Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2016. Abbiamo rincorso Luciana Castellina per gli aeroporti di Roma, Atene e Parigi. Alla fine l’abbiamo trovata Oltralpe, a casa di Ginevra Bompiani, scrittrice ed editrice di Nottetempo. Parliamo di donne e politica nella settimana della polemica su Giorgia Meloni, candidata sindaco in dolce attesa.
Cosa pensa della decisione di candidarsi nonostante la gravidanza? E delle reazioni maschili?
Non mi è piaciuto affatto che a criticare la Meloni per la sua scelta sono stati solo gli uomini: che stiano zitti. Sa perché le donne non si sono azzardate a dire nulla? Perché sanno che è una decisione personalissima. Sono tante le donne che fanno figli e continuano a lavorare. Abbiamo ministri, in tutti i Paesi, che hanno avuto bimbi durante il loro mandato. Fare il sindaco è un lavoro impegnativo ma non credo non si possa avere il tempo di allattare! Io con la Meloni ce l’ho per ragioni molto più serie, perché è una fascista, è sguaiata e ha posizioni politiche per me inaccettabili
Interviene Ginevra Bompiani: “È una furbetta la Meloni, altroché. A me non piace affatto. Sta usando strumentalmente la gravidanza per avere consenso. Basta vedere come e dove l’ha annunciata: dal palco del Family day”.
In tanti han
no criticato
l’annuncio
fatto in quel
contesto: non
si può dire “proteggiamo i bambini” e poi utilizzarli o dare l’impressione di farlo. La stessa Meloni all’inizio aveva indicato nella gravidanza un ostacolo alla candidatura.
Sull’annuncio al Family day sono perfettamente d’accordo con Ginevra: mi ha dato molto fastidio. Ma la scelta di candidarsi resta sua. Io ho lavorato fino al momento del parto e non avrei accettato da nessuno imposizioni in questo senso.
Patrizia Bedori, rinunciando a correre per Palazzo Marino a Milano, ha detto di essere stata insultata perché non avvenente. Stessa cosa pare essere capitata alla segretaria di un circolo Pd di Bologna. Per anni si è detto che Berlusconi candidava solo belle ragazze, ma qui parliamo di mondi che dovrebbero avere tutt’altra cultura. Questo modo di guardare le donne ha contagiato un po’ tutti?
Ma certo che il contagio c’è stato: una bella ragazza ha più chance perché non importa quello che pensa o quello che sa, importa che sia carina. La Bedori ha ragione da vendere. È un insulto a tutte le donne. A nessuno viene mai in mente di dire che questo o quel politico è brutto: e dire che di Adoni ce ne sono pochi, sono quasi tutti bruttissimi.
L’obiezione che potrebbero fare a lei è: “Facile dirlo da parte di una donna straordinariamente bella”.
Mi offenderebbe terribilmente se qualcuno mi dicese che ho fatto o scritto delle buone cose perché avevo le gambe dritte. E ribadisco: mai che si pensi a queste sciocchezze per i maschi.
Quest’anno ricorrono i settant’anni del suffragio universale. Lei non ha votato al Referendum del ‘46, ma si ricorderà certamente il clima di quel momento storico. Il bilancio che ne fa dopo tanti decenni?
Mi ricordo l’emozione di mia nonna. Per lei era un fatto rivoluzionario, sconvolgente. Per mia madre già meno: faceva coincidere questa cosa con la caduta del Fascismo. Allora ci fu un acceso dibattito all’interno del Pci. Tanti dicevano “per carità, le donne vanno in chiesa a confessarsi e i preti le faranno votare per la Dc. Perderemmo un sacco di voti”. Poi arrivò Togliatti che disse: “Ma che siete matti? È molto più importante che le donne possano votare, che diventino soggetti consapevoli della vita sociale”. Fu una vera battaglia. Questo per dire che nel ’46 perfino nel Partito comunista il suffragio universale era in discussione. La battaglia delle donne è una delle poche che abbiamo vinto: oggi non potremmo mai dire a una ragazza che ha meno diritti di un ragazzo.
Sulle quote rosa le posizioni sono molto diverse anche tra le stesse donne. C’è chi dice: è un modo per ghettizzarci e “Non mi sento rappresentata da una donna solo perché è donna”. Ma l’obiezione è ragionevole: se non colmiamo questo divario “ex legge” le cose resteranno così per sempre. Lei, che è stata parlamentare sia a Roma che a Strasburgo, quale posizione sposa?
L’idea stessa che sia una quota minoritaria e non al 50 per cento è un modo per rendere legale l’inferiorità delle donne: lo trovo molto umiliante. Ciò detto, ci sono momenti in cui si fanno anche battaglie tattiche. E siccome i simboli contano molto, vedere un po’ di donne nei cda di importanti società aiuta l’immaginario. E di questo c’è bisogno. Dunque vanno bene le quota rosa, provvisoriamente, ma sempre continuando a dire che la quota resta minoritaria.
Il governo Renzi è stato inaugurato all’insegna della parità: otto ministri, otto ministre. Basta?
Il punto che interessa le donne è che i governi facciano scelte che tengano conto delle caratteristiche e delle necessita delle donne nell’organizzazione sociale, soprattutto nel mondo del lavoro. Una donna che entra in un’organizzazione completamente basata sulla cultura maschile non serve a nulla. Però resta l’importanza del simbolo.
La presidente della Camera insiste molto sulla questione linguistica. L’anno scorso, in occasione dell’otto marzo, Laura Boldrini scrisse una lettera ai parlamentari chiedendo che negli interventi in aula le cariche e i ruoli istituzionali venissero richiamati nelle forme corrette, secondo il genere proprio della persona cui essi si riferiscono. Lei cosa ne pensa?
Io faccio parte di una generazione per cui non è naturale declinare le parole al femminile. Ma è colpa mia. Torniamo al valore simbolico delle cose: pensi a quanto è stato importante negli Stati Uniti che si cominciassero a vedere facce nere in posti di potere e nelle istituzioni. La stessa cosa vale per gli interventi della Boldrini sull’immagine della donna nelle pubblicità: fateci vedere qualche maschio che fa il bucato, lava i piatti e serve a tavola.
Qual è stata la battaglia più importante vinta dalle donne in questi settant’anni?
Capire che il nostro scopo non doveva essere diventare come gli uomini. Sembra una banalità, ma per arrivarci io ci ho messo un sacco di tempo. Ho vissuto a lungo come una frustrazione il fatto di essere donna. Come una specie di handicap. C’era, da parte degli uomini, una diffidenza preconcetta che oggi in larga parte non c’è più. Era il riflesso del nostro sentirci inferiori. Ora il problema non è più questo. Ma un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa. Mi colpisce sempre la percentuale delle donne manager: quelle che hanno figli sono il 35% contro il 95% dei loro colleghi maschi. Come dire: si può accedere a posizioni importanti, ma rinunciando a qualcosa d’importantissimo.
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