Il tempo dei Sardi (III): Non più e non ancora [di Pietrino Soddu]

pecore

Pubblichiamo la terza parte di Il tempo dei Sardi di Pietrino Soddu. L’esponente politico, che è stato Presidente della Regione e Parlamentare, si misura con la scrittura poetica e, attraverso questa, traccia un epos. Si tratta della storia della Sardegna ab antiquo filtrata attraverso un punto di vista di chi è stato protagonista e  testimone delle vicende dell’isola dagli anni Cinquanta. Il suo sguardo tematizza una vicenda che dall’antichità arriva ad oggi nella convinzione che soltanto una diversa narrazione può restituire alla contemporaneità un senso  per procedere e per oltrepassare un presente affatto confuso. L’opera fu presentata nell’iniziativa “Sardeide: dalla sarditudine alla Sardegna. Una narrazione da riscrivere” dall’Associazione  Lamas il 12 luglio 2013 nella chiesa di San Giovanni a Pattada. A quell’incontro dialogarono di Sardegna con Pietrino Soddu storici, filosofi, amministratori, sindacalisti, un pubblico numeroso e senza barriere anagrafiche. Quel dibattito lo vorremo aprire ad un pubblico più vasto. Soprattutto in questo momento è utile chiedersi e riflettere sui temi relativi ai quesiti “Chi siamo” e “Cosa saremo”. La prima parte dal titolo  Il tempo è stata pubblicata lunedì 30 dicembre 2013, la seconda parte dal titolo Passaggi è stata pubblicata lunedì 6 gennaio 2014 (Maria Antonietta Mongiu).

Capitolo 1

1ª voce:

Il tempo

va come deve andare,

in Sardegna come ovunque nel mondo.

Nessuno è mai riuscito

a fermarne il passo

che si muove

sempre in una sola direzione,

sempre avanti mai indietro o di lato,

sempre verso il futuro

mai verso il passato,

senza fermarsi,

senza guardarsi intorno,

senza curarsi di correggere ciò che non gli piace.

Non sceglie tra bene e male

non giudica ciò che accade;

si limita ad accogliere tutte le cose

quelle vive e sane, quelle malate o stanche

e persino quelle moribonde,

lasciandole tutte al loro destino senza preoccuparsi del fatto

che ciò che è inanimato resiste più a lungo,

si deteriora e si consuma molto più lentamente

di ciò che è animato e vivo

che invece cambia sotto la spinta dell’ambiente

e la violenza delle passioni

che mutano a seconda del tempo

provocando in pochi istanti grandi cambiamenti

nell’anima e nella mente

diversamente dall’evoluzione della specie

che iniziata all’alba della vita

è ancora in corso.

La storia dei sardi

come tutte le altre storie

ha dovuto obbedire a queste leggi

e finché non si scoprirà

qualcosa più veloce della luce

nessuno potrà tornare indietro nel tempo,

per cambiare ciò che è accaduto

e per anticipare ciò che dovrà accadere

o si desidera che accada.

2ª voce:

nessuno, neppure chi crede in un’altra vita

convinto che l’anima sopravvive alla morte,

sopravvive al tempo, –

rivivendo all’infinito, passato, presente e futuro

in un tempo che annulla il tempo

e ferma il suo scorrere,

così come lo percepiscono i viventi, –

può pensare che le cose avvengono

secondo i propri gusti,

secondo il proprio pensiero soltanto desiderandole.

Le cose si dispongono infatti

secondo il cosiddetto senso della storia

che a volte premia e a volte punisce

ma quasi sempre a caso.

Oppure seguono ciò che vogliono i principi e i governanti,

ciò che è bene per loro,

e non ciò che gli altri desiderano.

Anche per i sardi è stato così.

Essi hanno sempre subito passivi il corso della storia

al tempo dei punici, di Roma e della Spagna

e nel tempo più recente senza ribellarsi

e senza cercare di raggiungere gli scopi considerati un bene,

che sono sempre gli stessi

ma vanno ridefiniti e perseguiti

a volte seguendo a volte contrastando il senso della storia.

1ª voce:

Nelle lunghe notti seguite al battito delle ore più funeste,

la rovina talvolta si è fermata

ma non è stato perché molti hanno pianto,

e hanno invocato consolazione o perdono,

ma perché c’è stato qualcuno che ha resistito alla violenza

e ha lottato contro l’ingiustizia e i soprusi.

Il tempo non cambia mai da solo

sono gli uomini che rallentano e cambiano il suo passo,

che lo orientano secondo le loro preferenze

e non lasciano che proceda a caso

tenendo gli occhi chiusi per non vedere

tutto quello che sa di morte e di rovina.

 3ª voce:

Tutto ciò che accade nel tempo

vita e morte, speranza e disperazione,

liberta e sopraffazione,

una cosa e il suo contrario,

non vanno mai separate ma sempre insieme

e l’una prevale sull’altra solo per l’azione degli uomini.

Tutto quel che siamo, che siamo stati e che saremo

che è contenuto nel tempo è influenzato da noi

sia che agiamo

sia che restiamo passivi

senza reagire alla violenza

che cancella insieme al respiro della vita,

agli occhi e al sorriso dei familiari

alla cortesia degli amici,

alla vista del sole e delle stelle,

a tutto ciò che offre la natura,

il cielo azzurro, il mare, il vento

la pioggia, la neve e tutte le altre cose molto amate,

anche la libertà e la giustizia.

La violenza è sempre morte,

ma la morte non cancella

la memoria delle parole,

delle azioni, dei gesti, dei sentimenti,

del male e del bene compiuti,

degli errori commessi, del coraggio

e della viltà dimostrate in vita.

Quel che conta perciò non è tanto morire

ma come si muore e perché si muore.

 1ª voce:

Quando gli uomini non si riconoscono

in una sola patria ma in tante patrie in lotta tra loro,

come i sardi che per molto tempo non hanno avuto

una sola patria e una sola lingua,

ma almeno due patrie e due lingue,

una delle due è stata sempre in qualche modo

tradita o usata male.

Non per scelta ma per necessità,

perché non esisteva un terreno comune

che le accogliesse compiutamente entrambe

e il tempo per scegliere la patria

non coincise mai con il tempo più favorevole

per scegliere la lingua.

 2ª voce:

La storia può anche non piacerci

e possiamo credere a cose che non sono mai accadute

rifiutando quelle documentate

che non sono state come avremmo voluto che fossero

perché abbiamo giudicato il prezzo troppo alto.

Ma se vogliamo diventare quel che diciamo di essere

ma non siamo ancora;

se dobbiamo essere nazione,

se dobbiamo avere una nostra lingua

questo potrà avvenire

solo dopo esserci confrontati

con tutto ciò che è avvenuto nella storia

che ci piaccia o no

che sia gradevole o difficile da sopportare.

 3ª voce:

Dobbiamo fare i conti

anche con le differenze che ci sono tra noi

fin dai tempi più lontani                                                         

prima ancora che gli stranieri venissero dal mare,

prima che la loro influenza

si distendesse ovunque oltre gli approdi

portando insieme alla meraviglia della porpora

anche la paura che le navi nemiche cariche di guerrieri

recassero non solo doni ma anche saccheggi,

disgrazie torture, violenza sulle donne

e rapimenti di bambini innocenti.

Portassero tutte le altre cose

che da allora hanno visto divisa la gente sarda

tra chi scruta il mare con timore

e chi aspetta fiducioso

quelli che ha chiamato in suo soccorso

sperando che agiscano con giustizia

rispettino i beni e le donne,

onorino le usanze e li liberino dai nemici

senza pretendere ricompense.

 1ª voce:

Davanti al mare,

sia verso l’aurora sia verso il tramonto

i sardi hanno sempre tenuto aperte le finestre

per spiare l’arrivo delle navi provenienti

a volte dalla terra italica

e a volte da quella iberica

e prima ancora dalla lontana Asia e dall’Africa.

Dal mare sono venuti

anche i nostri più antichi antenati,

quelli che per primi hanno calcato il suolo sardo.

Sono venuti forse anche quelli che hanno costruito i nuraghi

e certo quelli che hanno edificato le città

e dopo di loro tutti quelli che hanno preso il comando

rompendo le promesse fatte all’arrivo.

Da allora nella storia della Sardegna

chi comanda ha nome straniero.

Tutti quelli che hanno lasciato

la loro pesante impronta sul suolo sardo

hanno nomi d’Asia o d’Africa

e poi di Roma, di Bisanzio, di Pisa,

di Genova, di Aragona e di Castiglia

o persino nomi di stirpe vandalica,

mai di stirpe nuragica.

 2ª voce:

Nel dolce paesaggio di ulivi, di vigne e di aranci

e nei duri paesaggi di pietra,

nei campi incolti e nei boschi di sughere,

di castagni, di lecci e di querce,

dovunque si posa oggi lo sguardo

ci sono monumenti che raccontano la loro presenza

fissata per sempre nelle tombe,

nelle pietre dei grandi cimiteri.

Nei più antichi monumenti

nei castelli, nelle basiliche, nelle mura e nelle torri

erette nelle città, la storia dei vinti

è soffocata da quella dei vincitori.

Tutto testimonia una convivenza

fatta di violenza e oppressione

e quasi mai di pace, civiltà e lavoro comune.

La nostra memoria ne da testimonianza

in essa, sono rimasti impressi

i segni del sangue degli uccisi

le sofferenze dei sopravvissuti sottomessi

e trascinati in catene

a coltivare le terre e servire le case dei vincitori

patendo sempre la fame.

Dal più vasto terreno dei campi dopo tanto tempo

viene ancora un cupo suono di lamenti

e di pianto per la dura crudeltà

della violenza e della spietata sopraffazione.

3ª voce:

La storia ha impresso

nella mente e nell’anima dei sardi

i segni di una “coscienza infelice”

ma anche di dura condanna contro coloro

che hanno ceduto il comando senza combattere

sopportando di essere dominati e asserviti;

contro tutti coloro

che hanno preferito piuttosto che unirsi

e scegliere un capo per guidarli alla lotta,

continuare a sopportare di essere oppressi

per mille, duemila anni

come se dovessero espiare una incancellabile colpa

accettando sofferenza e dolore

diventando sempre più poveri 

vivendo come prigionieri nella propria terra,

senza pensare che col tempo

sarebbero diventati una gente senza patria,

un popolo incapace di lottare

per tornare libero e sovrano

come era nell’età del bronzo e del ferro,

nel tempo nel quale i loro antenati diedero vita

a una civiltà che durò più di 1500 anni.

 1ª voce:

I segni impressi

nelle pietre più antiche infisse nel suolo,

negli altari, nelle tombe ipogeiche

nei pozzi sacri, nei nuraghi

nelle più antiche rovine delle città sul mare

nelle offerte custodite nelle tombe,

nelle mappe dei labirinti, nelle spirali

e nelle linee geometriche delle ceramiche

e delle pintadere di legno,

nelle figure dei bronzetti

e in tutto quel che rimane della antica storia

che non è riportato nella scrittura,

raccontano un mondo e una civiltà

che non erano inferiori a nessun altro mondo

a nessuna delle civiltà cresciute nelle terre poste

al di là del mare che circonda da tutti i lati la Sardegna.

Raccontano di un popolo costruttore di nuraghi

libero e padrone della sua sorte,

ma anche di quelli che hanno abitato l’isola prima di loro.

La loro storia è fissata indelebile

nella grande misteriosa potenza cognitiva

delle testimonianze sparse ovunque.

I segni non assomigliano a nessun alfabeto,

ma raccontano ugualmente ciò che è essenziale

per conoscere un mondo fatto non solo di bisogni primari

e di scambi elementari,

ma di grande creatività culturale

e di una vita sociale vissuta utilizzando gesti,

silenzi, sguardi, doni, e persino assenze,

tutte cose spesso più ricche di senso

delle parole scritte.

Molte delle cose arrivate fino a noi,

nelle pietre tombali e nelle altre pietre rituali

e in tutti gli altri oggetti

raccontano passaggi essenziali di una società viva,

ricordano regole e contenuti della vita in comune

documentano le originali forme delle relazioni tra gli uomini,

in un tempo segnato dal timore di svelarsi agli altri

per non accrescere i pericoli di una vita

quasi interamente dominata dalla paura della morte.

2ª voce:

La morte è presente ovunque

negli eventi naturali

nelle vesti gialle della carestia

in quelle rosseggianti dei terremoti,

o in quelle nere del vaiolo, del colera o del carbonchio

ma più spesso nella cieca ferocia della guerra.

Dovrà passare molto tempo

prima di raccontare con la scrittura

oltre alla morte e al dolore,

anche i giorni delle spighe,

dell’uva, dei parti delle vacche e delle pecore

del crescere dell’erba,della raccolta delle ghiande ,

dei frutti dell’orto,

dei fagioli, delle fave, dei fichi,

delle mandorle, delle noci, delle olive e del mirto,

delle danze nuziali e delle feste delle stagioni.

 3ª voce:

Gli uomini delle campagne, delle miniere e del mare,

le madri, le sorelle e le spose, pazienti custodi dei focolari

e consolatrici dei bambini e dei malati, tutti quelli

che si alzano al mattino sperando sempre che il tempo gli sia propizio.

Per comunicare tra loro

e scambiarsi le cose essenziali di tutti i giorni

non hanno bisogno di conoscere la scrittura

che non aiuta a sopportare le fatiche,

a condurre fuori dalle tempeste,

a evitare la morte violenta, a scoprire gli inganni,

a curare le malattie, a tener lontano le disgrazie

e portare conforto.

Le parole fissate nei testi scritti

non curano il dolore e il pianto

non hanno la forza

delle più antiche espressioni dell’alfabeto dell’animo,

non contengono i sentimenti d’amore

che sono dentro ogni essere umano

come il sale è dentro le onde del mare.

1ª voce:

Ma il tempo non si è fermato

e anche i sardi hanno dovuto imparare la scrittura

e subire il nuovo corso imposto dagli uomini delle navi nere.

Con la scrittura gli stranieri della porpora, del vetro

portarono molti altri segni di un mondo diverso

da quello conosciuto e vissuto dai sardi.

Molti per non mischiare il loro sangue e i loro saperi

con il sangue e i saperi degli stranieri

preferirono andare lontano lasciandosi alle spalle

le antiche case e i molti affetti

sperando di conservare intatta la loro storia

costruendo nelle colline lontane dal mare

una nuova vita simile all’antica.

Nelle nuove terre

cercarono tutto ciò che avevano conosciuto:

i campi, l’erba, le tortore, le pernici, le lepri, le piante,

l’acqua pura di sorgente,

le pietre adatte per elevare le loro torri

ed essere di nuovo al sicuro.

Volevano che nel loro cuore tornasse la speranza

di vivere in pace secondo le antiche tradizioni,

signori del loro tempo e dei loro focolari,

liberi di forgiare spade e pugnali, venerare i propri dei

fabbricare archi, frecce, lance e bronzetti votivi

vivere, parlare, cantare ridere, piangere secondo i propri usi

e non secondo gli usi degli uomini venuti dal mare.

2ª voce:

Vogliono continuare a vivere secondo i ritmi della natura,

all’ombra delle nubi

a volte tenera a volte minacciosa,

vogliono sentire la voce dei tuoni e del vento

il rauco rumore degli animali selvatici

il respiro pesante delle grandi ombre

che coprono la luna, l’urlo delle tempeste.

Non temono i pericoli della natura

perché li conoscono da sempre;

temono quelli nascosti

nell’astuzia e nell’inganno dei doni

portati dagli stranieri venuti dal mare.

3ª voce:

La storia dei guerrieri

che hanno lasciato le terre vicine al mare

durerà ancora a lungo.

La gente delle navi nere

non riuscirà a piegare la loro resistenza neppure con la forza

e con l’aiuto di quelli che li seguono per avidità di potere e di denaro.

I segni della loro resistenza

sono impressi ovunque.

Nelle pietre sparse nelle valli e nelle alte colline,

nei luoghi più segreti, e soprattutto nelle coscienze,

nelle pieghe più profonde dell’anima sarda

che da allora non conosce più allegrezza

perché nelle menti sempre si confrontano

orgoglio e vergogna,

inappagati desideri di vittoria e umilianti sconfitte.

Da allora libertà orgogliosa e dipendenza servile

si specchiano l’una  nell’altra dentro una coscienza infelice

che rivive tutto il tempo passato

senza saper ancora ciò che è veramente accaduto.

Voce sola:

Ma allora

chi siamo?

 1ª voce:

Quello che siamo è la somma di tutto ciò che siamo stati,

è la somma di molte differenze e del sangue di varie stirpi.

Di quella che per prima giunse alle nostre rive dall’Africa

e di tutte le altre che lungo i secoli

dall’Asia, dall’Egeo e poi dall’Italia,

dalla Spagna vennero con molte navi

portando la potenza degli imperi che hanno dominato la storia.

Quello che siamo

si è formato in migliaia di anni

in un processo che ha visto mescolarsi vincitori e vinti,

vecchi e nuovi abitatori,

padroni e schiavi,

seguaci di una grande famiglia di dei

e seguaci di un Dio unico e trino.

Non siamo figli del mistero ma della storia.

Prima che i mercanti venuti dall’oriente

portassero con loro la scrittura,

fondassero le città sul mare

e diffondessero ovunque le loro mercanzie

e i loro usi,

prima che si levassero nelle città

i vessilli e le voci dei vincitori

i sardi erano liberi e signori della loro terra.

La libertà è finita quando nelle città sul mare

arrivarono dopo i mercanti anche i soldati.

Allora grazia e gioia scomparvero

i doni si caricarono di mestizia

e molti piansero miseramente la libertà perduta.

Da allora

ogni volta che compare una nave straniera

il timore degli eserciti percorre le strade

penetra nei giardini e nelle case,

portando oscure minacce di saccheggi

di ferri stretti alle gole, di dominio crudele,

di gente senza pietà per i vinti.

2ª voce:

La nostra identità non è un mistero

anche se molte cose della storia più antica

e di quella dei nuragici sono ancora oscure

e di molte cose successe dopo conosciamo solo la parte

presente nei segni arrivati fino a noi.

Quello che si legge nei monumenti

conferma che il popolo sardo

ha un’origine lontana

diversa da quella degli altri popoli

e possiede una sua identità anch’essa diversa.

La nostra storia più antica è arcana e misteriosa,

non ha lasciato tracce scritte né documenti,

ma si può ricostruire con la logica della ragione

e con l’uso degli stessi strumenti concettuali

adoperati per spiegare il corso seguito

dall’evoluzione umana in qualsiasi parte della terra.

Essi ci dicono che la presenza umana in Sardegna

risale al tempo arcano ancora immerso

nel buio profondo e inesplorato dell’alba della storia

e ci dice che la sua evoluzione ha seguito percorsi simili

a quelli di tutte le altre genti.

3ª voce:

Della prima comparsa dell’uomo

non abbiamo prove sicure

e nessuna traccia dei suoi primi passi

di ciò che è accaduto

prima che sorgessero

da grandi pietre, grandi nuraghi, muraglie e fortilizi,

prima che comparisse la stirpe di guerrieri

che ha dominato terra e mare

e usato animali domati per coltivare i campi

e procurarsi altro cibo da aggiungere alle prede della caccia.

Sappiamo che il tempo della Sardegna

è certamente più antico di quello di altre terre

e il tempo della sua gente è anch’esso più antico

di quello di molte altre genti che hanno

abitato la terra che oggi chiamiamo Europa.

Sappiamo che da quando

il primo uomo ha calcato il suo suolo

gli abitanti della Sardegna hanno subito l’influsso

e si sono evoluti secondo le esigenze dell’ambiente

nel quale hanno vissuto.

Essi hanno conosciuto libertà e dominio,

abbondanza e fame,

hanno sopportato millenni di servitù

di sofferenza e di offese umilianti;

hanno creato una grande civiltà

e sono stati soggiogati

e dominati con la forza.

Prima dei nuraghi, dei betili,

delle domus de janas, dei menhir,

dei bronzetti, dei pozzi sacri, delle necropoli,

delle grandi statue di Mont’e Prama,

i sardi hanno conosciuto la violenza della natura,

la solitudine delle grandi distese di sabbia bianca,

la dolcezza delle insenature riparate dai venti,

la forza dei monti blu viola, le bellezza dei grandi tramonti,

hanno conosciuto la potenza del vento di maestrale,

il disagio del caldo scirocco e dell’umido levante,

hanno conosciuto fiumi gonfi d’acqua d’inverno

e asciutti nell’estate,

fontane chiare e foreste sempre verdi,

aria profumata di menta, di rosmarino, di mirto e di lentischio

e tutto questo è rimasto nella mente, ha alimentato i miti

e le storie di un tempo privo di pene, di dolore,

di privazioni, di dure umiliazioni, ricco di ardimento,

amore, coraggio e orgoglio prima che la Sardegna

fosse umiliata, vinta e divisa in tante parti

contrapposte e spesso nemiche.

1ª voce:

Non sempre e non tutte le storie e i miti dicono il vero.

Molta parte del tempo più antico è segnata

da sottomissione, sofferenza e dolore,

divisioni e lotta tra noi.

La nostra è una storia tormentata.

Dopo il glorioso tempo dei Nuragici,

sono venuti i Fenici, i Punici e i Romani

e poi i Mauri, Ebrei, Vandali, Arabi, Spagnoli

Pisani, Genovesi, Francesi e Savoiardi.

Tante stirpi che si sono sovrapposte e mescolate,

senza diventare una sola gente e

una sola Sardegna.

Ci sono le storie dei signori delle città regie

e dei castelli feudali, e le storie dei servi

della gleba e dei disperati delle miniere e delle saline.

C’è eroismo e tradimento, c’è libertà e dipendenza.

Dalla nostra storia tormentata ci viene l’orgoglio

ma ci vengono anche i pensieri dolorosi

che ci accompagnano sempre e ovunque.

Da essa vengono i suoni e le parole dei canti

che raccontano le nostre emozioni più semplici

ma vengono anche le parole della diffidenza e del sospetto,

viene il linguaggio scarno e ruvido

che regola la vita comune di tutti i giorni.

Dalla storia vengono le maschere

che coprono i nostri visi con sembianze animali,

e le parole di lutto e di rassegnazione

per un ineluttabile destino

che graverebbe su di noi senza lasciarci scampo.

Il tempo è stato quasi sempre crudele con noi

e la libertà non è mai diventata un bene certo,

ma è rimasta sempre insicura

e quando qualcuno ha provato a liberarsi

qualcun altro lo ha fermato con la forza

riportando tutto al prima,

alla dipendenza e all’assoggettamento.

La Sardegna si è divisa in tante Sardegne

popolata da genti umiliate

non più padrone del proprio tempo e della propria terra,

non più un popolo con una sola lingua e una sola patria.

2ª voce:

Il nostro destino è stato infelice

ma non solo per colpa dei dominatori stranieri

ma anche per la nostra inettitudine in tutti i tempi,

anche nel periodo giudicale, anch’esso

pieno di violenza, di oppressione e di lotte

di tutti contro tutti

ma soprattutto contro coloro che tentarono

di trasformare le tante Sardegne

in un unico regno sotto un unico signore.

Le nostre disgrazie non sono tutte figlie della sfortuna.

Non è stata solo la sfortuna

ad impedirci di essere un popolo

libero padrone della sua terra.

Anche noi abbiamo colpe delle nostre disgrazie.

La nostra però non è solo una storia di sfruttamento

e di dominio straniero.

C’è stato anche il tempo

dei grandi guerrieri di Mont’ e Prama

e prima di loro, per molte migliaia di anni

la Sardegna ha vissuto libera e in pace.

Il declino è iniziato quando gli stranieri venuti dal mare

hanno sottomesso i nativi

più che con la forza, la frode e il tradimento,

con il fascino della porpora, dei profumi e della scrittura

e con la promessa di una vita migliore.

Il perché del nostro destino

non va cercato nella sfortuna,

ma nelle vicende della storia.

3ª voce:

Tutto quello che conosciamo ci dice

che la prima infanzia dell’uomo sardo

è stata simile a quella dell’uomo dell’Asia

o dell’ Africa o della Spagna o della Francia.

È stata un’infanzia senza voce

lunga più di centomila anni

che si snodano in cicli di molte migliaia di anni,

apparentemente sempre uguali

senza che nulla accada al di fuori dell’evoluzione naturale

ancora tutta avvolta in un mistero.

Di questi nostri più antichi antenati

non sappiamo quasi niente

neppure se la nostra primigenia natura

sia una sola oppure molte e diverse.

Della storia più antica sappiamo solo

ciò che abbiamo scoperto nelle tombe

e nelle caverne sparse in tutta l’isola,

e possiamo anche immaginare

che negli spazi ancora incolti vagasse una presenza umana

simile all’uomo di oggi

in lotta senza quartiere con gli animali

prima ancora di competere tra simili

per le risorse materiali e le donne.

L’uomo che viveva in Sardegna non era diverso

dall’uomo che cercava solo di sopravvivere

in tutte le altre parti della terra.

L’identità nel senso che si intende oggi,

fatta di fattori naturali e di fattori culturali,

è una cosa che viene molto dopo.

1ª voce:

L’identità è figlia di tanti padri e di tante madri e figlia

oltre che dell’ambiente naturale, della storia.

Quel che sappiamo

della nostra storia più antica

non prova e non nega

che all’origine ci fosse un unico popolo nato da una sola radice.

Dice però che nel tempo

c’è stata un’evoluzione, un innesto

del carattere e del sangue

delle tante diverse genti venute in Sardegna

nel tempo lungo e travagliato della storia.

Ci dice che alcuni semi

delle piante venute da fuori non hanno germinato

perché i nativi non li hanno raccolti per paura dell’ignoto.

Ma ci dice anche che molti altri

sono stati raccolti e si sono aperti,

hanno prodotto frutti che sono diventati

parte dell’identità di tutti gli abitanti dell’isola.

Nessuno può negare che ci sia stato un crogiolo

che ha fuso nel tempo molti elementi diversi e che il prodotto finale

non è più perfettamente simile a quello dell’origine.

Neppure il nucleo più interno e profondo, infatti,

investito dai nuovi valori, dalle nuove culture e dai nuovi saperi,

portati da quelli che vennero uno dopo l’altro

in modo incessante dal mondo esterno,

può essere sopravvissuto intatto e senza alcun cambiamento.

2ª voce:

È vero; quello che affermi è vero;

molte cose i sardi le hanno apprese dagli stranieri

che però a loro volta hanno assorbito

l’influsso della natura, dell’ambiente

e della cultura locale.

Con questa realtà si sono dovuti confrontare

sia i più antichi invasori ancora sconosciuti,

sia i suadenti e pacifici mercanti fenici

sia i Punici venuti con molta maggiore potenza e volontà di dominio;

sia i Romani e tutti gli altri venuti dopo di loro.

Lungo tutta la storia la Sardegna ha preso ed ha dato.

Nessuno è rimasto indenne dalla contaminazione,

non solo i sardi ma neppure

i Punici e i Romani

che pure hanno imposto la loro legge

domando ogni resistenza anche nelle zone più interne.

Tanto meno sono rimasti gli stessi quelli venuti dopo di loro.

Nessuno è riuscito però a cancellare le originarie radici

né a modificare la natura più profonda del popolo sardo.

Nessuno è riuscito ad imporre completamente la sua cultura

la sua lingua e i suoi costumi.

Il vecchio e il nuovo

si sono mescolati e contaminati

ma la natura profonda dei sardi è rimasta intatta.

Le grandi memorie del passato

e le espressioni culturali maggiori sono rimaste.

Gli usi, i costumi, i riti, il senso del possesso diretto della terra e dei beni primari

e con loro la speranza di riavere un giorno una patria e una nazione

sono sopravvissuti nel profondo delle coscienze

a tutti i cambiamenti e in tutte le fasi

della lunga storia di sofferenza e oppressione.

La storia non ha seguito sempre gli ordini dei vincitori

e non si è snodata solo secondo le loro pretese.

Persino il nuovo messaggio cristiano, che si era imposto

anche contro gli imperatori romani molto prima di Costantino,

trovò difficoltà a penetrare nella società sarda

perché quelli che odiavano il servaggio temevano

che anche quelli che si chiamavano cristiani

invece della libertà promessa avrebbero portato

guerre, sofferenze e condizioni servili.

3ª voce:

Non tutto nella nostra storia

è assoggettamento, omologazione e rinunzia.

Le testimonianze archeologiche

raccontano la presenza contemporanea dal tempo dei Fenici in poi

di due culture, una vecchia e una nuova:

quella dei nativi e quella degli stranieri.

Anche quando la nuova presenza

da pacifica attività mercantile diventa potenza militare

e impone alle antiche popolazioni

la sua volontà con la forza delle armi

e concede ai suoi capi privilegi e ricompense per corromperli,

l’identità dei sardi sopravvive

spesso in forme silenziose ma sempre vitali.

E quando il potere militare

prima di Cartagine e poi di Roma

pose tutto il territorio sotto il suo controllo

comprese le città, i commerci e tutte le risorse naturali,

la cultura nuragica sopravvisse nelle terre più interne

rifiutando di accettare umilianti compromessi

e conservando con orgoglio e sofferenza le vecchie radici.

E dopo Pisa, Genova e Spagna,e infine sotto i Savoia,

in tutta la sua storia la società sarda ha sempre oscillato tra opposte visioni,

tra separazione e unione,

tra fiducia e diffidenza,

tra ostilità e attrazione.

tra la spinta a confluire in una patria più grande

e il desiderio di conservare

una sua piccola ma autonoma espressione politica.

L’identità ha conosciuto molte traversie,

manipolazioni e violenze.

Ha attraversato i secoli, subendo

lunghi e vasti processi di integrazione

ma non è mai scomparsa, anzi

si è insinuata nelle menti e nei cuori

dei discendenti dei dominatori stranieri

succedutisi ininterrottamente al comando

nei palazzi del potere, nelle miniere,

nelle peschiere, nel commercio dei grani

nel possesso dei grandi latifondi

e nello sfruttamento dei grandi pascoli.

L’identità sopravvissuta

non è il frutto di una progressiva successione lineare,

non è una semplice somma di modifiche succedutesi una dietro l’altra

ma è frutto di un processo fatto di spinte, di accelerazioni

di grandi pause, di interruzioni e di contrasti spesso violenti

tra le vecchie e le nuove culture.

L’identità è cambiata, si è spesso confusa e smarrita,

è rimasta sospesa tra due mondi, lasciando spesso tutti incerti

se affrontare da soli fino in fondo il mondo grande e terribile

in piena libertà e in piena responsabilità,

oppure lasciarsi guidare nel mare tempestoso della storia

da chi aveva più volontà e più interessi

e soprattutto possedeva la forza per imporli.

La vecchia identità non è morta,

anche se per lunghi secoli siamo apparsi un popolo

senza lingua, senza voce, senza ambizione,

senza rimorsi e senza patria.

Capitolo 2

Voce narrante:

Dopo l’abbandono di Bisanzio

la Sardegna, isolata dal mondo,

visse un lungo declino, tra continue guerre intestine,

violenza di eserciti mercenari,

carestie e ricorrenti pestilenze.

La terra sarda venne divisa in quattro regni

e in essi si alternarono e si mescolarono i Lacon, i Serra e i Gunale,

con Torchitori, Visconti, Gherardesca, Doria e Malaspina

e dopo di loro altre casate feudali catalano-aragonesi

tra le quali la casata dei Bas Serra

cui appartenevano Ugone, Pietro, Mariano e la grande Eleonora

che per molti anni tennero alto lo stendardo della Sardegna

amministrandola e governandola con buone leggi

e cercando di liberarla dal giogo

della loro stessa stirpe regnante ad Aragona

costringendo questa a subire molte sconfitte

e a impegnare tutte le sue forze,

prima di riuscire a imporre alla Sardegna

il suo sigillo, la sua legge e il suo dominio.

Molti dei suoi villaggi morirono,

i loro fuochi si spensero per sempre

e della loro fitta trama

rimasero solo poche rovine

e nessun segno a ricordare

l’esistenza di un popolo che si sente nazione.

Un mondo intero scomparve nel nulla,

la rete degli insediamenti umani si allargò

lasciando spazi sempre più vuoti.

Dopo qualche secolo

tutti i giudicati alla fine vennero cancellati,

Pisa e Genova sconfitte ,

tutte le famiglie che avevano a lungo dominato nell’isola

vennero infeudate prima alla Corona catalano-aragonese

e poi alla Spagna.

Dopo di allora oltre alla peste nera, alle carestie e alle guerre

la Sardegna fu devastata dallo sfruttamento brutale

delle sue popolazioni da parte dei nobili

e spesso anche dell’alto clero di origine spagnola.

Non solo nei grandi feudi nobiliari

ma anche nelle terre possedute da basiliche e monasteri

molti sardi erano servi della gleba.

Nei condaghi insieme ai nomi degli abati e dei monaci

ci sono i nomi di quanti la morte ha liberato dal duro sfruttamento

spesso nascosto sotto la veste della pietà religiosa.

In quegli anni

non di nazione di liberi si può parlare

ma solo di un popolo di schiavi.

In Sardegna non c’è traccia delle comunità fraterne

che nelle terre convertite mettevano tutto in comune

e spartivano i beni, liberavano gli schiavi

diventando tutti fratelli nel nome di Cristo

emancipando i miseri e

riconoscendosi un’unica comunità, un solo popolo.

Tra i martiri ci sono anche sardi

ma la maggior parte di essi porta i nomi stranieri,

porta i nomi di soldati romani.

Efisio, Simplicio, Lussorio, Gavino

Proto, Genuario, Antioco diventati solo dopo nomi sardi.

Sotto l’egemonia di Pisa e Genova

la presenza cristiana diventa più intensa,

sorsero ovunque molti conventi concepiti

più per controllare che per unire

o per rendere più liberi i sudditi;

più per segnare i confini e difendere le terre

dei signori dei castelli che avevano i nomi

di Doria, Malaspina, Arborea,

Gherardesca e Visconti, per dire i più noti,

piuttosto che per promuovere una nuova

coscienza identitaria

o per unificare la Sardegna

e fare delle varie genti dell’isola

un’unica gente sotto le insegne cristiane

come avveniva in altre parti d’Europa.

Il Papato al contrario,

con Bonifacio VIII autoproclamatosi Signore dell’Isola,

infeudò i sardi al Re Alfonso di Aragona

dando di fatto inizio a un lungo

e tormentato periodo di guerre e di lotte

che finirono solo quando la Sardegna divenne tutta spagnola

umiliando Arborea e spegnendo nel sangue

il suo tentativo di unificare l’isola.

Primo Coro:

Non possiamo condannare i nostri antenati

per aver vissuto insieme ai loro vecchi nemici.

L’uomo non è fatto per stare sempre

uno contro l’altro armato.

Il suo cuore non può vivere solo d’odio e di rancore;

ha bisogno anche di tenerezza,

di amicizia, di riconoscenza.

Ha bisogno di dare e di ricevere

gratuitamente dei doni

ha necessità di aprirsi

a orizzonti di sentimenti condivisi;

deve scambiare i timori e le speranze

con persone amiche che possano

rassicurarlo e dargli quel che da solo

non può avere.

Gli uomini non possono vivere

senza fidarsi di altri uomini

rimanendo sempre da soli tra loro

aspettando una salvezza e un salvatore,

un messia come quello promesso agli ebrei

senza cedere alle lusinghe e al bisogno.

E poi

noi non siamo un altro popolo eletto,

non abbiamo avuto un Dio che ci ha scelti come suo popolo,

e neppure un mediatore per negoziare un patto,

attraversare il deserto

e avere finalmente la libertà promessa.

 Secondo coro:

Nessuno può incolpare i nostri progenitori

di non aver combattuto abbastanza

per mantenere intatto il sangue dei sardi

per mille e mille anni.

Non sono loro i responsabili del dominio straniero,

né di tutte le guerre che per tante volte

hanno spento i focolari e svuotato i campi

e costretto tutti a servire in silenzio

e a combattere sotto insegne straniere.

Nessuno può accusarli di non aver sopportato

di vivere ancor più miseramente per rimanere liberi e soli

accettando di essere assoggettati e comandati da altri

nella infondata illusione

che lontano, molto lontano,

invisibile e tutta avvolta nel mistero

ci fosse una forza che un giorno

si sarebbe mossa in loro aiuto per liberarli

facendoli tornare ad essere quello che erano stati

prima che il grande popolo di guerrieri

raffigurato nei bronzetti e nelle statue di Mont’e Prama,

scomparisse nel nulla,

non si sa se causa di una guerra,

di una carestia o di una pestilenza

oppure per decisione spontanea per tornare alle proprie case

o per conquistare altre terre,

proprio quando erano sul punto

di diventare una grande nazione

come ci raccontano i bronzetti

e le alte stanze dei nuraghi.

Una voce dalla folla:

Ma allora noi chi siamo?

 

1ª voce:

Siamo tutto ciò che è,

che è stato

o che sarà

e non è ancora.

Siamo i figli di quelli

che elevarono al cielo le torri dei nuraghi,

siamo i discendenti degli uomini e delle donne

sepolti nelle tombe scavate nella pietra

e nelle domus de janas.

Siamo gli eredi dei costruttori dei betili

e dei giganti di Mont’e Prama,

siamo i figli di quelli che hanno scavato i pozzi sacri.

Siamo Amsicora e Iosto, siamo Cartagine e Roma

Genova e Pisa, Barcellona e Madrid.

Siamo Piemonte e Italia

siamo l’Europa.

Siamo contadini e pastori,

banditi e carabinieri, giudici e soldati,

siamo carcerati e schiavi venduti a basso prezzo

siamo preti e sacristi, signori e servitori fedeli.

Siamo il Risorgimento e la rivolta contro il Piemonte,

siamo il Piave e l’Isonzo e le trincee delle Frasche,

siamo la marcia su Roma e la Resistenza

siamo il nuovo e l’antico.

Siamo tutto quello che ha voluto la storia.

 2ª voce:

Per lungo tempo abbiamo cercato di non guardare

e quando abbiamo riaperto gli occhi

abbiamo scoperto di essere diventati un’altra cosa,

abbiamo scoperto di esserci piegati

a vivere come ci veniva detto da altri

a volte con la forza a volte senza alcuna violenza,

anzi ansiosi di diventare uguali a loro.

Tante volte abbiamo rinunciato all’idea

che potessimo tornare a essere i soli padroni

della nostra terra e della nostra vita.

Troppe volte abbiamo sopportato una servile convivenza

trasformandola spesso in compiaciuta dipendenza,

e persino nell’esaltazione delle radici straniere

conservate con cura nei costumi, nella lingua,

nel cibo, nei titoli feudali, nel canto, nelle feste

e persino nella venerazione dei santi imposti dai dominatori.

Troppe volte abbiamo dimenticato quanto la nostra vita

abbia grondato di sangue e di lacrime per i soprusi,

gli arroganti saccheggi e le morti per violenza e per fame.

Per moltissimi anni

abbiamo evitato di fare domande a noi stessi

per non sentire la voce dell’orgoglio umiliato

seguendo quelli che preferivano

vedere un mondo colorato di turchese.

Troppe volte abbiamo rifiutato di riconoscere

che la nostra è stata sempre una terra d’esilio

non tanto e non solo per i condannati dai potenti di turno

ma per tutti i sardi costretti a vivere sotto il pesante tallone straniero.

Troppe volte abbiamo nascosto a noi stessi

che in tutti i tempi hanno comandato gli invasori

perché i vecchi abitanti non hanno avuto il coraggio di reagire

e non credendo nel successo hanno preferito

restare inerti, immobili e incupiti dal rancore

oppure si sono limitati a presidiare

uno spazio di speranza sempre più piccolo

senza correre alcun rischio, rimanendo al sicuro nelle loro case

tristi e silenziosi con finestre e porte rigidamente sbarrate.

 3ª voce:

Il tempo della prigionia è stato lungo;

ha conosciuto molti inverni segnati dallo sconforto

e molte estati di torrida violenza .

La speranza però di tornare ad essere

quello che siamo stati nel tempo più antico

non è mai morta ma sopravvissuta nelle coscienze

sia della gente delle pianure e sia delle montagne;

in quella dei mietitori col viso bruciato di sole

e le mani indurite dalle resti,

nella coscienza delle donne costrette a raccogliere in silenzio

le spighe cadute dai mannelli,

in quella dei contadini dominati dalla paura della scarsità della pioggia

e delle invasioni delle locuste divoratrici;

in quella degli abitanti delle città cacciati con la forza e la violenza dalle loro case

dei pescatori del mare e delle lagune

rimasti senza la barca requisita dai vincitori,

dei pastori senza cani senza greggi e senza pascoli,

e in quella di chi pianse i familiari

morti in battaglia o fatti schiavi dai vincitori.

 1ª voce:

Non basta solo credere e sperare

per vedere realizzarsi i sogni.

La speranza per diventare realtà

ha bisogno di un lungo e duro lavoro

di un grande impegno di tutti.

Nella nostra tormentata storia

molti hanno sopportato di vedere

il sole della libertà solo al tramonto;

hanno lasciato che il vento della giustizia

restasse immobile dietro i monti

per paura di turbare il mare calmo della loro vita

e continuare a dormire senza rimorsi e senza affanno.

Gli uni e gli altri

hanno preferito fingere di non sapere

che continuando a camminare

sempre con gli stessi piccoli passi,

e aspettando inerti il cambiamento,

il mondo non li avrebbe mai

riconosciuti come popolo.

 

2ª voce:

Il destino di un popolo lo decide il coraggio

e la responsabilità della sua gente

non lo decide una storia senza protagonisti.

Nessuno ha mai cambiato il destino

restando rinchiuso dentro le proprie memorie

nell’illusione che un giorno tutto comunque cambi

e nessuno sia più costretto a servire un padrone

accontentandosi, nell’attesa di avere tempi migliori,

di evitare il peggio, convivendo con gli stranieri

che volta a volta comandano su di loro.

Per avere la libertà perduta non basta

conservare i valori e le memorie delle antiche origini,

ma occorre combattere e rischiare,

fare cioè tutto quello che non è stato mai fatto.

neppure al tempo della storia giudicale

che è stata una parentesi di libertà vissuta dai sardi

in una forma mai pienamente sovrana

perché dovettero accettare dure dipendenze feudali

e la tutela protettrice pesante e onerosa delle città marinare

e delle loro grandi famiglie.

 3ª voce:

L’orgoglio non rende migliore

una storia che si è svolta giorno dopo giorno

secondo l’arrogante pretesa di gente di altre terre,

di altre lingue e di altri costumi.

Di una storia che ci ha visto quasi sempre,

come hanno detto gli spagnoli,

 “pocos, locos e maleunidos” ,

ci ha visto come un popolo che non cerca neppure

di ritrovare la sua unità perduta

di riprendere il cammino e il posto

di quelli che avevano costruito i grandi nuraghi

di Antigori, Arrubiu, Burghidu,

Domu e s’Orcu, Genna Maria,

Loelle, Losa, Lagherras,

Maiori, Oes, Orok,

Piscu, S. Antine, Su Nuraxi,

Palmavera e tutti gli altri,

che nel Nord e nel Sud dell’isola

raccontano la storia di un popolo forte e unito

e di una terra dove per più di un millennio

non è mai comparsa una bandiera straniera.

 1ª voce:

Il popolo dei nuraghi è scomparso

in una forma ancora avvolta nel mistero

ma la sua potenza è arrivata fino a noi.

Nessun altro popolo venuto dopo di loro,

né quello fenicio-punico, né quello romano,

pisano, genovese, spagnolo è riuscito a superarla

e neppure a cancellare le prove che un tempo

siamo stati un popolo e una nazione gloriosa

unita e potente, destinata a rinascere.

Essa rinascerà a nuova vita

dopo un processo che ci ha fatto diventare tutti meticci,

sardi non per ius sanguinis

ma per ius soli.

Siamo un unico popolo

e ad una sola nazione,

ma siamo anche figli

delle tante stirpi che hanno dato vita

alla millenaria storia della Sardegna

con successive sovrapposizioni, mescolanze e ibridazioni.

 2ª voce:

Anch’io penso che i sardi di oggi

sono eredi di sangue dei nuragici

ma anche di tutti quelli che si sono

sovrapposti al nucleo originario

in un processo che dura da migliaia di anni.

Ed è in questo processo che dobbiamo cercare

la forza e la debolezza dell’identità.

È in questo lungo processo

che si è formato il carattere dei sardi che hanno affrontato

le vicende della storia, a volte con sobrietà e tolleranza,

a volte senza dignità e a volte senza orgoglio

a volte assorbendo il meglio di ogni esperienza.

Solo il nocciolo duro dell’identità non è cambiato

ed è sopravvissuto a tutti i regimi, a tutte le difficoltà

e persino a tutti i cedimenti; ma molte altre cose

presenti nell’origine sono cambiate.

 3ª voce:

Se l’identità è sopravvissuta a tutti i cambiamenti,

vuol dire che le sue radici vanno cercate non tanto

nella esistenza di antiche statualità originarie,

o in una sovranità perdute, ma piuttosto nel fatto

che tutti quelli che vivono nell’isola

si costituiscono sempre come popolo

che ha coscienza di essere una nazione

che la storia e/o l’assenza di idonee condizioni

hanno costretto a una permanente incompiutezza,

fatta di precarietà e indecisione

di negata statualità, e di pesanti sconfitte

che hanno alimentato una coscienza infelice

carica di permanente delusione

e di profondi, duri, insopprimibili complessi di inferiorità

per non essere riusciti a realizzare pienamente la nazione

e di vedere che l’obiettivo tanto desiderato

potrebbe non essere mai raggiunto .

 1ª voce:

Tante volte nel silenzio delle passioni

il cuore si è fermato

e il tempo è rimasto sospeso.

Ma non per sempre.

I più fedeli custodi dell’ identità nazionale

hanno ripreso a tessere la tela

ogni volta con più forza, più ansia, più rimpianti

e maggiore sofferenza per non essere ancora riusciti

a ritrovare il respiro unitario di popolo

con una propria voce e una propria lingua,

neppure dopo la caduta dell’Impero romano,

neppure quando il latino ecclesiastico e notarile

aveva lasciato libero il campo,

e si è cominciato a parlare e scrivere nella lingua “volgare” del popolo

per più di trecento anni.

 2ª voce:

La lingua sarda si affermò nei condaghi

nell’uso comune e negli atti di governo,

nella Carta de Logu e negli Statuti delle città.

Ma ai potenti serviva conservare le distanze e continuarono a scrivere

prima nell’antica lingua di Cesare e poi in quella di Spagna

i preghi, i pregoni e gli atti giuridici necessari

per tutelare la proprietà, rafforzare il dominio

conservare tutti i vecchi privilegi,

impedire la crescita di una vera identità nazionale.

Dopo l’abbandono del latino

Aragona e la Spagna e da ultimo il Piemonte

imposero le loro lingue

condannando quella sarda a diventare sempre più povera

a vivere negli spazi ristretti delle relazioni private

dove si è conservata fino ad oggi ma sempre più emarginata,

o spesso esibita come si esibiscono le spiagge e le rocce,

o per completare il travestimento

di gente vestita nel costume antico dai colori sgargianti

nell’illusione che l’identità e la lingua sopravvivano danzando,

o vantando la sua età centenaria come segno di buona vita,

migliore delle altre come

i cavalli, le capre, i buoi,

le vigne e gli ulivi sardi.

 

3ª voce:

Il rischio di veder scomparire

tutto ciò che siamo stati nel passato è sempre presente

anzi rischia di diventare

più forte proprio nel momento

nel quale cresce il numero di quelli che rivendicano il diritto

di diventare uno Stato indipendente e sovrano,

senza accorgersi che la Sardegna assomiglia sempre di più

a una cortigiana che si può avere facilmente in dono,

per conquista o anche solo per denaro.

Per impedire che la Sardegna

perda per sempre la sua antica identità

la cosa più urgente non è quella di affermare un diritto

ma di combattere contro tutto ciò che contribuisce

a far diventare i sardi sempre servili

sempre più venali e sempre più divisi

più disuniti di come sono stati nelle peggiori epoche

della loro tormentata storia.

 1ª voce:

Tutto quello che oggi siamo è nella storia,

anche la diffidenza, il sospetto, la sfiducia

hanno le radici in ciò che è accaduto nel tempo.

Nascono in parte dal tradimento

in parte dall’inganno,

in parte da promesse non mantenute,

da disegni ambigui o troppo brillanti

per essere veri, o troppo deboli

per convincere molti a sopportare senza alcuna garanzia

i rischi del cambiamento.

Tutta la storia è piena di eventi

che portano a diffidare e sospettare

anche chi parla la stessa lingua e dichiara

di riconoscere gli errori e promette di correggerli.

Perché meravigliarsi

se i sardi preferiscono diffidare e sospettare

piuttosto che lasciarsi ingannare un’altra volta?

Essi non dimenticano le tante volte

che la frettolosa fiducia

ha provocato la rovina delle case,

il silenzio dei focolari,

ha fatto diventare freddi

i giacigli delle giovani vedove,

ha svuotato gli armadi

ha bruciato le messi e inaridito le fontane

ha scavato l’abisso di lacrime

nel quale ancora piange la loro anima

e risuonano i lamenti dei morti, dei feriti,

dei prigionieri e degli schiavi abbandonati,

anche dai loro fratelli,

che hanno ignorato le preghiere di aiuto

preferendo seguire gli inviti dei vincitori

e diventare loro alleati.

2ª voce:

In ogni tempo solo pochi uomini generosi

hanno dato ascolto alla coscienza

quando essa chiedeva a tutti di riflettere,

di ascoltare la voce degli altri,

di non ripetere gli errori,

ma anche di non fuggire di fronte alle prove

di fidarsi qualche volta dei propri fratelli

di non chiudere sempre la porta

a chi propone di costruire un futuro diverso

da quello conservato e tramandato,

a chi afferma che non basta dire di amare

la propria terra, gli uomini, le donne,

le fontane, i fiumi, gli alberi e persino gli uccelli

ma occorre combattere, occorre rischiare

senza mai arrendersi

neppure quando si scopre che le cose

sono spesso andate in un modo

che non sempre ci fa onore.

3ª voce:

Nella storia della Sardegna ci sono anche persone

che non hanno mai ceduto alla forza

o alla violenta arroganza dei vincitori.

Ma sono molti di più quelli che hanno preferito

arrendersi, cedere,

persino fare un patto scellerato

per avere qualche misero beneficio

ottenuto sottoponendo

a un umiliante servaggio i propri fratelli.

In tutti i tempi solo pochi hanno operato

per mantenere le condizioni indispensabili

perché un giorno il popolo sardo

potesse tornare a governarsi e difendersi da solo.

La gran parte dei sardi ha preferito

aspettare che gli fosse regalata una patria;

ha scelto di restare inerte e passiva, sperando

di avere senza fatica e senza dolore

quel che altri popoli hanno ottenuto

con grandi sacrifici e grandi prove comuni

continuando a sperare

che un giorno qualcuno avrebbe alzato

la bandiera della liberazione

avrebbe superato le resistenze e le titubanze

e cancellato dalle menti i sospetti,

i dubbi e soprattutto le invidie

che hanno sempre segnato la storia sarda.

Per scrivere un’altra storia

al posto della storia imposta dai vincitori,

per avere una storia che non sia solo il racconto

di una mano sofferente che cerca l’aiuto e la compagnia

di un’altra mano compassionevole

non sia solo il bilancio del tempo guadagnato e del tempo perduto,

o più semplicemente un’esperienza imposta dai potenti,

occorre molto di più di quanto fino ad ora è stato fatto.

Occorre non la passione e l’orgoglio di pochi

ma la volontà e l’impegno di tutto un popolo.

1ª voce:

La storia ha dimostrato che

senza l’impegno di tutti si può ottenere una modesta autonomia

ma non evitare di essere omologati agli stati dominanti.

Si può conservare una soggettualità più formale che sostanziale

si può vivere una condizione che è apparentemente di forza

ma nella sostanza è di debolezza

perché sotto una apparente conservazione

delle caratteristiche culturali, sociali e politiche raccolte nella specificità;

l’autonomia spesso si è dimostrata un limite,

un freno allo sviluppo, al progresso civile

rispetto agli altri territori dello Stato del quale si è parte.

 

2ª voce:

C’è sempre stato chi ha giudicato l’Autonomia

più un limite che un vantaggio per lo sviluppo e il progresso.

Tutti ricordiamo ciò che è successo nel 1847

quando la borghesia sarda e soprattutto i giovani studenti delle città

sostennero che era ormai tempo di cancellare le differenze,

diventare a tutti gli effetti uguali agli altri sudditi dei Savoia

considerando la sopravvivenza degli antichi Stamenti

e l’esistenza di leggi diverse, di uffici separati

e di codici differenti un danno, un ostacolo da eliminare

per essere a tutti gli effetti

un unico Regno, una sola nazione, un solo Stato.

Ma il cambiamento in meglio non ci fu,

gli antichi disagi rimasero,

e le condizioni civili della Sardegna

non si avvicinarono a quelle del Piemonte.

I sardi rinunciarono alla loro autonomia

ma non divennero parte di un unica più grande nazione.

Essi restarono diversi e riprese forza e vigore l’idea

che solo con l’affermarsi di una nazione sarda

consapevole e unita diventata Stato sovrano

il destino della Sardegna sarebbe realmente cambiato.

 1ª voce:

Lungo tutti i millenni qualcuno in Sardegna ha sognato

che essa diventasse una vera nazione – stato

ma molti di più hanno sopportato tanti domini senza troppi sussulti.

Hanno accettato senza grandi resistenze,

lingua, cultura e leggi di altre nazioni

hanno lasciato indebolire la natura e la forza dell’identità

che non è mai diventata piena coscienza nazionale.

La Sardegna nel suo lungo cammino

non è stata solo sfortunata

ma è stata incapace persino di scegliere un capo

per guidarla fuori dal deserto.

La storia non è stata buona con i sardi

e li ha messi troppe volte alla prova

gli ha fatto subire molte sofferenze

li ha costretti a portare un giogo pesante.

Ma questo è potuto accadere

perché essi non hanno fatto abbastanza per impedire

che molti di loro collaborassero con

i dominatori stranieri avidi e crudeli

che non avevano alcuna pietà per i vinti

non si sono opposti

a che la loro antica storia fosse prima offuscata

e poi quasi cancellata.

2ª voce:

È vero siamo noi stessi i primi responsabili.

Ed è altrettanto vero

che nessuno è stato capace di raccogliere la domanda del popolo

nessuno dei capi si è mosso vedendo i suoi fratelli

diventare sempre più oppressi e sfruttati

e per impedire che un manto di nebbia si stendesse su interi secoli

offuscando gran parte dei fattori costitutivi e del carattere identitario

e facendoci diventare quello che ora siamo:

un popolo che dice di voler tornare a essere libero e sovrano

ma non combatte, non si ribella, non si unisce

rimane passivo come sempre, o ancora peggio

cerca di imitare i nuovi padroni

costruendo nei vecchi paesi di tegole sbrecciate grandi villone,

e riempiendo le piazze con gruppi vestiti di costumi sgargianti

solo per rallegrare i loro giorni.

Nessuno vuole più le vecchie feste, vissute semplicemente

con brocche di vino, torrone tagliato a pezzi,

pesce grasso di stagno arrostito nelle graticole

tutto avvolto in foglie profumate di vento,

spari a salve per scacciare l’antica paura

canti a voce nuda

senza chitarre né fisarmoniche,

voci acute d’ira nella morra,

insulti gridati come sfida

vino e birra per tutti fino a quando

ognuno non ha pagato il suo giro,

gare di poesia improvvisata su palchi nella piazza,

a cantare la morte e la vita, il fuoco e l’acqua,

l’odio e l’amore, il ricco e il povero,

la guerra e la pace, la vendetta e il perdono.

 

3ª voce:

Nessuno vuole tornare al passato

e alle sue sofferenze.

Tutti hanno paura

di essere sé stessi perché temono di dover tornare

al duro lavoro dei campi,

a quello delle tessitrici senza giusta mercede,

dei conduttori di greggi costretti

a passare le notti al gelo sotto le stelle,

dei minatori morti sotto le frane

o con i polmoni mangiati dalla silicosi,

dei mietitori che hanno lavorato per un pugno di spighe,

o di essere costretti ad emigrare per avere un lavoro.

Le sagre in costume servono a dimenticare

aiutano a essere spensierati e contenti,

senza pensare di essere passati tutti al servizio

di avidi e voraci invasori.

1ª voce:

Del fuoco che un tempo

aveva riempito le menti dei loro antenati,

della fiamma dell’ira,

della voglia di vendetta e dell’insofferenza contro tutti i soprusi,

gli sfruttamenti, le oppressioni, le arroganti pretese,

gli abbandoni e le ripetute ingiustizie, ora

sopravvive solo qualche brace sotto la cenere.

Nessuno vuole correre rischi:

tutti vogliono essere felici e ricordano

solo i tempi della gloria ma non

gli antenati che vissero fianco a fianco

con la fame e con la paura

di vedere comparire il volto pallido della morte

in pieno giorno con il sole alto,

nelle notti di luna piena e in quelle di buio senza stelle,

di vederla scendere

dalle navi nere nel porto vestita di abiti sfarzosi

o sfilare dietro le bandiere delle feste

ed entrare in tutte le case,

anche in quelle con le porte sprangate,

o uscire dai fiumi,

dagli stagni e dalle pozzanghere,

sgusciare dai boschi dov’era rimasta a lungo nascosta

aspettando la sua ora per colpire.

Essi vogliono solo dimenticare.

2ª voce:

Nessuno dimentica che i sardi sono

stati a lungo

infelici, disgraziati e dolenti,

mai al sicuro

dalla guerra, dalla carestia e dalla peste,

mai privi di pena, di sofferenza e di lacrime

mai in pace

perché quando sembrava che il dolore

stesse per mettersi da parte

e la gioia cominciava a mostrare

il suo sorriso giovane carico di speranza,

un’ira senza motivo muoveva

gli avidi signori senz’anima e senza cuore

a lanciare i loro cani feroci nelle aie e nelle vigne

a caccia di servi senza vestiti,

senza spada e senza scarpe,

coperti di piaghe e costretti

a stare in ginocchio sotto il giogo crudele della miseria,

dello sfruttamento e della violenza.

Tutti temono ma solo pochi

si preoccupano che il duro lavoro

non si presenti in altre vesti

e con un più insidioso dominio.

3ª voce:

Abbiamo camminato a lungo nel buio

non per odio alla luce

ma per paura degli inganni in essa nascosti.

Abbiamo scelto di fuggire lontano dalle ridenti rive del mare,

lontano dalle nostre case e dalle nostre terre

per non dover vivere sottomessi

per non essere portati in terre straniere.

Abbiamo urlato e pianto

nella speranza che qualcuno di quelli

che dicevano di amare la luce

ci sentisse e ci soccorresse.

Ma nessuno si è voltato indietro verso di noi

nessuno è venuto in nostro soccorso;

nessuno lungo tutta la nostra storia

si è pentito di averci lasciato

rinchiusi nel buio di stanze anguste

a piangere sconsolati vedendo scomparire l’ultima speranza

di cambiare la nostra vita.

Perché sorprendersi allora se siamo diventati diffidenti

e sospettosi di tutti i cambiamenti,

non crediamo più a chi promette di cambiare

e non abbiamo nessun desiderio

di rivoltarci?

Primo coro:

Nella storia di oggi non c’è niente di nuovo.

Il cuore degli uomini non si è commosso nel passato

di fronte ai grandi disastri

e non si commuove oggi

ma rimane indifferente come le piante.

Ieri non ha sentito le voci di dolore e di pianto

che riempivano l’aria

e facevano tremare l’erba.

Ha ignorato le voci dei feriti,

i lamenti che venivano dalle case abbandonate,

dai focolari spenti,

non ha risposto al grido di dolore di quanti

avevano lasciato cadere la bandiera fuggendo

non per paura del nemico

ma perché gente della stessa terra,

li aveva offesi, sfruttati e derisi

peggio dei padroni stranieri

perché in ogni tempo sono stati privati di tutto

dai tradimenti della loro stessa gente,

costretti ad andare via dalle loro case senza voltarsi indietro.

Perché meravigliarsi se oggi i sardi sono stanchi e sconfortati

di sentire sempre e solo lamenti e promesse

ma mai urli di ribellione, gesti di rinuncia e di sacrificio

e coraggiose azioni di lotta contro il nuovo servaggio?

 

Secondo Coro:                                                                   

Per lunghi anni

la nostra storia

<<è  una notte che nasconde

e che non parla>> .

Una notte senza stelle e senza vento,

senza lampade per rompere le tenebre

che avvolgono le ombre degli antichi padri

ancora padroni della propria vita, della terra,

dei suoi frutti e degli armenti.

Ma qualcosa intorno a noi e dentro di noi

ci dice che l’identità non è morta

non è scomparsa nonostante la rinuncia a combattere,

e nonostante non essere riusciti a scaldare il cuore degli uomini

che camminavano stanchi nella dura terra senz’acqua,

pensando che il loro destino non sarebbe mai cambiato.

Primo coro:

Noi non siamo mai morti.

Abbiamo atteso in silenzio

come i mietitori che si riposano

sotto l’ombra ospitale di alberi frondosi

prima di riprendere la loro fatica;

o come il pastore che d’inverno aspetta

che cessi il freddo delle gelide notti

e torni la primavera.

Abbiamo atteso sperando

di rinascere a nuova vita

come le foglie che rispuntano sugli alberi

dopo l’assalto dei bruchi famelici o del fuoco.

Abbiamo atteso pazienti che il tempo cambiasse,

e arrivassero tempi più generosi

sopravvivendo alla furia delle spade,

alla fame e alle pestilenze

che hanno accompagnato sempre la nostra vita.

Abbiamo atteso nascosti nei boschi delle montagne

vivendo di ghiande, di mirto, di castagne, di nocciole,

di bacche di corbezzolo, di erbe e di radici come gli animali,

usando antiche essenze per curare le ferite

dei corpi bruciati dal fuoco o tormentati dalle piaghe

generate da un cibo insano;

rimanendo nascosti in caverne di indistruttibile granito,

vicino a fontane d’acqua chiara

e a torrenti che si gonfiano d’inverno

e si prosciugano nelle lunghe stagioni senza pioggia,

sperando che insieme alle anatre selvatiche

ricomparisse un giorno

il volto ridente della libertà riconquistata.

Abbiamo sopportato servitù e oppressioni

malattie e morte fiduciosi che un giorno

tutto questo sarebbe finito

e ci sarebbe stata una vita diversa e nuova anche per noi.

Secondo coro:

Non abbiamo aspettato invano.

Non siamo morti

e non permetteremo a nessuno

di cantare la nostra morte

né la morte del nostro mondo

che non è stato solo un cumulo di disgrazie e sofferenze

ma è stato anche speranza e amore per i fratelli

per i morti per i viventi,

e per quelli che devono ancora nascere.

 Terzo coro:

Nessuno potrà mai distruggere

tutto ciò che ha costruito il tempo,

niente scompare di ciò che è accaduto

neanche le cose più gravi

quelle accadute

a causa delle lotte infinite tra noi.

D’ora in poi

lavoreremo perché nessuno si disperda,

chiameremo ognuno per nome

per ricordare a tutti chi siamo,

chi siamo stati e chi ancora saremo.

La morte ha portato via tante cose

ma non la nostra coscienza di popolo

che ingloba anche la morte e in qualche misura

la comprende e la oltrepassa

e che per questo rimane più grande di lei,

continua a vivere nel tempo,

di generazione in generazione,

conservando tutto quel che è essenziale

perché tutti possano ancora riconoscersi tra loro.

Nessuno osi perciò cantare la morte

di un popolo, di una nazione,

di tutto ciò che noi pensiamo di essere stati

e tornare presto ancora a essere.

 Primo coro:

Per diventare popolo – nazione

occorre che da tanti io

nasca finalmente un “noi” :

un popolo

con una terra

una storia

una cultura

una lingua.

Nasca un noi che unisce,

un noi che risponde solo a se stesso,

che non riconosce altri padroni,

un noi che abbia piena coscienza di sé,

che non sia la somma

di tutti gli io che lo compongono

che vada oltre gli egoismi,

i risentimenti e l’invidia,

oltre le pretese

che hanno obbligato tutti a stare sul confine

che separa l’io dal noi,

sempre sul punto di diventare

quello che  tutti anche quelli che non ci credono

dicono di voler essere

tenendo la mano sul cuore

e le braccia spalancate per accogliere

tutti gli altri io, dichiarandosi

desiderosi di fare un noi

ed evocato con gli occhi

umidi di lacrime, ma senza mai agire,

sperando in un miracolo che spazzi via i dubbi, le diffidenze

e le resistenze che si sono rincorse nel tempo

portando a rimproverarsi l’un l’altro

l’egoismo, l’ambizione, le pretese,

la venalità, la dipendenza,

gli errori, i punti di vista sbagliati,

tutti i peccati che ogni anima

naturalmente compie

nascondendoli agli altri

oppure pensando cinicamente

che in fondo sono condivisi

da tutti quelli che dichiarano solennemente

di voler diventare un popolo,

cioè un solo noi.

 Una voce:

La nostra storia è uno specchio

che rimanda a chi guarda tutto ciò che è accaduto nel tempo:

le sofferenze e le speranze della gente comune,

l’arrogante indifferenza dei governanti

le debolezze e gli errori delle istituzioni.

La storia è lo specchio nel quale si riflette tutto

e non solo ciò che è nato dal caso e dalla necessità,

ma anche ciò che ha deciso la volontà degli uomini,

ciò che ha guidato i loro egoismi, le loro ambizioni

la loro viltà e la fuga.

Per dire “noi” prima tutti dovrebbero sapere

il come, il quando e il cosa è cambiato

dovrebbero capire

perché vogliono diventare un “noi”

non per caso o per necessità,

ma per una libera e consapevole decisione

dovrebbero spiegare a tutti

e prima di tutto a sé stessi

cosa intendono dire con questo “noi”,

chi sono coloro che costituiscono il “noi”

e ne esprimono volontà e desideri

sia nel tempo presente, sia nel futuro,

considerando quel che è stato

il loro agire nel passato.

Dovrebbero verificare se nel “noi” ci possono essere

le eredità dei vecchi dominatori,

dei signori feudali, delle corti militari,

dei padroni dei castelli,

della loro arroganza e dei loro privilegi

insieme alle eredità

della gente senza terra,

senza casa, senza alcun possesso

neppure quello delle proprie braccia.

Dovrebbero chiarire come il “noi” che nasce

possa comporre gli interessi di segno opposto dei padroni e dei servi,

gli uni rivolti a conservare gli altri a cambiare,

questi a cercare di non essere costretti a vivere

pensando solo alla pura, elementare sopravvivenza

e quelli a mantenere il controllo

e il dominio sulle cose e sugli uomini.

 Altra voce:

Non basta neppure consultare la storia

perché la storia scritta non dice tutto

e non tutti gli storici raccontano

nello stesso modo ciò che accadde nel tempo.

Ogni storico quasi sempre racconta quello che pensa

guardando le immagini del passato

riflesse nello specchio della sua mente

che accetta e ricostruisce il senso degli eventi

interpretandoli secondo le sue credenze,

scrivendo quello che serve a dimostrare ciò

che lui vorrebbe fosse veramente successo.

Se chi scrive appartiene ai“moderati”,

è portato a vedere la storia dalla parte del re,

dei principi, dei cavalieri e dei vescovi.

Se invece appartiene agli “indignati” , agli sfruttati,

ai caritatevoli, ai sostenitori della giustizia sociale,

vedrà soprattutto ciò che serve

a provare che quel tempo ignorava

l’equità e la carità, tollerava dominio e sopraffazione,

praticava sfruttamento, crudeltà e ingiustizia.

Chi crede che la storia sia soprattutto

una lotta tra classi sociali tenderà

a mettere in luce le ragioni della propria classe

e i torti dell’altra classe.

Chi pensa invece che la storia sia quella delle Istituzioni

metterà in luce il ruolo dei Re dei Parlamenti e degli eserciti.

Un cristiano

che crede nelle beatitudini del Vangelo,

e nella pari dignità di ogni uomo

e un marxista che crede nell’egemonia del proletariato

e nella forza delle strutture produttive

preferiranno non le ragioni dei potenti,

degli sfruttatori e dei ricchi

ma le ragioni dei deboli, degli sfruttati e dei poveri;

non le ragioni dei violenti e degli oppressori

ma quelle dei pacifici e degli oppressi.

Sia chi scrive sia chi legge

e pensa che la storia sia maestra di vita

e guida sicura dell’agire politico, cerca nella storia

ciò che più corrisponde al suo pensiero

e alle sue credenze e cerca la conferma

che le sue ragioni sono più giuste

delle ragioni degli altri

e le sue azioni più legittime

esattamente come noi che

crediamo nella legittimità della causa

della nazione sarda e ne cerchiamo

la conferma nelle narrazioni della storia

rifiutando quelle che non sono come vorremmo.

 Altra voce:

Da secoli in Sardegna

tutti parlano di Arborea

e di come sarebbe stato

se Mariano non fosse morto

nel momento cruciale

e se Eleonora,

se Eleonora non fosse stata

solo la reggente di suo figlio

e se suo figlio

non fosse stato il figlio

di Brancaleone.

Allora si

allora forse le cose

sarebbero potute andare diversamente.

Il mare e il tempo ascoltano

in silenzio.

Il vento agita le piante

e fa schiumoso il mare

non di rabbia

e neanche di dolore

ma di diffidenza e incredulità

sapendo che il caso, la necessità 

e non la volontà umana

hanno deciso il destino,

senza sentire nessuno.

Un acuto e sottile pensiero cerca di penetrare

nel profondo abisso dei cuori

dove ognuno nasconde i segreti più segreti

tutti diversi e tutti uguali.

Il vento tace

non c’è neppure un filo d’aria.

Raggi di luna inteneriti

dal luccichio delle lacrime

accarezzano l’onda

e le foglie tenere delle piante

che si ritirano pudiche

e si nascondono nell’ombra scesa in loro aiuto

in forma di nuvola.

Quando cala il buio

qualcuno,

una quinta colonna forse

si prepara a tradire

ricordando che i sacerdoti

hanno estratto il miele dai favi

lasciando a lui la cera per le candele

chiamando gli usignoli a cantare

come hanno fatto in tutti i tempi

quando li hanno visti piangere

per cercare di consolarli

e fargli dimenticare le disgrazie

convincendoli che era meglio

scegliere la mansuetudine.

Non era così Maone

il grande capo guerriero

uscito maledicendo da Caralis

all’arrivo dei fenici.

Il suo cuore ardeva di furore vedendo

che a notte fonda

le anime dei suoi si sentivano smarrite e perdute

per poi ricominciare all’alba

a invocarlo cantando:

Maone, Maone oh Maone

portaci lontano dal mare

non abbandonarci nelle mani

dei nostri nemici.

Maone ascolta e tace.

Il vento invece diventa tenero

con le foglie

che cominciano a cantare dicendo

andate, andate senza temere

non aspettate che il sole

sveli i segreti della foresta sul monte.

Andate e costruite pietra su pietra

le nuove torri e innalzatele al cielo

metteteci dentro i vostri sogni

mescolateli con quelli

dei guerrieri armati di spada

e scudi e alti elmi pinnati.

Non temete il buio

ma solo la vostra coscienza

quando protesta e si lamenta

perché gli manca molto

il mare, gli mancano

i fenicotteri rosa dello stagno

e anche il sale e i polpi

dalle braccia tenere

da mangiare crudi la sera

prima di andare a dormire

e sognare un sole caldo

sui grappoli di uva matura,

brillante sulle foglie brune

sulle cime d’argento degli ulivi,

sopra il fieno giallo dei campi

e sulle ginocchia delle vergini

ricoperte di ghirlande di papaveri scarlatti.

Nel cielo ormai vuoto di stelle

anche il sogno scompare.

Faville di oro fulvo

e color zafferano essiccato

fuggono dal cuore invaso dalle lacrime

per i pensieri di tradimento e di morte

comparsi negli incubi dell’alba.

Forse è meglio lasciare le cose

come stanno

e pazienza se non vanno bene per tutti.

La cosa che più conta è

che ci sia comprensione per gli anziani

e non importa

se per questo c’è molta insofferenza tra i giovani

che non capiscono perché i padri

vogliano sempre il potere

e non pensano

che i figli siano infelici

e scontenti perché

gli mancano i sogni.

Dall’alto della torre del vecchio nuraghe

uno parla dicendo:

lasciate che il tempo si disponga al nuovo;

lasciate che il vento

porti via le nuvole più scure

perché alle altre più leggere

penserete voi quando sarà il momento.

Ora allontanatevi dai pozzi sacri,

non destate alcun sospetto

in chi teme i sacrilegi, le magie e i malefici

e ha paura della vita senza padroni.

Il freddo acuto del maestrale

penetra nelle camicie degli anziani.

I loro cigli si annuvolano severi

ma tutti fanno finta di niente

e continuano a guardare il mare

e il luccichio dell’acqua in lontananza.

Nessuno ha voglia di tuffarsi

nel mare buio

del tempo futuro.

Sono tutti stanchi

vogliono stare così

« come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata ».

 

Capitolo 3

1ª voce:

Comunque la si guardi

la storia resta per molte parti

avvolta nel mistero.

Ognuno dovrà penetrare nelle sue stanze

sperando di trovarvi le ragioni

che giustificano il suo agire

sapendo che il passato

non è mai interamente conoscibile,

ma solo in parte, solo nella parte

che corrisponde a ciò che uno cerca.

In questo senso passato e futuro si assomigliano:

inconciliabili nella loro interezza,

lasciano prevedere il futuro

quando esso è solo un normale, naturale sviluppo del presente

che a sua volta è, in qualche modo

la continuazione e lo sviluppo del passato.

Pensare di costruire il futuro basandosi sulle esperienze della storia

vuol dire che esso sarà molto simile a queste.

Perciò tutti quelli ai quali non piaceva il passato

e puntavano a cambiare il futuro

secondo un orientamento diverso dalle esperienze della storia

hanno adottato programmi fondati sulla profezia.

Quelli invece ai quali piacevano

gli elementi del passato

hanno orientato il loro agire basandosi sulla prognosi,

su valutazioni ponderate e fornite di prove bilanciate

e misurate sugli errori e sui successi del passato.

 2ª voce:

Oggi in Sardegna tutti quelli

che vogliono cambiare il senso della storia

dovranno ricorrere alla profezia.

Chi non vuole cambiare sceglierà invece

un programma fondato sulla prognosi,

proverà a costruire un futuro sulla base delle esperienze,

e orientare ciò che deve accadere

secondo modi e forme vicine a fatti già accaduti.

Sceglie invece la profezia

chi guarda al passato per superarlo e modificarlo,

per costruire un noi che comprenda tutti,

realizzando un programma di grandi cambiamenti

che non siano solo la ripetizione aggiornata

dei programmi già sperimentati.

La Sardegna ha conosciuto quasi sempre

progetti fondati sulle esperienze del passato

nell’intento di costruire un futuro

come prosecuzione del già nato e sperimentato

e raramente progetti fondati sulla profezia.

Si può dire che anche per questa ragione

la questione dell’identità è rimasta parzialmente irrisolta,

perché solo una visione profetica

basata sulla costruzione di un futuro slegato dal passato

cioè una visione totalmente altra poteva sperare

di costruire quel “noi” indipendente e sovrano

che inutilmente i sardi inseguono dalle origini della storia.

 3ª voce:

La questione è più complessa

e forse sbagliamo a continuare a ragionare

come se tutto dipendesse dalla politica

come se la “condizione umana”, le sorti dell’uomo,

la sua felicità, la sua insoddisfazione,

la sua incompletezza, il suo continuo vagare come Teseo

alla ricerca del vello d’oro,

i suoi desideri e i suoi dubbi

tutto ciò che appartiene alla sua vita

debba e possa essere regolato dalle leggi,

faccia parte dei diritti e dei doveri rientranti nella sfera politica.

Ma così non è,

così non è mai stato,

né prima né dopo l’avvento della sovranità popolare.

Da quando la cultura democratica

ha riconosciuto che tutte le persone umane

hanno gli stessi diritti fondamentali

sono nati molti movimenti politici

che hanno promesso di far scomparire dal mondo il dolore, l’infelicità,

oltrepassando i fini tradizionali della politica

suscitando in ogni singola persona,

grandi aspettative violando i principi

che devono ispirare l’azione politica

sia nella scelta dei fini da raggiungere

sia nei mezzi da utilizzare per realizzarli,

ma nonostante questo

non hanno mai raggiunto il loro intento.

 4ª voce:

Quando si parla di crisi della politica

bisogna anche considerare

che i nuovi fini nel terzo millennio

non sono più gli stessi del 1789 e neppure del 1917.

Nessuno propone infatti di realizzare il Paradiso in terra

attraverso l’azione dello Stato. Se mai molti propongono

di consentire ad ogni individuo di realizzare i suoi sogni

limitando la sfera pubblica

e ampliando quella del mercato

organizzando l’espressione della volontà popolare

secondo regole variabili,

per avere volta a volta le maggioranze

più vicine all’opinione dominante

se poi è sempre quello dei più forti.

In questo nuovo contesto va collocato

anche il problema dell’identità della nazione sarda

di come farla riconoscere, di come tutelarla

di come farla diventare parte costitutiva della democrazia,

di come includerla nella sfera generale

la stessa cui appartengono i principi fondamentali

i diritti e i doveri di ogni cittadino,

il valore supremo della persona umana,

della giustizia e dell’eguaglianza, nonché tutti

i principi della democrazia politica

e quelli della libertà religiosa.

 5ª voce:

Dipende dalla volontà dei più forti

oltre al riconoscimento dell’identità

come fattore costitutivo della democrazia

anche di avere le risorse necessarie alla sua attuazione reale.

L’opinione pubblica delle aree più forti non accetterà

di supportare con le sue risorse gli oneri derivanti dai processi identitari

dal momento che si considerano anch’esse nazioni

e che ognuno deve pensare a sé stesso

e in politica

valgono le stesse leggi della fisica.

La massa più grande attrae la massa più piccola,

tutte le masse più piccole nella sua orbita

dalla quale nessuna può sfuggire senza danni per tutte.

È la massa più grande

che determina il funzionamento del sistema

decide l’orizzonte generale di senso e obbliga

i satelliti a gravitare intorno al suo corpo

e a seguire le stesse leggi.

Dalla stella più grande provengono l’energia, la luce.

La direzione del moto, i tempi del suo percorso

e tutte le altre funzioni

sono condizionati e regolati dalla forza gravitazionale.

Anche nella vita istituzionale è naturale che il corpo più grande

influenzi la vita, i costumi, le espressioni linguistiche le abitudini,

la cultura e la convivenza dei corpi più piccoli

i quali pur in forme e modalità tra loro diverse

devono seguire le leggi fondamentali del corpo maggiore.

Tutti hanno una sfera propria

distinta e diversa da quella di tutti gli altri

ma nessuno può sfuggire all’influenza del corpo maggiore.

Uscendo dalla metafora ciò vuol dire che la nazione minore

non può sfuggire all’influenza della nazione maggiore.

La nazione minore può cambiare stella,

può sceglierne una nuova con luce ed energia diverse

e principi generali più vicini

alle esigenze degli abitanti del satellite.

Per evitare danni e non correre troppi rischi

la cosa migliore per il satellite

sarebbe poter scegliere tra diverse stelle

e tra diversi sistemi secondo la convenienza.

Ma questo se è possibile nella vita delle persone è molto più difficile

nei sistemi istituzionali.

E se l’idea di abbandonare la stella dei grandi principi ideali

si potesse realizzare, questo non sarebbe senza conseguenze.

Uguaglianza, libertà, giustizia potrebbero entrare in crisi

e la democrazia liberale maggioritaria potrebbe diventare dispotismo democratico.

Saremmo davanti a un evento fortemente reazionario.

 4ª voce:

Libertà, uguaglianza, giustizia sono irrinunciabili.

Ma i principi, le idee e le istituzioni del XIX e del XX secolo

sono diventate inadeguate, vanno aggiornate

e se necessario profondamente riformate, messe in grado

di affrontare e risolvere i problemi di oggi,

consentire alla politica di rispondere alle domande

che il potere della tecnica ha creato in tutti i campi della vita,

dell’economia, della religione, della cultura, e persino dei sentimenti.

Per potersi efficacemente confrontare

con le nuove aspirazioni materiali e le nuove esigenze

occorre modificare i contenuti della sfera politica

rispetto a quelli della prima modernità.

Ma questo non è senza rischi per il destino dell’identità.

Diversamente da ciò che abbiamo sempre pensato

l’identità e la nazione così come l’abbiamo intesa finora

rischiano di essere un residuo del vecchio mondo,

e non una istituzione politica del nuovo.

Questo perché le frontiere dell’agire umano non sono più le stesse.

Se non si tenesse nel giusto conto

che il campo della politica è cambiato,

è diventato grande quanto il mondo

se non si partisse dall’idea

che anche le specificità e le identità locali

hanno cambiato ruolo e funzione,

se non si capisce che esse non devono più rispondere alle domande

che nascono dalla nostalgia per un passato

che non può tornare se non come folclore

e che se tornasse in altra forma forse sarebbe poco gradito –

non solo dai gruppi dominanti, ma anche dalle nuove generazioni-

non si uscirebbe dalla crisi e l’identità rischierebbe

di non diventare mai un soggetto politico sovrano.

 5ª voce:

A tutto questo io aggiungerei

che il potere politico ha perso la sacralità religiosa e quella laica,

non ha più legittimazione né sacra né profana,

non è né assoluto né democratico

non è più Re ma neppure popolo sovrano.

Nessuno sa più dire cosa veramente esso sia diventato,

qual è la sua sfera d’azione

che comunque si è molto ridotta

perché sono sempre meno quelli che riconoscono

alla politica il potere di ingerirsi nella sfera dei diritti della persona.

Anche per questa ragione

molti sostengono che per risolvere la crisi della politica

occorra uscire al più presto dalla gabbia di ferro del passato

anche rischiando di vedere trasformarsi radicalmente

alcuni fondamentali elementi della democrazia liberale,

tra i quali la rappresentanza, la cittadinanza

l’estensione dei diritti, dei doveri, degli obblighi

dei modi di essere dei principi di libertà e giustizia

e per quanto ci riguarda dell’identità nazionale.

Subito dopo il trionfo della democrazia e l’affermarsi

dei diritti umani fondamentali,

le questioni nazionali identitarie furono incluse

nella stessa sfera dei diritti individuali e collettivi,

allo stesso livello della sovranità popolare,

dell’eguaglianza e della giustizia sociale.

Ma ora tutto questo è rimesso in discussione

e per dare una soluzione positiva

alla questiona della nostra specificità identitaria

bisogna cercare il suo fondamento non nel passato

non in programmi fondati sulla prognosi

ma in una profezia di largo respiro

che non abbia paura dell’ignoto.

 4ª voce:

Andare dietro il senso del tempo è certamente molto rischioso;

ma sarebbe ancora più insensato e rischioso non tener conto

di tutto ciò che sta avvenendo nel mondo

rimanendo fermi a contemplare il vecchio amato e/o odiato cortile di casa,

che comunque sta cambiando anch’esso ogni giorno

e con lo stesso segno del tempo post – moderno .

È dentro il nuovo orizzonte politico

condizionato dai nuovi poteri extranazionali

e alimentato dalla smisurata ambizione della tecnica

che bisogna collocare anche la questione sarda,

le speranze, le attese e le paure, del’uomo sardo, di tutti i sardi,

sia di quelli che preferiscono conservare l’attuale sistema

sia di quelli che vogliono cambiarlo.

Gli uni e gli altri dicono di voler diventare più liberi,

rispettando i principi democratici e i valori umani,

ma poi si dividono tra chi è convinto

che i troppo frettolosi e improvvisi cambiamenti

causino danni

e portino disgrazie e ingiustizie,

creano illusorie e pericolose aspettative

e perciò punta a costruire

il futuro sull’esperienza del passato

e chi invece pur non ignorando i pericoli,

sostiene con molti buoni argomenti che solo una profezia

solo soluzioni totalmente nuove, non fondate sul passato,

coerenti con il nuovo scenario del mondo

possono farci uscire  dalla crisi

e fermare il declino.

 5ª voce:

La scelta non è facile perché la prosecuzione

sulla via del passato ha dimostrato

tutti i suoi limiti e la profezia,

anche ammettendo l’idea

che il terzo millennio non sarà uguale al secondo

e che il XXI secolo non sarà come il XVIII, il XIX e il XX,

da sola non basta per decidere come sarà il XXI secolo.

E c’è chi dice che la storia

ha conosciuto molte profezie dannose

per l’uomo e per interi popoli.

Gli uomini hanno creduto nel Paradiso in terra

provando a raddrizzare il legno storto dell’umanità,

con sistemi quasi swmpre oppressivi,

oppure con nuove nazioni –stato

o cercando di uscire dal piccolo spazio avuto in dono

per dominare l’immensità dell’universo;

tentando di scoprire gli ultimi segreti del cosmo

della natura e della vita per andare oltre la morte.

Ma nonostante tutto, nonostante i totalitarismi, i nazionalismi e la tecnica,

l’uomo non è ancora riuscito a trovare la strada per la felicità.

L’uomo non è riuscito ancora a cambiare il suo cuore

non è riuscito a scoprire il modo per essere soddisfatto.

La politica e la tecnica hanno cambiato

gli aspetti materiali della condizione umana,

ma il cuore dell’uomo e la sua mente

continuano a desiderare senza fine e a pensare

che si possa ottenere ciò che non si è ancora avuto

colmando le carenze del sapere e superando l’improprietà dell’agire

e ampliando la sfera della politica.

Ma contrariamente a tutte le speranze

il progresso tecnico ha reso la politica sempre più debole

sia nel governo dell’economia che in quello dei rapporti sociali.

 4ª voce:

La prognosi da un lato e la profezia dall’altro

prese singolarmente

non risolvono il problema.

La prima presenta molti limiti e la seconda molti rischi.

La cosa più giusta sarebbe unire l’una a l’altra

riuscire a oltrepassare l’esperienza senza abbandonarsi totalmente alle utopie,

ma anche senza condannarle in astratto a priori

rifiutandole solo per il fatto che non possono garantire

al cento per cento quello che promettono.

Senza la valorizzazione dell’esperienza si gioca alla cieca,

senza la profezia si resta prigionieri del passato.

Ogni ragionamento e ogni valutazione

sullo stato presente portano però a concludere che le scelte della politica,

anche quelle che riguardano la questione identitaria

non possono essere più quelle di prima né nella forma

né nella sostanza.

 5ª voce:

Prima che finisse il XX secolo

dopo aver sconfitto i regimi antagonisti, fascisti e comunisti,

la democrazia liberale è entrata in crisi

con un declino apparentemente senza ritorno.

La sovranità popolare sta rischiando

di diventare il fantasma di ciò che era all’origine.

Lo Stato nazionale sta consumando i suoi giorni

tra processi di indebolimento e brevi ritorni di fiamma;

la politica dopo la rovina

della vecchia fortezza dell’universalismo ideologico,

non riesce a rispondere alle esigenze crescenti del pluralismo

e alle pretese sempre più pressanti dell’individualismo.

Tutto quello che era solido sta diventando volatile o liquido,

il vecchio universo di senso è moribondo

e il nuovo è ancora informe.

I suoi principi, le sue leggi e i suoi confini

sono ancora troppo vaghi e incerti

e ciò rende difficile elaborare idee,

e progetti in linea con le nuove esigenze individuali e collettive

e individuare soluzioni capaci di dare risposte adeguate

alle domande di una realtà sempre in movimento.

 4ª voce:

Molti hanno provato a ricostruire le stanze delle vecchie case,

ma al posto di una nuova casa sono nati disordinati labirinti,

dentro i quali persone e istituzioni si muovono smarrite e dolenti

sentendosi prigioniere in un edificio che rischia di crollare

per il venir meno delle vecchie fondamenta.

Della sovranità popolare innanzi tutto e dell’autogoverno;

ma anche dell’uguaglianza, della libertà, della giustizia distributiva

del diritto al lavoro, alla salute e  all’istruzione

in una parola di tutto ciò che era stato pensato dalla democrazia moderna

per garantire la piena affermazione della persona umana.

Tutto è rimesso in discussione

e al posto delle vecchie certezze sta crescendo un vuoto sempre più grande

affidato interamente alle cure non sempre amorevoli del mercato.

Nessuno è ancora riuscito a scoprire il modo e il tempo più propizi,

le forme istituzionali e le azioni per far uscire la politica da questa crisi

per liberarla dalla costrizione di essere il passivo strumento

di un mercato che non ha cuore né anima

che non si cura delle sofferenze e delle ingiustizie che opprimono gli uomini

che quando non sono nella veste di consumatori,

contano meno degli alberi,

delle fontane, dell’erba, dei fiori, dell’aria e del mare.

 5ª voce:

Questo è il problema più importante ma non il solo.

I grandi principi democratici rischiano di essere messi in crisi

non solo dal mercato, ma anche da chi sostiene che essi

si declinino tutti nello stesso tempo e in un solo modo

e non in tanti tempi e molti modi, mentre invece i principi

di uguaglianza, giustizia e libertà, identità e autogoverno

sviluppo equo e solidale possono essere declinati

secondo visioni diverse

riconoscendo la legittimità di tutte le espressioni.

Questo soprattutto quando si deve decidere su questioni fondamentali

che coinvolgono il pluralismo religioso, il multiculturalismo,

o l’identità delle diverse nazionalità che compongono una compagine statale.

In questo caso il principio di maggioranza deve lasciare il campo

a sistemi più idonei già sperimentati a livello ONU

e sostituito con forme di accordi e patti tra varie minoranze

ognuna delle quali riconosce i diritti delle altre,

attraverso una sintesi della volontà di tutte le parti

che trasformano il principio maggioritario

della democrazia liberale rappresentativa,

fondato sulle sovranità individuali,

espresse sulla base di ideologie o di interessi di classe,

in un principio maggioritario che oltre alle sovranità individuali

riconosce i valori identitari

e gli interessi territoriali di ciascuna comunità.

Si tratta in sostanza di riconoscere l’esigenza

di una sovranità più articolata e complessa,

capace di assicurare a tutte le identità nazionali,

a tutti i popoli e a tutte le fedi religiose uguale dignità,

e il diritto di scegliere legittimamente le priorità

nel rispetto dei diritti fondamentali,

delle politiche per la famiglia, il lavoro, l’economia, il paesaggio,

la cultura, la lingua e l’istruzione.

 4ª voce:

La volontà di una maggioranza,

fondata esclusivamente sul valore del voto individuale,

non può decidere quali politiche adottare

nelle materie che attengono all’identità e ancor meno

su nessun dei punti che mettono in discussione

l’esistenza, il ruolo e la sopravvivenza

delle diversità e delle specificità

etniche, linguistiche o religiose.

Le minoranze devono essere rispettate e tutelate

senza pretendere né imporre comportamenti

contrari al loro patrimonio culturale

alla loro storia, all’integrità ambientale, alle diversità

derivanti da una lunga ininterrotta selezione naturale

Qualsiasi cosa imposta

costituirebbe una grave violazione

delle pari dignità di ogni comunità

sarebbe una forma di oppressione

che deve essere respinta.

L’identità va difesa

non solo di fronte ai nuovi sovrani

che dominano il mondo attraverso il controllo del mercato

ma anche da tutti i tentativi di riforma fondati su presupposti errati,

e dalle decisioni assunte in contrasto

con i diritti derivanti dall’essere nazione.

Il nuovo orizzonte generale di senso

che sta avanzando nel mondo

esige la tutela e il rispetto di tutte le minoranze per sé stesse

e per facilitare la convivenza umana senza ricorrere

a strumenti e regole imposte con la forza.

 5ª voce:

Il passaggio a una nuova forma

più vasta di governance è resa più urgente

da quando l’ambito delle competenze dello Stato nazionale

a cominciato a ridursi sensibilmente

rendendo una diversa dislocazione delle materie residue tra i due livelli

assolutamente inadeguata per soddisfare le esigenze e le ambizioni

delle nazionalità autonome e dello Stato.

Molte materie che prima ricadevano sotto la sovranità statale

oggi appartengono a livelli super statali o extra statali.

Molte decisioni un tempo riservate alle istituzioni democratiche

oggi sono lasciate al mercato e a soggetti privati che decidono

senza la mediazione dei partiti oppure corrompendoli

quando serve per raggiungere certi fini e poi

denunciando i politici alla pubblica opinione

come persone che pensano solo ai loro interessi,

solo ad arricchirsi.

 4ª voce:

I padroni del mercato

e dell’opinione pubblica

utilizzano l’argomento corruzione

per svuotare ulteriormente la sovranità popolare,

e delegittimare i partiti e il sistema democratico nel suo complesso.

Il processo in corso tende ad assoggettare i politici

al potere economico rendendo i cittadini

sempre meno sovrani

e sempre più soggetti passivi al servizio

dei padroni del mercato

cioè delle strutture finanziarie internazionali,

cresciute fuori dal vecchio spazio della sovranità nazionale.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

I diritti fondamentali sono sempre meno tutelati,

e gli interessi delle comunità e le identità minoritarie,

subordinati alle ragioni del profitto e cioè del denaro.

È difficile che un nuovo soggetto politico – istituzionale – identitario

possa riuscire a capovolgere la tendenza dominante

e ottenere che insieme alla sua storia

venga rispettato tutto ciò che costituisce il patrimonio materiale e immateriale

di un popolo che vuole essere nazione.

 5ª voce:

Da ciò che abbiamo detto emerge chiaramente

che la crisi che stiamo vivendo è duplice:

comprende sia l’orizzonte di senso della democrazia

sia le forme dell’agire politico. Ma nonostante tutto

molti continuano a pensare che le difficoltà

si possano superare nei vecchi modi,

con vecchi soggetti collettivi e con le vecchie istituzioni,

nonostante sia ormai evidente che occorre cambiare profondamente

gli obbiettivi, gli strumenti, i modi dell’agire politico,

i soggetti collettivi e le istituzioni

senza limitarsi a criticare e protestare e soprattutto

evitando di abbandonare il campo

lasciando la politica a un destino infausto.

Dalla crisi però non si può uscire solo rivalutando

i pilastri dell’identità e della nazione

e valorizzando le sovranità e le autonomie locali.

Per essere sovrani non è sufficiente

il riconoscimento dell’identità nazionale.

L’economia, la cultura, la tecnica

la competizione e la convivenza tra le varie parti territoriali e sociali,

le funzioni e i ruoli dei soggetti pubblici e privati

non sono più regolati dagli Stati nazionali, dalle nazioni-stato

ma da forze e da poteri più ampi tendenti a inglobare il mondo.

La sovranità di un soggetto nazionale

può trasformarsi in realtà solo definendo

i nuovi confini  delle istituzioni, della politica e della vita democratica

dando più spazio a tutti i soggetti naturali

restituendo ai cittadini l’esercizio effettivo del potere sovrano

in condizioni di uguaglianza e di parità,

ridefinendo regole e istituzioni senza oasi di privilegi

e soprattutto valorizzando i soggetti minori

facendoli partecipare al governo della globalizzazione

attraverso nuove istituzioni e nuove forme

di espressione politica.

 4ª voce:

Anch’io penso che questa sia

la nuova frontiera della politica.

Ed è di questo che si deve occupare

anche chi ha a cuore la sorte del popolo sardo

unendo al progetto rivolto

a rafforzare e ampliare la sfera dell’autogoverno locale

l’idea di utilizzare la più larga sovranità

per portare avanti non una politica localistica ma

una politica di respiro più vasto, aperto a tutto il mondo.

 Il problema oggi infatti non è tanto quello di stabilire

se esista ancora una identità sarda,

e neppure quello di accertare scrupolosamente

se essa possa essere considerata identità nazionale;

ma consiste piuttosto nel riuscire a trovare il modo

per far si che le istituzioni regionali e la politica regionale

siano messe in grado di assicurare

una condizione di cittadinanza non inferiore a quella goduta e praticata

dai cittadini delle altre zone del paese

e allo stesso tempo messe in condizione di partecipare alla governance più vasta

dalla quale nella società post – moderna dipenderà sempre di più

non solo il rispetto dei diritti ma persino la sopravvivenza

delle comunità minori.

5ª voce:

Tutto ciò impone di cambiare le regole

fondate sul principio di maggioranza

che non garantisce la solidarietà

tra le parti più ricche e le parti più deboli del paese

e non assicura a tutti una uguale condizione di cittadinanza.

Il principio di maggioranza portato alle estreme conclusioni

rischia di uccidere la democrazia,

rischia di trasformarla in dispotismo della maggioranza

che poi è il dispotismo del mercato.

Se non si vuole che il sistema involva gravemente

ripiegandosi sempre più su sé stesso,

o si perda dietro la voce delle sirene che cantano

le fortune della libera competizione di mercato,

occorrerà mettere chiari limiti al nuovo principe,

che in forme che mutano di continuo

sta esercitando la sovranità al posto del vecchio popolo sovrano.

Per questo occorre valorizzare la piccola dimensione

con forme di sovranità inedite

espresse in diversi livelli nelle forme necessarie

per rendere possibile una vera democrazia governante

che salvi insieme alle singole identità locali

la democrazia rappresentativa, la sovranità popolare

e persino l’unità della Repubblica.

 Capitolo 4

4ª voce:

L’io sardo che come tutti gli io dell’occidente

si era illuso di essere immortale,

per aver raggiunto la luna e le stelle,

aver penetrato i segreti del cosmo

e delle particelle elementari

aver scoperto i codici genetici di ogni uomo,

ed essere riuscito a violare

l’intimo più intimo di ciascuno,

ora sente che il destino gli sta sfuggendo

e una grande insicurezza carica di paura

rischia di sommergerlo.

Non sa più se ha vinto o se ha perso,

se quel che possiede sia al sicuro per sempre

o destinato presto a perire nel possente flusso del tempo

che trasforma tutto

distrugge antiche credenze,

crea bisogni, oggetti e desideri sempre nuovi,

riduce le differenze individuali e di specie,

ma non tocca la natura umana più profonda

che rimane la stessa nella lunga durata,

in quella dimensione senza confini mai conclusa

dove gli eventi individuali e collettivi appaiono

un lieve battito di ciglia, un leggero corrugarsi della fronte,

un tic nervoso, una dolorosa fitta del cuore,

un respiro irregolare e che presto scompaiono

senza fermare il tempo e senza cambiare la sua direzione.

 5ª voce:

Per cambiare il corso della storia

per non subire passivamente tutto ciò che accade

non basta criticare il proprio tempo

e auspicarne la fine.

Occorre impegnarsi senza riserve,

lottare senza tregua,

senza scoraggiarsi vedendo che i “giusti”

sono sempre meno

e che solo pochi

prendono posizione, lottano anche per gli altri

non vivono solo per se stessi

non si preoccupano solo di accumulare, prendere

ostentare e consumare

sempre più avidamente i prodotti

della natura e della tecnica.

 4ª voce:

Nel mondo che diventa sempre più correlato

c’è bisogno di giusti, di testimoni, di profeti,

di uomini capaci di trasmettere entusiasmo

e di spingere gli altri a cercare nuove mete e nuovi orizzonti;

c’è bisogno di maestri che aiutino ad amare la verità

aiutino a conoscere che cosa è veramente giusto,

a distinguere il buono e il bello,

a rifiutare il dominio della vanità e dell’apparire

sempre e dovunque eternamente giovani e vincenti;

c’è bisogno di sapienti che insegnino a vivere con sobrietà

a combattere l’idea che il meglio consista

nel possedere sempre più beni,

dimenticare l’età e ringiovanire usando

adeguati stimolanti e/o cambiando la propria immagine;

c’è bisogno di persone che insegnino

a sostituire l’invidia con la passione per la giustizia,

a cambiare il mondo, lottando per gli altri

a promuovere una scienza al servizio di tutti,

a mostrare pietà per i vinti

sostegno per le vittime delle catastrofi,

delle guerre, delle malattie;

c’è bisogno di gente che abbia il coraggio di rischiare per gli altri

e dimostrare che solo un io giusto,

un io morale, un io plurimo piuttosto che un io cinico,

un io assoluto come quello oggi prevalente,

può affrontare il nuovo tempo.

 5ª voce:

Occorre un io generoso

che non si nasconda di fronte alle domande degli altri,

che non pensi che curando solo sé stesso

può evitare scontentezza, depressione, sofferenza, disperazione

può sfuggire a tutte le altre cose che generano infelicità

e insopportabili sensi di colpa.

Questo io non può essere quello che alcuni chiamano

io minimo, e altri io assoluto

per dire di un io

che non lotta per cancellare le ingiustizie, e per promuovere l’eguaglianza

che non si cura degli altri e rimane solo proprio quando

servirebbe la compagnia di una voce amica

per rompere la solitudine e difendersi dalle false sirene

che cantano e promettono la fine di tutti i mali

che hanno segnato e ancora segnano

il tormentato cammino della storia.

Occorre un io che non si affidi al mercato

non affronti da solo con folle superbia l’inquieto

e tempestoso mare aperto diventato sempre più infido,

non si chiuda in sé stesso dimenticando tutti gli altri io,

non affronti in solitudine il labirinto incantato

del tempo chiamato moderno,

ma si disponga a diventare un “noi solidale” ,

un popolo, una nazione consapevole

che un destino diverso e migliore

può realizzarsi solo se voluto, costruito e condiviso

da tutti gli io che compongono un “noi” consapevole

sia del senso del passato

come del senso del futuro.

 4ª voce:

Undici, ventidue, quarantaquattro ottantotto, centonovantasei.

Potrei continuare all’infinito

sicuro di non sbagliare mai l’ordine della serie.

Questo non si può fare con la storia del passato

non si ottiene la conoscenza di ciò che è successo

soltanto sommando gli eventi partendo da quelli

più lontani fino a quelli del secolo appena trascorso

per arrivare a fatti di avantieri e ieri.

Ci sono cose che non si possono sommare perché rimangono nascoste

o perché vengono rimosse per non sentirsi in colpa.

Non conosceremmo mai le vere ragioni

che hanno causato i morti, i feriti, i prigionieri,

né i sentimenti

degli internati nei campi di sterminio,

dei caduti per una Patria sconosciuta

delle vittime inermi dei bombardamenti;

delle spie al servizio del nemico,

degli imboscati nelle retrovie,

degli arricchiti del mercato nero.

Non scopriremmo neppure le ragioni che hanno spinto

a cambiare le vecchie abitudini,

né conosceremo le ragioni che hanno cancellato

le sicurezze, le speranze, generato i dubbi sul domani,

sfiducia nei vicini, l’assenza di dolore per le disgrazie degli amici,

invidiosa attesa per la vendemmia e per il raccolto degli altri,

assenza di dolore per la morte di un amico.

Non potremmo mettere insieme i casi

della vita di un tempo dura e crudele;

vissuta su un sentiero stretto da fare a piedi,

o a cavallo di un asino, su un carro a buoi lento, e scomodo,

paragonandolo con la vita di oggi vissuta

con egoismo sleale,

percorsa in autostrada ma

sempre da soli

cercando di dimenticare tutto ciò che può turbare il tempo.

È difficile costruire un nuovo senso della vita futura

sommando ciò che propone la nostalgia snervata

dei laudatori del tempo antico,

con tutto ciò che ha segnato per sempre la nostra anima,

e ci ha fatto diventare infelici e scontenti.

È difficile sommare le

sofferenze, le attese e le delusioni

della nostra interminabile storia di vinti

con i soprusi dei vincitori

e ottenere l’indicazione di ciò che serve

a costruire un futuro diverso

un futuro sovrano, liberato dal dominio oppressivo dei più forti.

5ª voce:

Non è la somma che serve conoscere per giudicare

l’esattezza del ricordo e la ragione degli eventi

e per decidere le scelte del futuro.

Del nostro passato non possiamo più cancellare nulla

e noi siamo tutto ciò che è stato:

siamo i morti, i mutilati, i dispersi;

i feriti, le distruzioni,

gli incendi, i saccheggi;

siamo le vittime

ma anche quelli che hanno acclamato i vincitori,

e sopportato senza rivoltarsi

le condizioni umilianti di un lungo servaggio;

siamo quelli che abbiamo ucciso senza motivo

e quelli che sono morti in una guerra che non volevano

siamo quelli incatenati ai remi delle navi

o schiavi delle miniere e quelli che abbiamo oppresso

come servi della gleba;

siamo quelli che a Nora, a Tharros, a Neapoli o nel Gennargentu

nel nord, nel centro e nel sud dell’Isola

hanno versato il loro sangue combattendo

per raccogliere una sfida

e quelli che combatterono a difesa dei loro oppressori

nelle Fiandre, a Messina, a Barcellona, a Monzon;

siamo i morti delle rivolte contro i feudatari

e quelli che morirono per una patria non loro

a Solferino e S. Martino;

siamo i fanti della “Sassari”

eroi del Carso e della trincea delle Frasche

delle battaglie dei Tre Monti

di Codroipo dopo Caporetto

quando sfilarono

tutti insieme senza disertori né sbandati,

in perfetta tenuta di guerra

con le armi in pugno e gli zaini in spalla

per l’onore dei Savoia oltre che per il loro orgoglio

ma siamo anche quelli che hanno represso gli operai in sciopero

siamo i morti nei deserti di Libia, in Etiopia, in Spagna

nelle brigate nere;

gli internati nei lager nazisti

e i collaboratori dei torturatori.

Siamo gli autori di tutto

del giusto e dell’ingiusto, di tutto quello

che è scritto nelle pietre

o nella terra intrisa di sangue,

o conservato nei nuraghi, nei pozzi sacri e nelle miniere,

negli altari di Monte d’Accoddi

di Tharros, di Sulci, di Karalis;

o nelle prigioni oscure

dei castelli pisani, genovesi o spagnoli

nelle galere dei Savoia.

Saimo gli angioiani costretti all’esilio

siamo i servi della gleba dei monasteri.

Per dare un significato alla storia

bisogna ricordare ogni cosa:

i giuramenti e le promesse

le umiliazioni, le lacrime di dolore e di vergogna

e la rabbia impotente covata nei secoli.

Dobbiamo ricordare anche le sconfitte

prima di alzare le nuove bandiere

e di suonare le campane per annunciare

che è finito il tempo dell’ingiustizia,

della rassegnazione e della morte,

ed è arrivata l’ora del riscatto,

della libertà e della giustizia per tutti.

Occorre ricordare tutto quello che è successo

per essere finalmente un solo popolo e una sola voce,

con un solo destino e una sola patria.

 Tutti i cori insieme:

Noi siamo noi:

siamo quello che siamo stati

con tutti i nostri tradimenti e i nostri inganni,

i nostri cedimenti e le nostre paure;

con tutte le nostre speranze e promesse

senza piegare la verità

come fa chi la vorrebbe altra e diversa,

e preferirebbe nascondere

sotto manti rilucenti gli errori

gli abbandoni e le fughe.

Noi siamo noi,

siamo anche ciò che molti vorrebbero nascondere,

siamo quelli che pensando solo a se stessi

hanno ignorato la sorte dei fratelli

che avevano il diritto di essere ascoltati

e riconosciuti in carne e ossa,

in sangue e amore.

Noi siamo il presente

e il passato, siamo il futuro,

siamo la terra, siamo il cielo,

siamo le piante tagliate,

siamo tutto ciò

che si brucia e si consuma,

tutto ciò che si dice o si sussurra

o si pensa o si canta,

siamo il respiro della vita e del tempo,

di quello passato e di quello presente

e di quello che deve ancora venire

siamo tutto ciò che si è costituito

e si costituisce come un noi,

come la storia di un popolo

che comprende quelli che sono morti

e quelli che devono ancora nascere.

Noi siamo noi

siamo quelli che vivono nelle città,

nei campi duri e ventosi,

quelli che studiano

nelle scuole e lavorano nelle officine,

che siedono nei tribunali

o sono rinchiusi nelle carceri;

quelli che faticano nelle miniere

e nelle fabbriche

siamo quelli che pregano nelle chiese e

siamo quelli

che hanno creduto solo in sé stessi;

siamo quelli che sono morti

nelle trincee insanguinate,

quelli che hanno seguito piangenti

i funerali dei loro amici e congiunti periti nella peste,

o che hanno brindato

nelle nozze e nei battesimi dei figli

in terre lontane

siamo quelli che si augurano

che i figli dei loro figli tornino un giorno

per sempre nella loro terra.

Noi siamo tutti i figli

della grande madre Sardegna

nostra amata patria,

dolce e amara,

terra di sole e di vento,

terra di mirto, e di menta,

di rosmarino, di lentischio e di alloro

terra di solitudine e di silenzio

terra di angustie di fame e di sete,

di violenza, di rapine e di saccheggi,

di ferite inferte dai nemici venuti dal mare

per prendersi le vergini.

Noi siamo la Sardegna,

terra di malinconia,

d’orgoglio e di rassegnazione;

siamo quelli

che hanno provato sentimenti

di felicità e di rivolta;

siamo i figli di una terra

che ha sopportato la forza di Cartagine e di Roma,

l’avidità di pisani e genovesi,

il duro arrogante dominio

d’Aragona , di Castiglia e di Savoia.

Siamo la terra

che ha conservato per i suoi figli l’idea

che un giorno torneranno a vivere liberi

non saranno più uccisi

davanti alle loro case, non morranno

in guerre lontane,

non saranno più incatenati ai remi delle galere,

né costretti a morire di fatica nelle miniere,

né consumati dalla malaria e dalla fame.

Siamo i figli di una madre

che ha tenuto accesi i focolari,

hai impedito che perissero tutte le speranze

nei lunghi anni gonfi di rabbia e di dolore,

di una madre che ha aiutato i superstiti, i fuggitivi

e i disperati dispersi nelle guerre

a vivere liberi nei monti,

ha difeso la sua antica lingua

e non ha mai ceduto di fronte

a quelli che hanno cercato di

sottometterla per sempre.

 Sardegna madre dolente,

«non averti amato

abbastanza ti fa amare di più» ora,

in questo tempo che cambia

ora che il mare e il sole si rattristano

perché non sono più nostri

e una sonnolenza pesante

rischia di avvolgere i nostri animi

offuscando la memoria di ciò che siamo stati

lasciando che affamate locuste umane venute da altri mari

si prendano le nostre terre

e le nostre case,

e cielo e terra senza fatica

solo con il denaro.

Sardegna madre venerata

noi ti invochiamo e

insieme a noi ti invocano

anche le anime di coloro che sono

morti lontano dalla loro casa

ma che tornano ogni anno a piangere sulle tombe dei familiari

a cercare con affannati sospiri

le memorie che avevano lasciato lacrimanti nell’ora dell’addio

 nelle vecchie case con i focolari spenti,

i cortili deserti e le stanze chiuse;

noi ti invochiamo insieme alle

anime che tornano

per sentire il suono degli zoccoli sul selciato

al mattino presto,

o per partecipare alla festa della vendemmia,

per sostare nell’aia in attesa del vento,

per raccogliere di primo mattino i pomodori nell’orto

e preparare la conserva per l’inverno;

o per cercare i funghi e le castagne nel bosco

e preparare i taglieri e le corbule,

o per lavare la lana prima di colorarla,

filarla e poi tesserla nei pesanti telai

del tempo antico.

Sardegna madre nostra

noi ti invochiamo insieme alle anime

delle giovani donne con le brocche sulla testa

simili a corone regali

e con le anime di quelle

che danzavano felici

nei matrimoni e nei carnevali;

e con le anime che tornano

per sentire il vento di maestrale sul viso

e le campane che suonano la gloria di Cristo risorto,

annunciano il perdono e invitano tutti alla festa;

con quelle che ritornano

per vedere chi ha pagato per i morti ammazzati,

chi ha scontato la sua pena per i tradimenti

e chi ancora rimane impunito per i misfatti

e chi è morto nel suo letto accompagnato

dal pianto delle sue stesse vittime

e chi prima di lasciare questo mondo ha finalmente

riconosciuto di non essere sempre stato nel giusto,

né sempre in colpa;

con le anime

di chi sotto l’urgere della passione

si è lasciato accecare dimenticando le promesse

fatte in piena coscienza

liberamente senza violenza né inganni.

Sardegna madre amata

dolente madre

noi ti ringraziamo

perché tu ci hai sempre perdonato

sapendo che tutti possono sbagliare

e che il tempo non si ferma a vedere chi ha ragione o torto

ma compie la sua opera fino in fondo

lasciando che accada il bene e il male,

migliorando le sorti di alcuni

e devastando le vite di altri,

di quelli che non si lamentano di nulla

e che anche quando sospettano

che qualcuno li stia ingannando o sfruttando

non protestano e tantomeno si ribellano

ma accettano che tutto vada come deve,

come è stato stabilito da chi può fare ciò che vuole

e quando vuole.

 

Sardegna patria amata

noi siamo tuoi figli

siamo quelli che come te madre

non hanno mai perso la speranza

neppure sotto il peso

di domini crudeli e implacabili,

a volte di gente straniera,

a volte di gente dello stesso sangue.

Noi siamo tuoi figli

e con te dobbiamo lottare

contro i nuovi invisibili padroni

che da lontano guidano le nostre vite

e ci opprimono insieme a tutti gli uomini del mondo

col potere del denaro.

Venerata madre fa che

la memoria dei tempi gloriosi

e il rimpianto delle cose perdute

ci faccia ritrovare il senso di una vita

vissuta nella pienezza del possesso

di ciò che la terra, la nostra terra offre ai suoi figli

fin dai tempi più lontani,

aiutaci a impedire nuove e pesanti sottrazioni,

e a respingere il compassionevole oltraggio

di quelli che offrono quel che resta delle loro tavole imbandite

a chi si accontenta delle briciole.

 Noi siamo noi.

Siamo la Sardegna

che nel passato solo raramente

ha levato la voce alta e chiara

per difendere la sua libertà

e la storia di quando era libera.

Siamo la Sardegna che

ha dovuto sopportare umilianti servaggi

per non perdere con l’onore anche la vita,

per tenere accesi i focolari,

per sconfiggere la fame antica,

per resistere alla sfortuna che ogni volta trasformava

le speranze in un pugno di polvere.

Sardegna madre amata

siamo i nuovi figli

che vogliono costruire

un futuro diverso di libertà, giustizia e pace,

di rispetto e concordia fraterna,

siamo i nuovi figli che combattono

per far nascere finalmente

un “noi”, che crede in sé stesso,

crede nella sua terra

nel suo cielo, nel suo mare, nella sua lingua

crede nel suo ingegno,

crede nella capacità e nel diritto

di costruire liberamente un nuovo destino

e proclamare alto e forte:

«O patria ogni tua età

s’è desta nel mio sangue.

Sicura avanzi e canti

sopra un mare famelico».

 

 

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