Ricordo di Bachisio Zizi, umanista gentile (II) [di Leandro Muoni]
Questa risposta è la migliore autodefinizione della propria arte che lo scrittore potesse consegnarci. Il significato di queste parole è che il loro autore si sente pervaso dallo spirito del tempo e dal sentimento della storia. I suoi romanzi sono davvero impregnati di storia, non solo nel senso dell’ambientazione scenografica ma nella stessa concezione e ideazione. I protagonisti di tali storie sono gli uomini con le loro passioni, bisogni, errori, fatiche, drammi, speranze. Ma in particolare, più che gli uomini stessi, sono le donne qui a essere identificate come le vere presenze maieutiche e le custodi delle scelte temporali ed epocali. In ciò Bachisio sembra avvicinarsi a un altro autore sardo emblematico che nutriva un senso spiccato del tempo e del conseguente concetto della “niciana interiorità degli avi”. Stiamo parlando di Giuseppe Dessì, il quale aveva lumeggiato la funzione delle donne sarde come portatrici o fattrici di quei tradizionali “segni misteriosi sempre sul punto di trasformarsi in alfabeto”, nutrici dunque dell’istanza scritturale ovvero della semantica comunicativa che muove il mondo. In quest’ottica si può affermare che quello di Bachisio sia un umanesimo dolce, mite e starei per dire quasi femminile, un umanesimo in definitiva gentile. Ed è singolare che una tale dimensione interiore, col suo supplemento d’anima, sgorghi proprio da quella terra dominata dalla figura archetipica del pastore, re dell’universo e dell’immaginario isolano, dalla personalità maschia per eccellenza. A questo proposito si potrebbe rammentare che nella Sardegna tradizionale il ruolo della donna non è puramente ancillare anzi qualcuno a questo punto potrebbe richiamare la genesi storica del matriarcato sardo. O ricordare, come paradossalmente ma anche paradigmaticamente ebbe a dire Giuseppe Dessì, che la storia della Sardegna antica e moderna conta soprattutto due grandi uomini, che in realtà erano poi due grandi donne: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Merito di queste due figure di donne eccezionali fu quello della mediazione, della capacità di essere legislatrici, traghettatrici, abili nel creare le condizioni favorevoli ai loro uomini per il traghettamento “da riva a riva”, tanto per riprendere il felice e augurale titolo di uno straordinario libro saggistico e semiautobiografico di Bachisio Zizi, Da riva a riva appunto, anno 2001. Ma fra i traghettatori non ci sono solo due donne dotate di quella che un tempo si sarebbe chiamata la “volontà virile”, come Eleonora o Grazia; ci sono anche uomini per così dire elevati all’ennesima potenza, come Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Giaime Pintor, Salvatore Satta, che appartengono non soltanto alla cultura locale ma anche a quella nazionale e internazionale. Chi tra i sardi rivendichi oggi i fattori qualificanti di un’identità nazionale isolana dovrà tenere ben fermi nella memoria questi nomi, che corrispondono a quella professione di fede identitaria aperta, inclusiva e non esclusiva già fatta propria e annunciata da Sergio Atzeni nei termini di questa formula: “Io sono sardo, italiano ed europeo”. Formula che sembra tornata oggi a rappresentare le condizioni di una cogente attualità e che si attaglia alla perfezione alla personalità di Bachisio Zizi, scrittore di autentico respiro nazionale, uomo dei valichi, degli attraversamenti, delle aperture, dei confronti.Fa specie infatti che si possa parlare ancora oggi nella nostra regione di identità nei termini di un orizzonte circoscritto e autoreferenziale. Una esemplificazione del particolare modo di intendere la sardità, in forma inclusiva e non esclusiva, da parte di Bachisio, consiste a ben vedere nella sua posizione di impenitente progressista circa la questione linguistica cioè circa la maniera di rapportarsi alla lingua sarda, da lui amata e riverita e all’occorrenza utilizzata per esprimere concetti o idee che gli stavano a cuore, ma sempre nella consapevolezza delle dinamiche storiche e della coscienza dei tempi. Alla domanda di un rappresentante della chiesa isolana, don Salvatore Bussu, che gli chiedeva: “Rispetto alla cultura e alla lingua sarda quale apporto si aspetta dalla Chiesa?”, con grande equilibrio e senso della misura così rispondeva: “Il problema della lingua sarda è cruciale certamente, ma non è più tempo di crociate. Salviamo tutto ciò che di valido e duraturo ci viene dalla tradizione, ma non perdiamo di vista che nella lingua si rispecchia il mondo e che il nostro mondo, con le sue povertà e chiusure, rischia di escludersi dagli altri e da se stesso. La chiesa può diventare la grande mediatrice, perché è multilingue e si trova nella condizione di ascoltare la voce di tutti, qualunque sia il mezzo espressivo usato”. Ciò non significava per lui rinunciare a “pensare” e a “fare” in sardo, ma l’esatto contrario, sempre nell’ottica di una posizione progressiva e mai reazionaria.Bachisio era un illuminista moderato da uno storicista. Diciamo che nella sua pagina aleggia lo spirito dell’illuminato riformatore o riformista, che si appella al fattore formativo, propulsivo e liberatorio della cultura e della scienza e che guarda altresì alla portata qualificante del retaggio storico. “Più che di convegni – scriveva – che pure sono passaggi obbligati, abbiamo bisogno di laboratori, dove professori blasonati, artigiani e imprenditori creano qualcosa, innovando finalità e procedure. Dobbiamo tendere a socializzare la cultura per trovare quel tessuto connettivo che storicamente ci è sempre mancato”. Da questo punto di vista si deve dire che la lezione proposta da Bachisio è oggi quanto mai attuale per aiutarci a uscire dalla crisi economica e culturale nella quale ci dibattiamo.Ci troviamo di fronte a uno scrittore che ha ben presenti gli orizzonti ma anche i limiti della globalizzazione e della mondializzazione e della stessa rivoluzione informatica. Uno scrittore che sempre nei luoghi o nei passaggi di un’altra intervista chiarisce che “io non ho un rapporto nostalgico con la mia terra (il mio paese), se mai ho un rapporto dialettico, che include la critica e anche l’autocritica. La sofferenza che tutto ciò comporta non ha a che fare con la nostalgia. Vedere Cantore in malas”. Il riferimento al messaggio del Cantore in malas evoca in particolare il rapporto tra scrittura e sofferenza implicato nelle pieghe dell’opera del nostro autore. In un passo dell’intervista immaginaria del nostro amico all’autore de Il giorno del giudizio, Salvatore Satta, Bachisio rende il senso angoscioso della solitudine nella pur socializzante armonia dei progetti e delle proposte del “riformatore” nell’incontro- scontro col mondo reale : “Eccomi qua allora – è Salvatore Satta a parlare ovverosia Boboreddu nel testo bachisiano – giurista che non ha saputo mediare ciò che veramente contava, uomo di fede che ha predicato invano il ritorno alla totalità dell’uomo, e tardo narratore che insensatamente ha creduto di pacificare la coscienza infelice trasformando la scrittura in un grido: il grido di un dolore inguaribile…”. Ma in ultima analisi il bilancio conclusivo di Bachisio non è nel segno della disperazione bensì in quello della speranza.Il messaggio di quest’uomo poliedrico, di quest’uomo totale, per dirla secondo una formula umanistica prima ancora che marxiana: dirigente bancario, scrittore, editore, organizzatore di cultura, testimonia pur nell’inarrestabile travaglio della ragione illuministica di un non sopito imperativo della volontà storicistica, che non si arrende alle avversità, ma che pur nelle asperità e crudeltà della vita non cessa di cercare e trovare consapevolmente anche nella vecchiaia, nella malattia e nell’appressamento della morte uno stimolo per andare avanti nel segno dei valori umani e per credere nel rinnovamento delle generazioni: “Per contrastare l’usura del tempo – scrive il nostro autore – bisogna andare avanti verso l’alba delle cose: nell’impulso che spingeva mia madre e spinge me verso il mondo dei figli si reinventa la vita per resistere alla morte”. |
gentile professore, forse lei sa dirmi perché nessun grande editore ha pubblicato i libri di Bachisio Zizi, contribuendo a farlo conoscere almeno in Italia. Se ne parlò qualche anno fa, ma non credo che se ne sia fatto niente. Magari anche i sardi lo scoprirebbero per questa via, e gli si dedicherebbe qualche angolo nei festival letterari, qualche docente se ne incuriosirebbe; le pagine dei giornali non avrebbero rischiato di “bucare” la morte di questo grande sardo… E qualche biblioteca esporrebbe le copertine all’ingresso, un qualche lettore leggerebbe qualcuna delle bellissime pagine di Bachisio Zizi a “domenica di carta” del Fai Sardegna. Che ne pensa?