Ecco la Terra di Sardegna: dalle coste si ergevano minacciosi i mostri, terminali delle speculazioni spietate [di Giovanni Maria Dedola]

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Quelle onde che per tutta la notte avevano schiaffeggiato la barca diventarono carezze, placate dalla terra in avvicinamento. Ecco la Terra di Sardegna, la mia terra, tenebrosa e deserta, una e molteplice, vitale e creativa, chiusa e aperta, complessa e contraddittoria.

Terra che ha determinato e determina la mia vita. Terra dalla quale il bisogno di partire è sempre forte ed urgente, così come è sempre ed ancor più urgente, pressante, quello di tornare. Marcello Fois lo chiama strazio.

La maledizione e benedizione delle isole: sempre andare e sempre tornare. Legata la barca ad una boa di Cala d’Oliva, ex Cajenna d’Italia, vedevo l’alba sull’isola dell’isola incontaminata.

Mi avvidi subito che “incontaminata” era solo un titolo, che qui il mare che dovrebbe essere libertà che non “isola” la terra che circonda, la isola senza pietà e la chiude. Per tenerla “incontaminata” mancava la raccolta dei rifiuti e le fogne riversavano direttamente in mare e i mostri, dotati di migliaia di cavalli, soprannominati ferri da stiro, riempivano la baia.

Eppure, così “isolata” è chiamata Italia. Tutta l’Isola, di cui l’Isola dell’Isola è parte, è isolata. Navigando da nord a sud, per poi risalire a quel primo ancoraggio per lasciare l’isolamento ed andare per poi eternamente ritornare, osservavo mestamente che il titolo “incontaminata” era solo un titolo.

Dalle coste si ergevano minacciosi i mostri, terminali delle speculazioni spietate. Si levavano le urla disumane ed il chiasso feroce, musica oscena come inno barbaro di conquista. Nessuna soluzione di continuità.

Ove presente, benedicevo le servitù militari, laboratori di improbabili guerre, in realtà gli ultimi guardiani di quella magia solo immaginabile perché sottratta anche allo sguardo. Subito la domanda, accorata ed angosciante: perché?

Giunto a Cagliari e buttata l’ancora nella mitica spiaggia del Poetto, scesi a terra per cenare con degli amici, fra i quali una Signora non più giovane, ancora portatrice di una bellezza misteriosa ed antica, che si fece carico delle risposte.

Mi precipitò nel groviglio informe degli scimmiottatori della politica continentale che governavano l’Isola. Mi rappresentò il vuoto ed il nulla con il pieno dell’intrigo, ignorantemente stupido che lo riempiva.

Conosceva, quella Signora, l’origine delle cose di Sardegna e le raccontava cavalcando la Storia per spiegare la pochezza dell’attuale che riduceva il governo di una Terra beneficata da Madre Natura alla scomposta e litigiosa amministrazione di un condominio di periferia.

Salpai all’alba, pieno di tristezza e malinconia.

Ricordo un termine usato dalla Signora nel suo dire, definitorio dell’“opera” di tanta imbecillità: “francàda”, per esprimere con sardo neologismo i miserabili colpi di mano dei politici ed amministratori locali che, con il loro agire avevano fatto sì che il mare isolasse davvero la terra che circondava.

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