Il tormento esistenziale di Ólafur, e il mondo incantato degli elfi, nell’ultimo libro di Gianni Loy [di Loredana Rosencrantz]
La lettura è insostituibile. Per amare la lettura occorre tacitare il rumore intorno e fare vuoto per accogliere le parole altrui, tanto più intense se scritte. Da lettrice non ho la pretesa di convincere che la mia lettura sia quella giusta e sono consapevole di poter compiere arbitrii e travisamenti rispetto al pensiero o alle intenzioni dell’autore: se dovessi recriminare ogni volta sui miei difetti smetterei di leggere. Perciò parlerò anche di ciò che il testo non dice, e se la lettura di altri sarà diversa, ciò andrà sempre a merito dell’autore, di Gianni Loy che ha appena pubblicato un nuovo libro, romanzo breve, o racconto lungo, per le edizioni Condaghes, dall’intrigante titolo: L’ultima notte ad Hellissandur. L’ho conosciuto molto tempo fa, quando eravamo giovani ed impegnati su un fronte pubblico, e incontrato di nuovo quando siamo diventati disponibili a condividere esperienze più intense e private. Per lui ho molta stima e affetto ed il personaggio principale del suo racconto, per certi versi, me lo ricorda. Il protagonista del racconto, Ólafur, entra in scena come sospeso, assente dal mondo e da sé: quando sale a piedi sulla montagna dell’ultima Thule, come viene detta nel romanzo l’Islanda, o quando va in macchina verso l’hotel solitario, sembra muoversi a salti nello spazio e nel tempo. Assente fin dal principio dal suo stesso viaggio, viaggiatore, direi, calvinianamente inesistente e comunque non protagonista dello spostamento, che è la sua amica Edny ad aver organizzato, da quell’assenza emerge all’apparire del piccolo borgo di Hellissandur. Il silenzio e l’assenza continueranno nell’hotel praticamente deserto, popolato da tre enigmatiche sorelle. La presenza nel suo corredo di viaggiatore di un libro, che seminerà di imprevisti il suo percorso, non fa che accentuare l’astrazione del suo itinerario. Si tratta di un’altra/diversa assenza dallo spazio-tempo. Forse anche questo suo affidarsi ad un congegno – ora il libro, prima l’auto – prova la sua dipendenza e la strategia di fuga dai fantasmi della realtà. La vicenda di Ólafur, in apparenza semplice e poco interessante, si complica appena entra in gioco la sua passione per l’immaginario dei paesi che visita e si immerge nella lettura di quel libro di saghe islandesi. Tirare fuori altre storie contemporaneamente a quella principale è un interessante escamotage dell’autore. Uno spazio pieno di storie intorno al vuoto di Ólafur crea un divagare del tempo della narrazione in più direzioni. Chi segue il racconto puoi sentirsi disorientato da questa corrente che si disperde in molti rigagnoli a volte inessenziali o che tali paiono. Un espediente del narratore: egli vuol mantenere il personaggio in balia di ciò che può accadergli di decidere, ammesso che Ólafur si decida a decidere, ad osservare se riuscirà o gli importerà scegliere dentro l’insignificanza della sua esistenza e a smetterla di fare come “..quelle persone che la tirano per le lunghe e alla fine o è tardi o non c’è più la necessità di fare alcunché…”, prendo a prestito le parole della scrittrice islandese Auđur (leggi Ödur) Ava Ólafsdóttir (Il rosso vivo del rabarbaro, pos. 287, Einaudi, 98). Confesso che, a questo punto, ero un po’ disorientata perché cominciavo a pregustare una storia misteriosa ed avvincente intorno al protagonista, tanto più che erano entrate in campo 3 personagge di una delle saghe che sembravano sovrapporsi alle tre sorelle reali che gestiscono l’hotel e che fatalmente portano lo stesso nome, Ingibjörg, Sigrìbur, Helga; invece, mi scontro con un autore che sembra quasi mettere in secondo piano, e negare, il valore della esperienza reale che Ólafur sta vivendo, in quell’angolo sperduto, a favore della verità dei contenuti delle saghe. Ólafur ha molti passati perché non possiede il suo presente: è agito da Edny, la donna per la quale prova affetto e riconoscenza, ma anche fastidio perché si preoccupa della sua inerzia organizzandogli a puntino il viaggio; è agito dalle sorelle dell’albergo, che lo vorrebbero usare, ciascuna per sé, come tramite per oltrepassare il confine del posto in cui vivono da sempre e che sembra non possano varcare senza il suo aiuto, egli non capisce bene per quale motivo. A meno di prendere per buona la chiave proposta dalla saga, un sortilegio elfico che ha colpito tre sorelle bionde e sfortunate, forse le capostipiti della genealogia di quelle dell’albergo; sortilegio che prevede la fine della maledizione solo a patto che un uomo speciale accetti di essere caricato dei desideri di una di loro e la porti via senza che gli venga rivelato l’arcano mistero che la priva della libertà. In effetti, la specialità di Ólafur consiste nell’essere forestiero, disincantato e senza più desideri, incapace di coltivare i propri sogni. Sarebbe perfetto per loro se non fosse, nonostante tutto, un uomo del suo tempo e quindi sensibile alle catene che costringono alla soggezione le donne, perplesso rispetto al rivelarsi della rivalità tra le sorelle che se lo contendono, rivalità cui vorrebbe riparare e azzarda un: – magari potrei portarvi via tutte e tre – ma la sua pietà è fuori luogo e viene respinta. Di nuovo, l’imprevisto lo afferra e sa che non si potrà sottrarre: questa volta, tuttavia, vuole darsi tempo e tentare di sfuggire al predestinato non piegandosi a recitare la parte tracciata per il forestiero dalla profezia. Darà la risposta alla richiesta delle sorelle più tardi. La lettura continua, altre saghe avvincenti si intrecciano con quella delle sorelle. A questo punto, acquista forza ciò che l’autore non dice: accettare la lettura come sospensione nel vuoto, una sorta di regressione, di esercizio di libertà e di silenzio; una tregua all’incombere del necessario, di quella “sceneggiatura già scritta” che impone l’unità di tempo, luogo, azione ed impedisce di dire la tua. Ólafur, immerso in quella notte al confine della realtà percepita, “vera o fittizia che fosse” ha una parte ancora da decidere, un ruolo che vorrebbe da protagonista e vuole darsi tempo per provarlo. Si tratta di gestire l’inesorabilità del tempo e mettere in campo l’attesa: è la sfida di Ólafur a quello che, nella premessa dell’autore, ripetuta poi nell’esergo e citata in locandina, è detto il primo atto di creazione divino, imperfetto come tutti i successivi. Negli interstizi consentiti dall’imperfezione può trovare posto la libertà di scelta di un uomo apparentemente inerte ed incapace di essere protagonista della propria storia. Seguendo con curiosità il personaggio, scopro che la sua non è paralisi del dubbio ma, al contrario, il nucleo della sua vitalità. L’autore, di nuovo, ti parla direttamente: vita non è ciò che ti accade, è ciò che ti passa per la mente, consentita dal poter soppesare il pro e il contro, dal darti tempo. Questa sapiente costruzione di attesa, in un certo senso, è una sfida al primo atto di creazione che vorrebbe dominare con l’imprevisto. Pur sapendo di essere esposto alla casualità, che potrebbe interrompere il suo tempo in ogni momento, alla fine Ólafur è disposto – almeno figurativamente perché il personaggio è tutt’altro che eroico – a sfidare l’incombere dell’inevitabile. Ho pensato al cavaliere che gioca a scacchi con la morte del Settimo sigillo di Bergman, se non fosse che Ólafur deve ancora decidere la sua parte: la vorrebbe da protagonista ma non è proprio sicuro di poterla interpretare, immerso in quella notte nella quale, persino durante il momento finale che l’autore gli concede, di un libero ragionare ricapitolativo, ritorna la suggestione del possibile fallimento, contenuta nella saga citata per ultima, quella del servo Kalfur. Si vedrà come questo personaggio dell’immaginario islandese, di cui non anticipo nulla, interseca al termine del romanzo la corporeità di Ólafur attraverso una nuova “distrazione” messa in atto dall’autore, che rende il finale enigmatico e sospeso. In sintesi: Il viaggio di Ólafur è ossimorico, un movimento verso l’assenza, nella quale consiste la possibilità di essere sé stessi. Non è ricerca di conoscenza né apertura al diverso e all’inconsueto, non è un pieno ma un progressivo fare vuoto. Questo ribaltamento dell’allegoria letteraria del viaggio è esplicitato dalla lettura del paesaggio islandese, fermo, immutabile, paesaggio esclusivo dell’anima. Il silenzio-vuoto che Ólafur si porta dentro e fa convivere con il rumore esterno, è il suo altrove che lo rende a volte indifferente alla compagnia. Non gli fa percepire la solitudine perché gli consente di dialogare con sé stesso e lo spinge a contrattare ogni volta con la propria immaginazione per fare spazio alla realtà dei suoi passi. Il tempo, e soprattutto la sua sospensione interna nell’attesa, di cui ho già parlato. In extremis, Ólafur medita di giocare una partita sapendo di non poterla vincere ma confidando nell’estensione della sua durata. Il dolore dell’esistere è il prezzo che si paga per l’opportunità di scelta, ma è anche lo spiraglio che può interrompere la catena di causalità e ritardarne l’inevitabile approdo. Il femminile, legato all’arcano e al poco decifrabile, letto attraverso le categorie della dipendenza, del regressivo, del deterministico, forse le uniche in possesso di Ólafur. Connotazioni molto hegeliane, d’altra parte più espliciti riferimenti al filosofo compaiono anche in altri passaggi. Nell’oltremondo immaginifico di Ólafur, le creature femminili reali come quelle fantastiche incombono su di lui con la pretesa di definire la sua identità ed etero-determinare i suoi passi, in una parola di contrastare la strada della sua libertà, anche se con una graduale mutazione. Al principio del romanzo, infatti, Ólafur pensa ad una ribellione verso il puntiglioso controllo di Edny ma attende troppo e perde l’opportunità di trasgredire, è incerto, lento, forse per pigrizia, il tempo scorre e lo sovrasta. Al termine della notte, l’attesa verso la proposta delle sorelle dell’hotel diventerà un rischioso darsi tempo, la consapevolezza che la richiesta proveniente da loro di accettare di identificarsi con il forestiero annunciato dalla saga può non avere un destino automatico. Egli infatti potrà pensare, cioè vivere la sua scelta.
|