Racconti dal passato – Un sequestro – [di Gianluca Pisano]
È sera. Una sera come tante altre. Leo, settant’anni mal portati, si alza a fatica dalla sua poltrona, con il viso contratto in una smorfia di dolore. È seduto lì da troppe ore. Le sue ossa scricchiolano nel silenzio assordante di casa sua. Dove sarà finito suo figlio Claudio? “Ancora non torna” pensa sbuffando. “Ma in fondo che me ne frega? Ha quasi quarantacinque anni. Saranno affari suoi? E no, mica tanto. Dovrà cenare sì o no? Mi comprerà qualcosa per cena?” Inutile chiederselo. Il telefonino di Claudio squilla a vuoto, quando va in piscina. Ovvio che non possa rispondere, no? Meglio entrare nella sua camera, allora. Qualcosa per distrarsi la troverà, in quella stanza dove non capisci se ci abiti un adulto, o il bambino che fu. E poi lì c’è Mattia, ad attenderlo. “Allora nonno, stasera cosa mi leggerai?” – Lasciami controllare l’orologio, Mattia, tuo padre sarà qui tra poco … va bene, faccio in tempo a leggerti questo suo scritto. Sai, l’ho trovato qualche giorno fa, nel cassetto dove conservava i suoi racconti che amava inventare quand’era un ragazzo. Ma solo se non hai cambiato idea su cosa vorrai fare da grande, ok? – “No, nonno, non ho cambiato idea. Voglio sempre fare il carabiniere. A cavallo.” – E non hai paura? I carabinieri rischiano la vita, quando devono fermare i cattivi. – “Ma ho un’idea geniale” gli risponde, deciso, Mattia. “Se incontro una persona cattiva, le faccio uno scherzo.” – Cioè? – chiede nonno Leo, incuriosito. “Allora, nonno, te lo spiego un’altra volta. Le dico di avvicinarsi a me, perché ho una sorpresa per lei. Appena si avvicina, con la mia spada le tolgo la sua, e gliela butto nel cassonetto.” Nonno Leo, animato da un forte desiderio di affetto, lo accarezza facendo scorrere le sue ossute dita tra le pieghe innaturali della pelle. Suo nipotino no, non dovrebbe avere una fronte così fredda, rigida e rugosa, e dall’odore così pungente. Così… chimico. Dopo alcuni attimi, che a Leo sembrano interminabili, gli stampa finalmente un bacio sulla fronte, reprimendo subito dopo un motto di disgusto, e stringendogli il braccino destro, anch’esso irrigidito. Un lungo bacio, che non potrà mai essere ricambiato. Ogni giorno che passa, si sente sempre più a disagio con se stesso e vorrebbe smetterla una volta per tutte, uscire da quella stanza e fare qualche telefonata … perché è tutto così folle e assurdo. Ma non ci riesce più. A chi chiederà aiuto? “Dai nonno, basta baci. Vedi che non ti piace? Non ho un buon odore di bagnoschiuma, come dovrebbero averlo tutti gli altri bambini quando vanno a fare la nanna! Leggi, allora?” Sotto lo sguardo fisso e inespressivo di Mattia, sistemato in modo che, dalla coperta, sbuchi solo una parte dell’orribile testa, nonno Leo comincia a leggere. Cagliari. Mercoledì 28 gennaio, 1998 – Claudio Un sequestro Lo scorso giugno è stato sequestrato un imprenditore, Giuseppe Soffiantini. Le forze dell’ordine ancora non lo trovano, eppure c’erano quasi riuscite. Ci sono scappati due morti: un carceriere e un carabiniere. Uno pari. Che tristezza. E dire che, a novembre, il sequestro di Silvia Melis si è concluso con un lieto fine, a parte il tormentone “riscatto pagato sì, riscatto pagato no”. E il povero imprenditore? Beh, ci penso io. Lo libero con l’aiuto della mia fantasia, e di una penna bic. Voglio che la sua prigionia termini e vada tutto a buon fine. Maledetti, gli autori di questi gesti. E poi i sequestri avvengono quasi sempre in Sardegna. O se non avvengono qui, c’è comunque qualche sardo implicato. Ci siamo proprio fatti una bella fama, oltremare… “Dove sono mia moglie e i miei figli?” pensa Beppe, il mio sequestrato immaginario, rinchiuso al buio della sua prigione. Le fredde pareti di roccia possono intrappolare il suo corpo, ma non i suoi pensieri. “Voglio tornare a casa, dannazione! Rivoglio il mio caldo letto … ormai un lontano ricordo. Se le mie ossa parlassero, griderebbero vendetta contro la putrida tavola di legno, dove mi tengono legato. Ma i miei carcerieri, uomini senz’anima, non si curano certamente di simili dettagli: per loro sono una mera, ma preziosa merce di scambio. Già, i miei carcerieri. Uomini dall’inspiegabile paziente crudeltà. Mi scrutano, di tanto in tanto, dai loro passamontagna, come si fa con un animale chiuso in gabbia, in uno zoo. Dovrebbero essere quattro, ma ultimamente ne vedo solo tre. E’ sempre stato difficile avere spiegazioni, farli parlare. Ho imparato, a fatica, a distinguerli dalla voce. Non solo sono di statura simile, e si vestono tutti e quattro con la stessa mimetica, ma si fanno chiamare tutti zio Salvatore: tziu Bobbore, tziu Barore, tziu Battore e tziu Bore! Luridi bastardi.” Beppe sospira, prova a distendersi e, soprattutto, cerca di spegnere quella voce interiore che, incessantemente, gli riempie la testa. “Quanto durerà tutto questo?” si chiede, dopo una breve pausa in cui era riuscito a zittirla. “… il progetto! Chissà se ancora giace sulla mia scrivania. Qualcuno l’avrà avviato prima di Natale? Cosa faremo a Natale? Cena a casa nostra, quest’anno! Ma che cavolo … OGGI è Natale, e sono al solito posto: incatenato alla tavola di legno fredda e umida, ad ottocento metri d’altezza, e a chissà quanti chilometri da casa mia.” Ricominciano quei dannati singhiozzi, che risvegliano tziu Bobbore. «Che hai da piagnucolare, femminuccia? Non ti va di passare il Natale con me? Dai, sotto questo cappuccio non sono così orrendo. Forse non avrei dovuto ricordarti che giorno è oggi. Ma tu hai insistito tanto… e poi, non credi che i Natali siano tutti uguali? Ad una certa età, le feste non dovrebbero contare più di tanto.» «ORA BASTA!» gli grida Beppe, schiumando di rabbia. Quanto vorrebbe afferrargli il collo e… e poi cosa? A malapena ha la forza di portarsi il cucchiaio in bocca. Tu-tu-tu-tu-tu… “Ancora l’elicottero. Benedetto e maledetto elicottero, che vieni a ricordarmi quanto vicina, ma irraggiungibile, sia la mia libertà. Il suo rumore mi angoscia: appena lo sento, esulto all’idea di poter uscire da qui, ma pochi istanti dopo mi rattristo, perché il rumore svanisce, lasciandomi un profondo senso di inquietudine e vuoto. Ho l’impressione che i militari non sappiano cercare con criterio, tra questi boschi impervi. Sorvolano i picchi rocciosi inutilmente”. «Ehi, frignone. Senti l’elicottero che sta venendo a prenderti? Peccato che non ti troverà mai!» infierisce tziu Bobbore. «Non è vero», reagisce il povero sequestrato, con un nodo in gola. «È possibile che la tua famiglia si sia abituata a non vederti in casa. Sai, i giorni diventano tutti uguali. Magari si convincono che tu stia bene, aspettano che la polizia faccia qualche passo avanti nelle indagini… ed io, con la mia squadra, attendo con pazienza i soldi. Cinque miliardi. Quasi non riesco a dirlo.» Il secondo carceriere, Tziu Barore, fin dai primi giorni del sequestro gli era sembrato il più gentile e buono. Ma, col passare del tempo, l’ha deluso. Sempre meno presente. Quando arrivava, lo sentiva spesso polemizzare con gli altri tre sui turni che gli spettavano. Insomma, una simpatia che era solo apparenza. Bobbore, invece, lo sta facendo sentire più vivo e, in qualche modo, utile. «Come fate a non dare nell’occhio, giù in paese?» chiede Beppe, qualche settimana più tardi, animato da una nuova forza, intenzionato ad approfondire il suo rapporto con Bobbore. Ma Beppe non sa che, ormai, è troppo tardi per questo. «Bah, non è stato così difficile» gli risponde lui. «Abbiamo sempre portato in giro le bestie di giorno, su queste montagne. E di sera abbiamo sempre fatto i turni per dormire nelle stalle in quota. A parte tziu Barore, un rompipalle svogliato. Fare la guardia ad una bestia in più, fa poca differenza per me!» prorompe, infine, con una risata. Beppe si gira verso il muro e prova ad addormentarsi, pur non avendo sonno. Sempre meglio che farsi dare della bestia da quello! «Mi libererete, prima o poi?» chiede, dopo alcuni istanti di silenzio, rivolto verso il muro. «No. Abbiamo brutte notizie. Due giorni fa è stato ucciso tziu Battore in uno scontro a fuoco con i carabinieri, mentre andava a riscuotere l’ultima parte del riscatto. Non solo, poco fa abbiamo saputo, dalla radio, che prima di morire ha rivelato il punto dove ci troviamo.» Tziu Barore, rimasto in silenzio e all’ombra in quei minuti, dice con voce tanto sicura quanto crudele: «Con Bobbore abbiamo deciso. Non possiamo fuggire con te, sei un peso.» «Tu hai deciso da solo, Barore» replica il complice. «Allora lasciatemi qui da solo. Semplice, no?» propone Beppe. «Sai benissimo che è impossibile. Se non vuoi guardare, girati verso la parete. Hai pochi secondi per un’ultima preghiera», gli comunica tziu Barore, impassibile. In pochi istanti, l’uomo più inaffidabile del gruppo getta il suo ostaggio nella disperazione, gli leva il respiro, mettendolo di fronte alla realtà della morte imminente. «NO!» grida Beppe. «Non può essere, ditemi che è un incubo. Abbiamo imparato a conoscerci, potreste essere i miei figli! Mi avevate detto che, in fondo, vi stavo simpatico. Vi prego, vi assicuro che non dirò nulla su di voi», conclude il povero ostaggio, tremando, con in bocca il sapore metallico della paura. I singhiozzi lo scuotono percuotendogli il torace, già dolorante da un anno di stenti e di cure approssimative. Il volto del poveretto si contrae in uno spasmo di terrore, in attesa della fine. «Ehi Barore, fermo. Cos’è quel puntino rosso che hai sulla fronte?» «Idiota, come faccio a vedermi?» «Gettate le armi. Siete sotto tiro, se reagirete, verrete uccisi», li ammonisce un carabiniere in mimetica. Da angoli invisibili, sbucano militari armati sino ai denti, equipaggiati con apparecchiature super tecnologiche. Alcuni immobilizzano i due sequestratori, altri liberano l’ostaggio, mentre un’altra squadra va alla ricerca del terzo carceriere, tziu Bore, rimasto nascosto in qualche anfratto. «Ero al capolinea. Vi devo la vita!» esclama Beppe. « È il nostro lavoro», gli risponde il militare mascherando l’orgoglio, mentre aiuta l’uomo, finalmente libero, ad alzarsi.
Singhiozzi e vocine stridule distolgono nonno Leo dal foglio. Ma, quando alza il viso, Mattia non c’è più. Oppure è finito sotto la coperta? Perché ora intravede una sagoma … sì, ma come c’è finita lì? “Forse non voglio più fare il carabiniere, nonno” sente dire dalla vocina, proveniente da sotto la coperta. O da dentro la sua testa? – Eccolo là – esclama nonno Leo. – Furbacchione, dove ti sei nascosto, Mattia? Scusami, forse non era un racconto adatto ad un bambino della tua età. – “Sono qui sotto. Mi fa un po’ paura il mestiere del carabiniere, adesso. Voglio fare lo scrittore, così non mi succederà mai nulla.” – Mah, dipende da cosa si scrive, sai? – risponde nonno Leo, rivolto verso la coperta. Con in mente, ancora, le recenti immagini del telegiornale, che lo aveva informato sull’assalto terroristico alla redazione francese… Una voce dal tono accusatorio, in quell’istante, giunge alle sue spalle. – Ehi, papà! Lo sai che non devi frugare nel mio cassetto, e tra le mie cose? – lo rimprovera Claudio mentre afferra, da sotto la coperta, la sagoma inerte. È il pupazzo di ET, l’extraterrestre. Il suo giocattolo preferito dell’infanzia, che ha fatto riverniciare di recente da un amico. Lo ripone con cura sulla mensola da cui l’ha tolto suo padre. Senza il suo permesso, come gli ha rinfacciato per ben tre volte. Leo esce dalla stanza del figlio, evitando di incrociarne lo sguardo, e tira dritto in camera da letto. Stasera Leo non cenerà, non ha più fame. – Ehi, papà, cosa mangiamo? Non mi hai preparato nulla?! Lo sai che quando rientro dalla piscina sono affamato. *Foto tratta da Google Immagini |