Referendum e post democrazia [di Nicolò Migheli]

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La metafisica del liberismo nei testi sacri racconta come verità rivelata che non può esserci libertà economica senza democrazia. L’una vivrebbe se il contesto di pari opportunità, anche politiche, lo consente. La storia dal Novecento contraddice l’affermazione. Lo spirito del capitalismo sa adattarsi a qualsiasi sistema politico, compresi gli autoritari. Lo è stato con le dittature naziste e fasciste; con l’autocrazia di Singapore; con la Cina comunisto-confuciana; con le dittature latino- americane; dove la scuola di Chicago poté sperimentare le proprie ricette ben prima che la signora Thatcher e Ronald Reagan andassero al potere.

Caduto nel 1989 lo spauracchio comunista, si è andata affermando una democrazia svuotata che il politologo inglese Colin Crouch definisce post-democrazia. Un sistema che pur rispettando le regole formali perde progressivamente il suo essere se stesso. L’agorà del confronto e della partecipazione sequestrata dalle lobby finanziarie e di interessi  che impadronendosi del meccanismo e occupando il Bene Comune lo  rivolge solo verso il proprio tornaconto.

È il trionfo della governabilità come paradigma costituente. L’epica dell’efficienza, il mito dell’efficacia.  Ogni regola e il potere legislativo vissuti come laccio alla rapidità della decisione. La richiesta popolare è fastidio ed intralcio. Ogni critica definita populista perché contraria alle loro decisioni che immaginano razionali. Tutto quello che non rientra nella loro razionalità etichettato in modo paternalistico e dispregiativo come emotivo ed anti moderno. Questa è la cornice del neo centralismo italiano, della cancellazione de facto delle Autonomie Locali, della Riforma Costituzionale che abolisce il bicameralismo. Il Parlamento come notaio dei deliberati governativi.

Le stesse elezioni, per effetto delle leggi elettorali, trasformate in plebiscito, vista l’impossibilità degli elettori di poter scegliere i candidati o di poter promuovere liste alternative che  difficilmente riescono a raggiungere il quorum necessario. Il governo degli ottimati. Un ritorno all’Ottocento dei notabili. Questo è stato possibile perché in questi anni si sono distrutti i corpi intermedi.

Renzi e la sua compagine di governo si sono innamorati della disintermediazione. Secondo loro ogni organizzazione che intermedi i ceti produttivi e li rappresenti in contrattazioni nazionali, va inesorabilmente disarticolata e distrutta in quanto perturbatrice del corretto rapporto tra imprese e lavoratori. Se rapporto ci deve essere che sia solamente uno a uno.

Vale per i lavoratori, ma sempre più per i cittadini che si vedono sottratta anche la forma partito, altra formazione sociale che garantiva mediazione tra le rappresentanze di più interessi. Disintermediare tutto, fuorché le organizzazioni datoriali, ormai solo strumento di manovra e condizionamento del potere esecutivo da parte di poche lobby, come la vicenda Guidi ha dimostrato. Il pensiero unico ha trasformato tutte le dimensioni delle persone in una sola, quella economica, negando la società ed esaltando la competizione tra individui. I sindaci e i cittadini ridotti a stakeholder, semplici portatori di interessi economici.

Viviamo nella dittatura del manager-pensiero d’accatto. In un quadro  così compromesso i referendum restano l’unica arma di pressione in mano ai cittadini. Non a caso l’invito a non andare a votare fatto dal governo Renzi supera la contingenza; è l’ennesimo tentativo di impedire una scelta che sia in contrasto con quanto loro hanno già deciso.

Provvidenzialmente – per il governo- la Repubblica dell’11 di aprile pubblica un articolo di Die Welt, l’organo dei conservatori tedeschi, dove prendendo spunto dal referendum britannico sul Brexit e su quello olandese sull’allargamento della UE all’Ucraina,  stigmatizza il carattere populista e manipolatorio di quelle consultazioni da parte delle classi dirigenti di quei paesi. Referendum forse criticabili.

Il tono dell’articolo però è quello della negatività dell’istituto in sé. Ancora una volta si evocano le emozioni, il popolo bambino incapace di scegliere il proprio bene; mentre loro possono, perché hanno le conoscenze giuste, sono competenti, hanno visione e possono scegliere, per questo sono stati eletti. Il rischio secondo queste classi dirigenti è che si stabilisca una dittatura della maggioranza.

In realtà è un proclamare il governo degli àristoi. L’unico che, secondo queste èlite, possa governare una società complessa. In questo riaffermare le appartenenze il presidente della RAS Pigliaru dichiara che è “Un referendum inutile”; allo stesso modo si è espresso il segretario del suo partito. Peccato che lo abbiano fatto in contraddizione palese con decine di consigli comunali sardi, con molti degli iscritti del PD. Una posizione contrastante con quella del Presidente del Consiglio Regionale Ganau, PD anche lui.

Il Consiglio Regionale della Sardegna ha sostenuto la proposta referendaria con i Consigli Regionali di Basilicata, Marche, Molise, Puglia, Abruzzo, Veneto, Calabria, Campania e Liguria. Uno scontro istituzionale che in altri tempi e con altre leggi elettorali avrebbe suonato come un tutti a casa. Oggi però Consiglio e Giunta si tengono insieme per la debolezza comune. Sono anche loro post democratici e di minoranza;  eletti con una legge turca che priva circa 100.000 votanti sardi di rappresentanza istituzionale.

Nessuno si dimetterà, resteranno lì fino all’ultimo giorno utile. Per noi cittadini comuni, andare alle urne il 17 di aprile va oltre il significato e l’esito della consultazione. È ribadire che i referendum, benché non rispettati e traditi in sede governativa, sono essenziali per la nostra vita democratica. Ognuno vada, voti come vuole, non contribuisca a far sparire l’ultimo strumento di democrazia diretta che ci resta. Io, per quel che vale, voterò sì.

 

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