In hoc signo [di Umberto Cocco]

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Dodici tele, due sculture, una cappellina votiva dedicate all’Ardia di San Costantino sono esposte a Cagliari da oggi e sino al 7 maggio nella sede della Fondazione del Banco di Sardegna, opera di quindici artisti selezionati da Vittorio Sgarbi e Santino Carta per la mostra dal titolo “In hoc signo“.

Uno di loro non più vivente, Antonio Amore: sua è l’immagine della copertina del catalogo, della locandina della mostra, il quadro forse più significativo. Catanese dall’avventurosa vita di artista dopo la campagna d’Africa e la prigionia in Kenia, artigiano, scultore, poeta e docente, attore istrionico, animatore culturale, amico dei futuristi e di Balla a Roma, riparò in Sardegna nei primi anni ’60 in una cantoniera sui rilievi tra Nughedu Santa Vittoria e Austis, poi a Oristano alla Scuola d’Arte fondata da Francesco Ciusa.

Visse tutta la fase dell’epopea delle zone interne – pastorale, arcaica – a cui sembrava potesse essere affidato un riscatto della Sardegna intera. Ma anche quella della disillusione. Nella periferia occidentale di Oristano – sposato, non placato nelle sue inquietudini – nella villa stracolma delle sue opere, cristi, pecore crocifisse o in poltrona, e pecore lupi, ha continuato a lavorare sino alla morte – ultranovantenne, nel 2009 – fotografando i suoi mostri, chiave critica di lettura del potere, delle identità retoriche, delle monoculture anche agricolo-industriali, della degenerazione del pastore sardo nel processo che lo replica e lo modella, asservendolo, mentre una cattiva autocoscienza gli fa credere di essere forte, autonomo, appunto balente.

Scoprì l’Ardia negli anni in cui non era ancora insidiata dalla banalizzazione a uso turistico, né dal luogo comune tutto bigotto che ne ha fatto una certa chiesa per addomesticarla, o dalla retorica della balentìa che sembra prevalere man mano che l’ardimento si affievolisce. Veniva a Sedilo con alcuni amici caprari per tutti gli anni ’60 e ’70, si perdeva con allegria nella festa sino a notte e leggeva le poesie che dedicava ai pastori costretti a emigrare in Toscana con le pecore o in fabbrica a Torino e Milano dove qualcuno morì, eroe moderno e antico.

In quegli anni Amore dipinge anche le sue Ardie, e quella esposta a Cagliari. «Cavalieri diabolici, i suoi, rustici, invasati, trasudanti sfrontatezza e virile istintualità», scrive Sgarbi dedicando solo a lui una scheda e un ritratto, ripromettendosi di tornare su questa singolare figura.  Le altre opere sono di Luisanna Atzei, Liliana Cano, Nicola Caredda, Mariano Chelo, Lino Frongia, Anna Gardu, Giovanni Gasparro, Cesare Inzerillo, Alessandro Kokocinsky, Tonino Mattu, Pino Navedoro, Antonio Nocera, Luigi Piras, Livio Scarpella e Jacopo Scassellati.

Interpretano ciascuna un aspetto della festa (la festa?!) di Sedilo, qualche volta con libertà interessanti, chiavi di lettura inedite: un ragazzino che prova sull’asinello della festa di San Basilio l’ebbrezza dell’Ardia (Nicola Caredda), una figura di donna meravigliosa sullo sfondo di un cielo cupo, trasporta sul cavallo pezzi di corpi umani, ex voto anatomici molto realistici prelevati dalla parete del santuario e destinati all’altrove (Tonino Mattu), il povero mendicante storpio che chiede l’elemosina piegato in terra e senza una gamba,  sembra venire da Lazarillo da Tormes (Cesare Inzerillo).

I testi che accompagnano i quadri sono di una editor sarda, la bosana Anna Lia Pintau: valgono la visita alla mostra, la lettura del catalogo da sole, insieme lettura critica delle singole opere e rigoroso riferimento alla realtà, alla simbologia, alla ritualità che li ha ispirate. Di un altro sardo, sedilese, è l’idea della mostra: Santino Carta, maresciallo dei carabinieri a lungo a Roma nel Nucleo di Tutela del Patrimonio culturale, presidente della Fondazione Pio Alferano intitolata al generale che ne fu il comandante.

Lì nacquero i rapporti con Sgarbi allora sottosegretario al Ministero dei Beni culturali, e ora Santino Carta è come se sciogliesse un voto a San Costantino, scrive nella prima pagina del catalogo. Ha messo insieme gli artisti, ha lavorato con loro, è l’impressione, ai suoi ricordi, al suo vissuto e a questo sguardo interno ed esterno alla festa di Sedilo, e ha raccolto una decina di altre testimonianze che arricchiscono il catalogo, di intellettuali sardi, scrittori.

Ciascuno con una sua interpretazione, anche qui, su diversi registri, anche retorici, repliche di letture esterne. Curiosissimo il racconto dell’Ardia fatto da Tito Stagno all’esame per diventare telecronista Rai. Aveva 24 anni. Gli chiesero di scegliere un evento delle sua regione. «Scelga lei, una festa, una sagra popolare. E ricordi, questa è televisione, non radio». E lui si butta: «Sedilo, un paesino di tremila abitanti in provincia di Cagliari. Quello che vedete è il piccolo santuario eretto in onore di Santu Antine, un santo guerriero ispirato alla figura dell’imperatore Costantino. Attorno a questo tempio sacro e pagano, lungo le pendici di questa collinetta sperduta in un paesaggio che sembra Messico, si corre da duecento anni il 6 luglio la più selvaggia corsa di cavalli che possiate immaginare. Cento cavalieri si lanciano a capofitto giù dal pendio e, tra due ali di folla impazzita, lanciano i loro cavalli nella polvere per imboccare un piccolo arco in pietra dedicato all’imperatore guerriero. Li vedrete girare attorno al santuario per sette volte… per sette volte spingere i loro cavalli stremati in cima alla collina e poi venir giù di nuovo come diavoli tra gli spari delle doppiette caricate a salve, per infilare a tutta velocità l’arco della morte. Quella che state per vedere, signori, non è una sagra folcloristica ma follia allo stato puro…. un inno alla vita e alla morte…un trionfo di sangue, sudore e polvere, pura lotta per la sopravvivenza…. Benvenuti all’Ardia di Sedilo!» «Basta così Stagno. Va bene, va bene».

Lo raccontò in un libro intervista di Sergio Benoni, oggi anche Stagno è con Sgarbi, Santino Carta, Salvatore Niffoi, alla inaugurazione della mostra.

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