Testimonianza di un’amicizia. A dieci anni dalla scomparsa del poeta Raimondo Manelli (2) [di Gian Carlo Buffa]
La partecipazione alla vita pubblica ha caratterizzato l’intero itinerario di questo nostro poeta dalla vitalità incoercibile che non si lasciava imbavagliare da posizioni di comodo (vedi le prese di posizione su “Conflitto linguistico come pretesto” o “Poeti e lettori fra la giungla dei premi letterari”), di questo poeta dall’ironia amara, di questo “poeta degli affetti e dell’amore, poeta della moderna solitudine”, annota Paola De Gioannis nella prefazione a Frontespizi, a cura appunto di Manelli, Aipsa Edizioni 1997 Sebbene talora non fossimo in perfetta consonanza d’idee, il confronto dava sicuramente buoni frutti; alla fine mi sentivo notevolmente arricchito. Sono grato a questo nostro conterraneo anche per avermi voluto ricordare in qualche suo componimento. Le poesie dedicate agli amici nel volume “Agrifogli” sono raccolte nelle pagine riservate alle “corrispondenze”. Rammento ancora il tono della voce che vibrava di sentimento affettuoso quando lesse quella che mi riguardava: era la replica fraterna ad alcune considerazioni che facevo intorno ai sonetti irriverenti. “Anche tu, che mi leggi a cuore aperto/ trovi che i versi miei sanno d’amaro/ e mi vorresti, forse, meno avaro/ di buonumore, esente da sconcerto./ Quello che conta, dopo aver sofferto,/ -mi dici- è il gusto di veder più chiaro/ tra quello che si sogna e ci è caro/ e l’inganno che poi viene scoperto./ La sete di giustizia è senza fine/ -rispondo- e l’uomo ama solo se stesso:/ tra quel che sa e che fa mette a confine/ il suo vantaggio, in nome del progresso./ Così le più adorabili dottrine/ son profanate fino all’insuccesso.”/ . Era nel giusto, nondimeno gli raccomandavo di evitare d’offrire di sé un’immagine che poteva apparire distorta, quella di poeta del “risentimento”. Riandava alla sua fanciullezza, quasi a voler sanare ferite mai rimarginate, all’età che lo vide sacrista bambino. In quel tempo usciva di casa molto presto, fra le quattro e le cinque del mattino, preso dal sonno e dal gelo, accompagnato dalla madre. Munito di lanterna (la luce elettrica doveva ancora arrivare), andava in chiesa a suonare le campane, ad annunciare il nuovo giorno al villaggio addormentato, al villaggio natio, Gavoi, luogo delle radici e dello spirito, con poche case e qualche lampada lungo la strada maestra. “ A nove anni ero già campanaro/ scampanavo per tutto il paese/ a battesimo, a nozze, a morto;/ e sull’altissimo campanile/ non ero più grande di un rondone./ Se c’era vento, mia madre/ mi accompagnava premurosa all’alba/ per il tocco dell’avemaria:/ mi sorreggeva forte sul palchetto/ contro la furia del nevischio.” Con un cognome d’origine peninsulare, dai richiami al mondo contadino, Raimondo Manelli intese confermare la propria identità al fianco dei lavoratori: era un modo di farsi prossimo, dar loro voce, di trasmettere una volontà di vivere, di metterli al centro, trarli dalla loro marginalità, di ripercorrere le tappe del proprio riscatto. Su questa incrollabile scelta di campo insisterà sempre: “Quando il poeta prende la parola/ non chiede il plauso infido dei potenti:/ i pensieri gli giungono coi venti/ dai monti e da ogni più remota gola./ Nella notte dei mostri egli si schiera/ in difesa degli uomini operosi:/ incita i pigri, consiglia i dubbiosi/ offre un valido appiglio a chi dispera.”. Raimondo compose in versi la propria biografia, alla maniera del padre che scrisse la sua curvo sulle zolle dei campi altrui, consumando un poco ogni giorno l’esistenza per pagare il diritto alla vita. In una delle innumerevoli conversazioni, nel ripiegarsi ogni tanto su se stesso, mi parlò del babbo, uomo timorato di Dio e dei “signori”, che accettava le sofferenze come un fatto ineluttabile, quasi fosse nell’ordine delle cose che i ricchi fossero sempre ricchi e i poveri sempre più poveri, in una spirale perversa e senza fine; della madre, profondamente religiosa, dotata di forza paziente, che nel fornirgli punti di riferimento stabili prefigurava per lui un avvenire migliore; della gioia provata nell’apprendere che la poesia “Mia madre popolana” fosse stata tradotta in francese. Nella traduzione curata dal linguista Georges Mounin, con cui venne in contatto a Canazei negli anni Cinquanta, al Secondo Convegno della Giovane Poesia, il poeta volle leggere l’omaggio reso anche al proprio genitore. L’attaccamento ai familiari era sconfinato, come egli stesso confessa nel racconto autobiografico “La madre di Gonario”, scritto a Fiuggi quarantaquattro anni or sono, inserito in appendice al suo ultimo volume di poesie, “Empatie di varie stagioni”, Aipsa Edizioni, ottobre 2002, che Leandro Muoni definisce – cito testualmente dalla prefazione- “il Libro degli Amici: i quali si riconoscono naturalmente nei volti dei contemporanei, ma anche nei frontespizi dei libri; e soprattutto negli accenti degli auctores, i veri compagni di strada di questo viaggiatore nel tempo, dal bagaglio scrupoloso e leggero”. La prima silloge vide la luce nel 1935, grazie al prof. Gabriele Iezzoni, l’insegnante di Pedagogia e Filosofia dell’Istituto Magistrale Superiore di Nuoro, destinato nell’Isola da Sulmona. Intuendo le potenzialità del giovane allievo diciannovenne, il docente volle pubblicare il volume a sue spese. L’avvenimento destò grande interesse nella scuola. Intanto Antonio Scano, di professione avvocato penalista, scrittore e uomo politico di Neoneli (1859-1945), trapiantato poi a Cagliari, che aveva già fatto conoscere Grazia Deledda al pubblico agli inizi della carriera letteraria, gli dedicò una recensione sul periodico “Sardegna”. Ma la vita sonnacchiosa del capoluogo barbaricino appiattito sui modelli della parlata sarda cominciava a stare stretta al giovane Manelli, che aveva provato il piacere della lettura dei classici nei duri anni trascorsi nel capoluogo: per chi viveva in ristrettezze economiche e in un piccolo paese, il seminario dei frati cappuccini costituiva una delle poche possibilità nella Sardegna di allora d’andare oltre l’istruzione elementare. E se in seminario gli era stato impedito di curare la vocazione dei versi, lo si lasciò libero di coltivare almeno la passione per la musica. Conseguito il titolo di studio, intraprese l’insegnamento ad Aritzo nel 1935-1936, dove ebbe come allievo alle elementari Tonino Mameli, futuro sindaco del paese e docente universitario di Pedagogia. Vinto il Concorso Magistrale, poté avvicinarsi a Cagliari e continuare gli studi alla Facoltà di Magistero, istituita proprio nell’anno accademico 1938-1939, in cui si era trasferito da quella di Roma per sostenere regolarmente gli esami. Quattro mesi prima della laurea, la madre si spegneva a neppure sessant’anni, nel 1940. Il 10 giugno il fascismo portò l’Italia verso l’orrore della guerra. Inviso al conformismo dei benpensanti, in quanto ritenuto irriverente e dissacratore, lascerà ben presto la Sardegna: “Per chi arriva dai remoti continenti/ è un grembo d’amore l’isola./ Solo a chi nasce povero è matrigna./ Dagli anni più acerbi/ ho cercato un paese ospitale/ che mi riconoscesse per figlio,/ ma non l’ho trovato mai/ (…)/ Come posso tornare al mio paese/ dove un letto non ho per riposare?” A lungo Raimondo lamentò una sensazione di vuoto e di perdita, un sentimento di orfanità e di dolore rispetto alla sua piccola patria. Ma a dispètto di tutto, rimase intatto l’amore per Gavoi e per la sua terra. “O mio villaggio bianco, in mezzo al verde, / tu vivi innanzi a me come in un sogno, / se ti guardo dal colle, e vivi come/ fuga di tetti rossi incontro al monte./ E novero le case ad una ad una,/ ti benedico come un patriarca/ antico, e tutto in un abbraccio solo/ ti sento: dalla Serra al Camposanto,/ da Sant’Antonio a San Giovanni./ Celeste è la tua pace, a chi contempla/ inondati di luna i tuoi sentieri./ Io lodo la tua grazia nel mattino,/ se splendono i graniti al nuovo sole,/ se il fiume empie la valle di canzoni,/ lieto dei pioppi, che si dàn convegno/ presso la riva, a ragionar d’amore./ E lodo le tue fonti nel meriggio:/ fonti degli orti, fonti dell’altura/ ove bevvero i padri taciturni,/ con le coppe di sughero, a conforto/ delle vigilie, sulle rupi torve./ Nessun acqua fu mai tanto soave/ per il cuore del nomade, nessuna/ lascia nel cuor tanta nostalgia./ Al cuore che ritorna, ricompare/ la cara infanzia, come in un velario:/ ogni sentiero, un volo di farfalle,/ una reggia dorata, ogni tugurio./ M’avresti amato, forse, se non fossi/ ostile alle tue consuetudini,/ o mio villaggio antico./ Nemmeno negli anni futuri/ vorrai perdonarmi/ d’aver diffuso tra la buona gente/ dottrine incendiarie, che mettevano in forse/ l’antica virtù dei notabili,/ l’onestà dei mercanti/ che lungo le strade maestre/ ostentavano le case a molti piani./ E dopo così lunga ostilità/ forse avrei barattato/ la nostalgia di te con altra terra/ ove fossi profeta migliore,/ se, trepido, il cuore/ non fosse per tutte le strade/ ove passò mia madre/ torcendo il fuso e dipanando il filo/ a gara col tempo./ Isola mia, modesta impronta/ di piede contadino,/ chiudi gli orecchi alle lodi/ dei ricchi adulatori/ che baciano le tue rive/ scoprendo i denti d’oro./ Spopolata sei,/ anche assetata e incolta/ terra di mandorle amare, di pascoli contesi/ di pecore migranti/ di olivastri e di ferule/ di cardi e di peri selvatici, isola di svernamento/ ancora vai/ a passo di pecora/ con molti asini e pochi cavalli,/ terra d’interminabili discordie/ di pastori all’addiaccio/ e allevamenti bradi,/ isola malsicura e sfiduciata/ tra cespugli e pietraie,/ tra incendi e sentore di sangue/ i tuoi cento dialetti,/ il tuo canto triste./ Richiama i figlioli emigrati:/ che insieme ti calzino un sandalo nuovo/ per le novissime strade/ del mondo, che impetuosamente muta.”¹ Nel rileggere i suoi componimenti, sono portato a immaginarlo tuttora nelle vesti di antico aedo, in prazz’e cresia, nelle feste di villaggio, tra la sua gente . Glielo dissi, un giorno, lui sorrise, poi di rimando: “Prima che fosse scritta, la parola/ vagava in ogni dove nuda e sola./ Ma poi si mosse sulle ali del canto/ e destò tutti i cuori al riso e al pianto./ Il cuore dei poeti fu il suo trono; / si chiamò poesia: parola e suono./ I cantori più prossimi ai nuraghi/ erano insieme sacerdoti e maghi./ E con l’arte dei versi e delle rime/ scienza e virtù sfioravano le cime./ E cantando, cantando, per scommessa/ raggiunsero i segreti della Messa./ E successe così che il latte e il vino/ si tramutarono in sangue divino.” Ricordo i tanti momenti trascorsi nella libreria “I poeti”, che aveva aperto a Pirri, in via Santa Maria Chiara 16, poco distante da Piazza Italia. L’aveva aperta non con miraggi di guadagno (ci accomunava finanche il profondo distacco dal danaro), piuttosto con la segreta speranza che potesse diventare un luogo d’incontro di uomini e di idee. Della strenua lotta in difesa dei poeti e per la divulgazione della poesia ha lasciato traccia in articoli e relazioni. Con spirito riconciliato, il paese l’onorava dando alle stampe “L’Isola è una conchiglia”, Edizioni della Torre, 1991, l’antologia predisposta con studiosa cura da Pasquale Maoddi e Pier Gavino Sedda dell’Associazione S’isprone. “Ci sono voluti cinquant’anni – disse a quanti lo festeggiavano – per scindere la politica dalla religione e la nobiltà di sangue da quella delle opere. Ora da voi ho più bisogno di affetto che di notorietà”. Prima che le forze lo abbandonassero del tutto, affermava che in fondo non gli erano mai venuti a mancare stima e solidarietà. Fra i riconoscimenti menzionava la tesi “Raimondo Manelli e la poesia italiana contemporanea”, discussa dalla giovane universitaria Paola Giraud presso l’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa “di Napoli, nell’anno accademico 1969-1970; il “Premio della cultura” conferitogli dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1977; le pagine che la studiosa Gisa Giani gli dedicò nella sua “Raccolta di voci bibliografiche su Terni e dintorni” pubblicata dalla Deputazione di Storia patria di Perugia; l’ospitalità che versi e scritti hanno trovato in periodici, quotidiani ed antologie a divulgazione regionale e nazionale. Vorrei concludere ricordando la prima volta che venne a casa a pranzo. Appena vide il pianoforte, per donarci qualcosa di sé, improvvisò una breve sonata, pieno di gioia come solo un bambino sa essere, felice degli applausi con i quali i miei familiari ed io lo ringraziammo.
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