti e soprattutto, sullo sfondo, le vicende dello sfarinamento di un grande partito, il Pci, e di un suo grande motivo d’orgoglio: la sua rocciosa tradizione storiografica. La storia è riassunta in un breve appunto inedito di Alessandro Natta dell’ottobre 1988, conservato tra le sue carte nell’Archivio storico della Camera (fasc. 1156): “Perché non pubblicato tutti?/ Nel libro 14 documenti / e invece mi sembra siano 18. Manca una lettera! [punto esclamativo rosso]/Non pubblicato verbale:/ comintern (segr.) del 27/12/34”. I documenti di cui Natta sta parlando nell’ottobre 1988 sono ancora inediti. Sono quelli che, da segretario del Pci, il 29 marzo 1988, a Mosca, gli ha consegnato Gorbačëv e riguardano i tentativi sovietici di liberare Gramsci dal carcere fascista. A ottobre, gli sono tornati in copia tradotta dopo uno strano giro. Ad aprile, il segretario del Pci li aveva fatti tradurre, e aveva consegnato le traduzioni a Paolo Spriano. Questi le aveva girate a Giulio Andreotti perché facesse delle verifiche in Vaticano. Alla fine di aprile, Natta ebbe un infarto e poco dopo, a giugno, venne scalzato da Achille Occhetto. Ma a settembre morì, d’infarto, Spriano. Allora, in suo onore, l’Istituto Gramsci decise di tirar fuori le traduzioni e di pubblicarle in un libretto, “L’ultima ricerca”, pronto il 15 e uscito il 27 ottobre. Natta doveva scrivere la prefazione e per questo gli inviarono i documenti: l’appunto è la sua reazione sconfortata perché i conti non gli tornavano. L’ex segretario ricordava diciotto documenti. Le traduzioni per il libretto che ha davanti agli occhi sono invece quattordici. Dei quattro documenti mancanti, due li ricorda, una lettera e il verbale Comintern: quest’ultimo, l’Istituto Gramsci non lo pubblica, ma in un secondo tempo glielo recapita in traduzione dattiloscritta. Del documento numero 17 e 18 invece non dice niente. I ricordi di Natta sono precisi. Il verbale ce l’ha davanti e non sa perché non sia stato pubblicato. La lettera invece non l’ha davanti. Eppure ha ragione. È del 1937, da Mosca all’ambasciatore russo a Roma. Insieme al verbale Comintern, è saltata infatti fuori di recente dalle carte Andreotti ed entrambi i documenti sono pubblicati nel mio recente libro, “Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato” (Sellerio, 2015). Pare ovvio dedurne che neanche i documenti n. 17 e 18 fossero una sua stralunata invenzione. Adesso, alla vicenda dedica un saggio, sulla gloriosa rivista “Critica marxista”, un promettente studioso, Leonardo Pompeo D’Alessandro, che ha visto le carte Natta e quelle di Valentino Gerratana, lo storico dell’Istituto Gramsci (presso cui queste ultime sono conservate) che curò la pubblicazione di “L’ultima ricerca”. La ricostruzione di D’Alessandro non si discosta da quella fatta da me, ma aggiunge alcuni particolari, come il nome del traduttore, un funzionario Pci dell’epoca. Invece le memorie di uno dei presenti all’incontro con Gorbačëv confermano che a Natta furono consegnati dei documenti. Che fossero stati consegnati dei documenti in russo era già chiaro, ma ora, aggiungo io, è più consistente l’ipotesi che i documenti fossero gli originali fotocopiati, o parti di essi. E se erano gli originali, riportavano le indicazioni archivistiche da cui risalire ai veri fascicoli a Mosca. Ebbene, quei documenti in russo in Italia sparirono subito e gli originali, da allora, non sono mai stati trovati. In un finale piuttosto crudele, D’Alessandro pubblica anche uno scambio epistolare tra Natta e Gerratana proprio sulla perdita dei testi russi. La trascrizione delle lettere è funestata da alcuni errori che lasciano qualche dubbio (“decidevano” per “chiedevano”, forse un “mi chiedevi” per “mi chiederai”). Il risultato in ogni caso è questo: Natta ricorda di aver dato a suo tempo gli originali a Spriano, ma non è sicuro; viceversa, Gerratana arriva a sospettare il traduttore. Successe anche dell’altro, che D’Alessandro tralascia: Gerratana in un primo tempo fraintese e capì che i russi avevano dato agli italiani le traduzioni: così citò Paolo Mieli, che vide in anticipo la prefazione di Gerratana al libretto. Probabilmente intervenne Natta, perché l’errore nel libro fu corretto. E adesso il motivo vero per cui D’Alessandro ha scritto il saggio: ricostruire le vicende di un altro di questi documenti (stiamo sempre parlando delle traduzioni, ovviamente) e che di recente ha acquistato qualche notorietà: la “lettera del pennarello”. È la lettera del settembre 1927 del rappresentante del Pci a Mosca al capo del Comintern, Bucharin, in cui si chiede la liberazione di Gramsci e Terracini. Una foto della traduzione proveniente dall’archivio Andreotti è pubblicata nel mio libro: si vede che due serie di parole sono state cancellate col pennarello. Chi sia lo “sbianchettatore” non è chiaro. Per vari motivi, tra cui l’interpretazione di quello che poteva esserci scritto sotto, nel libro ho ipotizzato che si potesse trattare di una censura operata da Natta. Secondo questa ricostruzione, il pennarello aveva cancellato alcune critiche che nel 1927 i sovietici avevano fatto al rappresentante del partito italiano a Mosca, Egidio Gennari, per quella lettera: gli italiani avevano parlato al passato di Gramsci e degli altri dirigenti arrestati, mentre i sovietici li consideravano in carica; inoltre, l’uso per Gramsci della parola “capo”, non era adatto per dei bolscevichi. Queste le critiche. D’Alessandro da parte sua sostiene che quelle cancellature furono invece opera di Spriano e apportate per ragioni “redazionali”. Lo dimostrerebbe il fatto che anche le note di commento di Spriano contengono “pennellature” simili. A parte il fatto che un pennarello non lascia impronte digitali, le cose non stanno proprio così, o solo così. Infatti, sia nelle copie del fondo Natta sia in quelle del fondo Gerratana ci sono molte altre cancellature col pennarello; e ci sono interventi, integrazioni, cambiamenti. Spriano “pennellò” non solo le note, ma i testi. Eppure, proprio e solo l’acquisizione delle copie delle traduzioni dai fondi Natta e Gerratana (sono tra l’altro leggermente diverse tra loro) permette di dire che la prima cancellatura (ma solo quella), è opera certamente di Spriano. Ma non per i motivi detti da D’Alessandro. D’Alessandro non ha notato che la prima frase è cancellata direttamente sul foglio mandato ad Andreotti: tanto che l’inchiostro del pennarello è passato dall’altra parte: volendo, si potrebbe perfino intervenire chimicamente per capire che cosa è stato cancellato. È una correzione apportata da Spriano, perché sopra questa parte c’è anche un intervento a biro, ed è la stessa biro con cui Spriano aggiunse nella prima pagina in nota, il nome “Egidio Gennari”. Solo ora però, con in mano le copie del fondo Natta, si può affermare che sia il primo colpo di pennarello, sia la nota, sono opera di Spriano: nelle copie successive, del fondo Natta e Gerratana, la nota col nome di Gennari infatti non c’è. Quanto alla seconda cancellatura col pennarello, nella “copia Andreotti” essa è fotocopiata: fu fatta quindi prima che il documento fosse inviato ad Andreotti, forse da Spriano, ma non si può escludere nessuno, neanche Natta. D’altra parte, questi scrisse l’appunto dell’ottobre 1988 avendo i testi davanti agli occhi, e non fece una piega. Infine, D’Alessandro accoglie la lettura che ho tentato di alcune di quelle righe coperte dal pennarello. E quindi pare accettare che si tratti di critiche agli italiani. Levarle che cosa può essere stato, se non censura di quelle critiche? Resta il fatto, sia che il censore sia stato Natta sia che sia stato Spriano, che l’insieme degli interventi su quei documenti (penna, pennarello e quant’altro) fu perfettamente antiscientifico: formule burocratiche cambiate, pronomi mutati, il riferimento a una traduzione francese cancellato. E c’è di peggio. Per esempio è vero che sparì subito il secondo documento (in traduzione), poi riaffiorato dall’archivio Andreotti. Ma il primo, il verbale Comintern, stralciato, restò in copia nelle carte di Gerratana e all’Istituto Gramsci. Da allora è rimasto lì, ignorato. Ancora: uno dei documenti pubblicati (un verbale del 1935) è monco della fine. Ebbene, Spriano se ne accorse e lo indicò sul dattiloscritto; Gerratana, il vero editore, fece finta di niente e il lettore non ne seppe nulla, fino ad oggi. D’Alessandro, in un’estrema difesa dell’Istituto Gramsci, su tutti questi dati, antico vizio di questa scuola, sorvola. Ignora l’appunto di Natta sui 18 documenti. Non parla degli interventi sui testi. Sostiene che il verbale “dimenticato” è poco importante: non è vero, ma in ogni caso i documenti si pubblicano, non si omettono, tanto più se un governo o un partito li ha ritenuti così rilevanti da fornirli a una delegazione politica. Peccato, perché lo scopo di D’Alessandro dovrebbe essere un altro, lo stesso mio: ottenere che i russi finalmente diano i documenti originali, con tutto il contorno dei fascicoli. Così tutti i precedenti pasticci verrebbero messi da parte. |