Il tempo dei Sardi (III): Non più e non ancora [di Pietrino Soddu]
Pubblichiamo la terza parte di Il tempo dei Sardi di Pietrino Soddu. L’esponente politico, che è stato Presidente della Regione e Parlamentare, si misura con la scrittura poetica e, attraverso questa, traccia un epos. Si tratta della storia della Sardegna ab antiquo filtrata attraverso un punto di vista di chi è stato protagonista e testimone delle vicende dell’isola dagli anni Cinquanta. Il suo sguardo tematizza una vicenda che dall’antichità arriva ad oggi nella convinzione che soltanto una diversa narrazione può restituire alla contemporaneità un senso per procedere e per oltrepassare un presente affatto confuso. L’opera fu presentata nell’iniziativa “Sardeide: dalla sarditudine alla Sardegna. Una narrazione da riscrivere” dall’Associazione Lamas il 12 luglio 2013 nella chiesa di San Giovanni a Pattada. A quell’incontro dialogarono di Sardegna con Pietrino Soddu storici, filosofi, amministratori, sindacalisti, un pubblico numeroso e senza barriere anagrafiche. Quel dibattito lo vorremo aprire ad un pubblico più vasto. Soprattutto in questo momento è utile chiedersi e riflettere sui temi relativi ai quesiti “Chi siamo” e “Cosa saremo”. La prima parte dal titolo Il tempo è stata pubblicata lunedì 30 dicembre 2013, la seconda parte dal titolo Passaggi è stata pubblicata lunedì 6 gennaio 2014 (Maria Antonietta Mongiu). Capitolo 1 1ª voce: Il tempo va come deve andare, in Sardegna come ovunque nel mondo. Nessuno è mai riuscito a fermarne il passo che si muove sempre in una sola direzione, sempre avanti mai indietro o di lato, sempre verso il futuro mai verso il passato, senza fermarsi, senza guardarsi intorno, senza curarsi di correggere ciò che non gli piace. Non sceglie tra bene e male non giudica ciò che accade; si limita ad accogliere tutte le cose quelle vive e sane, quelle malate o stanche e persino quelle moribonde, lasciandole tutte al loro destino senza preoccuparsi del fatto che ciò che è inanimato resiste più a lungo, si deteriora e si consuma molto più lentamente di ciò che è animato e vivo che invece cambia sotto la spinta dell’ambiente e la violenza delle passioni che mutano a seconda del tempo provocando in pochi istanti grandi cambiamenti nell’anima e nella mente diversamente dall’evoluzione della specie che iniziata all’alba della vita è ancora in corso. La storia dei sardi come tutte le altre storie ha dovuto obbedire a queste leggi e finché non si scoprirà qualcosa più veloce della luce nessuno potrà tornare indietro nel tempo, per cambiare ciò che è accaduto e per anticipare ciò che dovrà accadere o si desidera che accada. 2ª voce: nessuno, neppure chi crede in un’altra vita convinto che l’anima sopravvive alla morte, sopravvive al tempo, – rivivendo all’infinito, passato, presente e futuro in un tempo che annulla il tempo e ferma il suo scorrere, così come lo percepiscono i viventi, – può pensare che le cose avvengono secondo i propri gusti, secondo il proprio pensiero soltanto desiderandole. Le cose si dispongono infatti secondo il cosiddetto senso della storia che a volte premia e a volte punisce ma quasi sempre a caso. Oppure seguono ciò che vogliono i principi e i governanti, ciò che è bene per loro, e non ciò che gli altri desiderano. Anche per i sardi è stato così. Essi hanno sempre subito passivi il corso della storia al tempo dei punici, di Roma e della Spagna e nel tempo più recente senza ribellarsi e senza cercare di raggiungere gli scopi considerati un bene, che sono sempre gli stessi ma vanno ridefiniti e perseguiti a volte seguendo a volte contrastando il senso della storia. 1ª voce: Nelle lunghe notti seguite al battito delle ore più funeste, la rovina talvolta si è fermata ma non è stato perché molti hanno pianto, e hanno invocato consolazione o perdono, ma perché c’è stato qualcuno che ha resistito alla violenza e ha lottato contro l’ingiustizia e i soprusi. Il tempo non cambia mai da solo sono gli uomini che rallentano e cambiano il suo passo, che lo orientano secondo le loro preferenze e non lasciano che proceda a caso tenendo gli occhi chiusi per non vedere tutto quello che sa di morte e di rovina. 3ª voce: Tutto ciò che accade nel tempo vita e morte, speranza e disperazione, liberta e sopraffazione, una cosa e il suo contrario, non vanno mai separate ma sempre insieme e l’una prevale sull’altra solo per l’azione degli uomini. Tutto quel che siamo, che siamo stati e che saremo che è contenuto nel tempo è influenzato da noi sia che agiamo sia che restiamo passivi senza reagire alla violenza che cancella insieme al respiro della vita, agli occhi e al sorriso dei familiari alla cortesia degli amici, alla vista del sole e delle stelle, a tutto ciò che offre la natura, il cielo azzurro, il mare, il vento la pioggia, la neve e tutte le altre cose molto amate, anche la libertà e la giustizia. La violenza è sempre morte, ma la morte non cancella la memoria delle parole, delle azioni, dei gesti, dei sentimenti, del male e del bene compiuti, degli errori commessi, del coraggio e della viltà dimostrate in vita. Quel che conta perciò non è tanto morire ma come si muore e perché si muore. 1ª voce: Quando gli uomini non si riconoscono in una sola patria ma in tante patrie in lotta tra loro, come i sardi che per molto tempo non hanno avuto una sola patria e una sola lingua, ma almeno due patrie e due lingue, una delle due è stata sempre in qualche modo tradita o usata male. Non per scelta ma per necessità, perché non esisteva un terreno comune che le accogliesse compiutamente entrambe e il tempo per scegliere la patria non coincise mai con il tempo più favorevole per scegliere la lingua. 2ª voce: La storia può anche non piacerci e possiamo credere a cose che non sono mai accadute rifiutando quelle documentate che non sono state come avremmo voluto che fossero perché abbiamo giudicato il prezzo troppo alto. Ma se vogliamo diventare quel che diciamo di essere ma non siamo ancora; se dobbiamo essere nazione, se dobbiamo avere una nostra lingua questo potrà avvenire solo dopo esserci confrontati con tutto ciò che è avvenuto nella storia che ci piaccia o no che sia gradevole o difficile da sopportare. 3ª voce: Dobbiamo fare i conti anche con le differenze che ci sono tra noi fin dai tempi più lontani prima ancora che gli stranieri venissero dal mare, prima che la loro influenza si distendesse ovunque oltre gli approdi portando insieme alla meraviglia della porpora anche la paura che le navi nemiche cariche di guerrieri recassero non solo doni ma anche saccheggi, disgrazie torture, violenza sulle donne e rapimenti di bambini innocenti. Portassero tutte le altre cose che da allora hanno visto divisa la gente sarda tra chi scruta il mare con timore e chi aspetta fiducioso quelli che ha chiamato in suo soccorso sperando che agiscano con giustizia rispettino i beni e le donne, onorino le usanze e li liberino dai nemici senza pretendere ricompense. 1ª voce: Davanti al mare, sia verso l’aurora sia verso il tramonto i sardi hanno sempre tenuto aperte le finestre per spiare l’arrivo delle navi provenienti a volte dalla terra italica e a volte da quella iberica e prima ancora dalla lontana Asia e dall’Africa. Dal mare sono venuti anche i nostri più antichi antenati, quelli che per primi hanno calcato il suolo sardo. Sono venuti forse anche quelli che hanno costruito i nuraghi e certo quelli che hanno edificato le città e dopo di loro tutti quelli che hanno preso il comando rompendo le promesse fatte all’arrivo. Da allora nella storia della Sardegna chi comanda ha nome straniero. Tutti quelli che hanno lasciato la loro pesante impronta sul suolo sardo hanno nomi d’Asia o d’Africa e poi di Roma, di Bisanzio, di Pisa, di Genova, di Aragona e di Castiglia o persino nomi di stirpe vandalica, mai di stirpe nuragica. 2ª voce: Nel dolce paesaggio di ulivi, di vigne e di aranci e nei duri paesaggi di pietra, nei campi incolti e nei boschi di sughere, di castagni, di lecci e di querce, dovunque si posa oggi lo sguardo ci sono monumenti che raccontano la loro presenza fissata per sempre nelle tombe, nelle pietre dei grandi cimiteri. Nei più antichi monumenti nei castelli, nelle basiliche, nelle mura e nelle torri erette nelle città, la storia dei vinti è soffocata da quella dei vincitori. Tutto testimonia una convivenza fatta di violenza e oppressione e quasi mai di pace, civiltà e lavoro comune. La nostra memoria ne da testimonianza in essa, sono rimasti impressi i segni del sangue degli uccisi le sofferenze dei sopravvissuti sottomessi e trascinati in catene a coltivare le terre e servire le case dei vincitori patendo sempre la fame. Dal più vasto terreno dei campi dopo tanto tempo viene ancora un cupo suono di lamenti e di pianto per la dura crudeltà della violenza e della spietata sopraffazione. 3ª voce: La storia ha impresso nella mente e nell’anima dei sardi i segni di una “coscienza infelice” ma anche di dura condanna contro coloro che hanno ceduto il comando senza combattere sopportando di essere dominati e asserviti; contro tutti coloro che hanno preferito piuttosto che unirsi e scegliere un capo per guidarli alla lotta, continuare a sopportare di essere oppressi per mille, duemila anni come se dovessero espiare una incancellabile colpa accettando sofferenza e dolore diventando sempre più poveri vivendo come prigionieri nella propria terra, senza pensare che col tempo sarebbero diventati una gente senza patria, un popolo incapace di lottare per tornare libero e sovrano come era nell’età del bronzo e del ferro, nel tempo nel quale i loro antenati diedero vita a una civiltà che durò più di 1500 anni. 1ª voce: I segni impressi nelle pietre più antiche infisse nel suolo, negli altari, nelle tombe ipogeiche nei pozzi sacri, nei nuraghi nelle più antiche rovine delle città sul mare nelle offerte custodite nelle tombe, nelle mappe dei labirinti, nelle spirali e nelle linee geometriche delle ceramiche e delle pintadere di legno, nelle figure dei bronzetti e in tutto quel che rimane della antica storia che non è riportato nella scrittura, raccontano un mondo e una civiltà che non erano inferiori a nessun altro mondo a nessuna delle civiltà cresciute nelle terre poste al di là del mare che circonda da tutti i lati la Sardegna. Raccontano di un popolo costruttore di nuraghi libero e padrone della sua sorte, ma anche di quelli che hanno abitato l’isola prima di loro. La loro storia è fissata indelebile nella grande misteriosa potenza cognitiva delle testimonianze sparse ovunque. I segni non assomigliano a nessun alfabeto, ma raccontano ugualmente ciò che è essenziale per conoscere un mondo fatto non solo di bisogni primari e di scambi elementari, ma di grande creatività culturale e di una vita sociale vissuta utilizzando gesti, silenzi, sguardi, doni, e persino assenze, tutte cose spesso più ricche di senso delle parole scritte. Molte delle cose arrivate fino a noi, nelle pietre tombali e nelle altre pietre rituali e in tutti gli altri oggetti raccontano passaggi essenziali di una società viva, ricordano regole e contenuti della vita in comune documentano le originali forme delle relazioni tra gli uomini, in un tempo segnato dal timore di svelarsi agli altri per non accrescere i pericoli di una vita quasi interamente dominata dalla paura della morte. 2ª voce: La morte è presente ovunque negli eventi naturali nelle vesti gialle della carestia in quelle rosseggianti dei terremoti, o in quelle nere del vaiolo, del colera o del carbonchio ma più spesso nella cieca ferocia della guerra. Dovrà passare molto tempo prima di raccontare con la scrittura oltre alla morte e al dolore, anche i giorni delle spighe, dell’uva, dei parti delle vacche e delle pecore del crescere dell’erba,della raccolta delle ghiande , dei frutti dell’orto, dei fagioli, delle fave, dei fichi, delle mandorle, delle noci, delle olive e del mirto, delle danze nuziali e delle feste delle stagioni. 3ª voce: Gli uomini delle campagne, delle miniere e del mare, le madri, le sorelle e le spose, pazienti custodi dei focolari e consolatrici dei bambini e dei malati, tutti quelli che si alzano al mattino sperando sempre che il tempo gli sia propizio. Per comunicare tra loro e scambiarsi le cose essenziali di tutti i giorni non hanno bisogno di conoscere la scrittura che non aiuta a sopportare le fatiche, a condurre fuori dalle tempeste, a evitare la morte violenta, a scoprire gli inganni, a curare le malattie, a tener lontano le disgrazie e portare conforto. Le parole fissate nei testi scritti non curano il dolore e il pianto non hanno la forza delle più antiche espressioni dell’alfabeto dell’animo, non contengono i sentimenti d’amore che sono dentro ogni essere umano come il sale è dentro le onde del mare. 1ª voce: Ma il tempo non si è fermato e anche i sardi hanno dovuto imparare la scrittura e subire il nuovo corso imposto dagli uomini delle navi nere. Con la scrittura gli stranieri della porpora, del vetro portarono molti altri segni di un mondo diverso da quello conosciuto e vissuto dai sardi. Molti per non mischiare il loro sangue e i loro saperi con il sangue e i saperi degli stranieri preferirono andare lontano lasciandosi alle spalle le antiche case e i molti affetti sperando di conservare intatta la loro storia costruendo nelle colline lontane dal mare una nuova vita simile all’antica. Nelle nuove terre cercarono tutto ciò che avevano conosciuto: i campi, l’erba, le tortore, le pernici, le lepri, le piante, l’acqua pura di sorgente, le pietre adatte per elevare le loro torri ed essere di nuovo al sicuro. Volevano che nel loro cuore tornasse la speranza di vivere in pace secondo le antiche tradizioni, signori del loro tempo e dei loro focolari, liberi di forgiare spade e pugnali, venerare i propri dei fabbricare archi, frecce, lance e bronzetti votivi vivere, parlare, cantare ridere, piangere secondo i propri usi e non secondo gli usi degli uomini venuti dal mare. 2ª voce: Vogliono continuare a vivere secondo i ritmi della natura, all’ombra delle nubi a volte tenera a volte minacciosa, vogliono sentire la voce dei tuoni e del vento il rauco rumore degli animali selvatici il respiro pesante delle grandi ombre che coprono la luna, l’urlo delle tempeste. Non temono i pericoli della natura perché li conoscono da sempre; temono quelli nascosti nell’astuzia e nell’inganno dei doni portati dagli stranieri venuti dal mare. 3ª voce: La storia dei guerrieri che hanno lasciato le terre vicine al mare durerà ancora a lungo. La gente delle navi nere non riuscirà a piegare la loro resistenza neppure con la forza e con l’aiuto di quelli che li seguono per avidità di potere e di denaro. I segni della loro resistenza sono impressi ovunque. Nelle pietre sparse nelle valli e nelle alte colline, nei luoghi più segreti, e soprattutto nelle coscienze, nelle pieghe più profonde dell’anima sarda che da allora non conosce più allegrezza perché nelle menti sempre si confrontano orgoglio e vergogna, inappagati desideri di vittoria e umilianti sconfitte. Da allora libertà orgogliosa e dipendenza servile si specchiano l’una nell’altra dentro una coscienza infelice che rivive tutto il tempo passato senza saper ancora ciò che è veramente accaduto. Voce sola: Ma allora chi siamo? 1ª voce: Quello che siamo è la somma di tutto ciò che siamo stati, è la somma di molte differenze e del sangue di varie stirpi. Di quella che per prima giunse alle nostre rive dall’Africa e di tutte le altre che lungo i secoli dall’Asia, dall’Egeo e poi dall’Italia, dalla Spagna vennero con molte navi portando la potenza degli imperi che hanno dominato la storia. Quello che siamo si è formato in migliaia di anni in un processo che ha visto mescolarsi vincitori e vinti, vecchi e nuovi abitatori, padroni e schiavi, seguaci di una grande famiglia di dei e seguaci di un Dio unico e trino. Non siamo figli del mistero ma della storia. Prima che i mercanti venuti dall’oriente portassero con loro la scrittura, fondassero le città sul mare e diffondessero ovunque le loro mercanzie e i loro usi, prima che si levassero nelle città i vessilli e le voci dei vincitori i sardi erano liberi e signori della loro terra. La libertà è finita quando nelle città sul mare arrivarono dopo i mercanti anche i soldati. Allora grazia e gioia scomparvero i doni si caricarono di mestizia e molti piansero miseramente la libertà perduta. Da allora ogni volta che compare una nave straniera il timore degli eserciti percorre le strade penetra nei giardini e nelle case, portando oscure minacce di saccheggi di ferri stretti alle gole, di dominio crudele, di gente senza pietà per i vinti. 2ª voce: La nostra identità non è un mistero anche se molte cose della storia più antica e di quella dei nuragici sono ancora oscure e di molte cose successe dopo conosciamo solo la parte presente nei segni arrivati fino a noi. Quello che si legge nei monumenti conferma che il popolo sardo ha un’origine lontana diversa da quella degli altri popoli e possiede una sua identità anch’essa diversa. La nostra storia più antica è arcana e misteriosa, non ha lasciato tracce scritte né documenti, ma si può ricostruire con la logica della ragione e con l’uso degli stessi strumenti concettuali adoperati per spiegare il corso seguito dall’evoluzione umana in qualsiasi parte della terra. Essi ci dicono che la presenza umana in Sardegna risale al tempo arcano ancora immerso nel buio profondo e inesplorato dell’alba della storia e ci dice che la sua evoluzione ha seguito percorsi simili a quelli di tutte le altre genti. 3ª voce: Della prima comparsa dell’uomo non abbiamo prove sicure e nessuna traccia dei suoi primi passi di ciò che è accaduto prima che sorgessero da grandi pietre, grandi nuraghi, muraglie e fortilizi, prima che comparisse la stirpe di guerrieri che ha dominato terra e mare e usato animali domati per coltivare i campi e procurarsi altro cibo da aggiungere alle prede della caccia. Sappiamo che il tempo della Sardegna è certamente più antico di quello di altre terre e il tempo della sua gente è anch’esso più antico di quello di molte altre genti che hanno abitato la terra che oggi chiamiamo Europa. Sappiamo che da quando il primo uomo ha calcato il suo suolo gli abitanti della Sardegna hanno subito l’influsso e si sono evoluti secondo le esigenze dell’ambiente nel quale hanno vissuto. Essi hanno conosciuto libertà e dominio, abbondanza e fame, hanno sopportato millenni di servitù di sofferenza e di offese umilianti; hanno creato una grande civiltà e sono stati soggiogati e dominati con la forza. Prima dei nuraghi, dei betili, delle domus de janas, dei menhir, dei bronzetti, dei pozzi sacri, delle necropoli, delle grandi statue di Mont’e Prama, i sardi hanno conosciuto la violenza della natura, la solitudine delle grandi distese di sabbia bianca, la dolcezza delle insenature riparate dai venti, la forza dei monti blu viola, le bellezza dei grandi tramonti, hanno conosciuto la potenza del vento di maestrale, il disagio del caldo scirocco e dell’umido levante, hanno conosciuto fiumi gonfi d’acqua d’inverno e asciutti nell’estate, fontane chiare e foreste sempre verdi, aria profumata di menta, di rosmarino, di mirto e di lentischio e tutto questo è rimasto nella mente, ha alimentato i miti e le storie di un tempo privo di pene, di dolore, di privazioni, di dure umiliazioni, ricco di ardimento, amore, coraggio e orgoglio prima che la Sardegna fosse umiliata, vinta e divisa in tante parti contrapposte e spesso nemiche. 1ª voce: Non sempre e non tutte le storie e i miti dicono il vero. Molta parte del tempo più antico è segnata da sottomissione, sofferenza e dolore, divisioni e lotta tra noi. La nostra è una storia tormentata. Dopo il glorioso tempo dei Nuragici, sono venuti i Fenici, i Punici e i Romani e poi i Mauri, Ebrei, Vandali, Arabi, Spagnoli Pisani, Genovesi, Francesi e Savoiardi. Tante stirpi che si sono sovrapposte e mescolate, senza diventare una sola gente e una sola Sardegna. Ci sono le storie dei signori delle città regie e dei castelli feudali, e le storie dei servi della gleba e dei disperati delle miniere e delle saline. C’è eroismo e tradimento, c’è libertà e dipendenza. Dalla nostra storia tormentata ci viene l’orgoglio ma ci vengono anche i pensieri dolorosi che ci accompagnano sempre e ovunque. Da essa vengono i suoni e le parole dei canti che raccontano le nostre emozioni più semplici ma vengono anche le parole della diffidenza e del sospetto, viene il linguaggio scarno e ruvido che regola la vita comune di tutti i giorni. Dalla storia vengono le maschere che coprono i nostri visi con sembianze animali, e le parole di lutto e di rassegnazione per un ineluttabile destino che graverebbe su di noi senza lasciarci scampo. Il tempo è stato quasi sempre crudele con noi e la libertà non è mai diventata un bene certo, ma è rimasta sempre insicura e quando qualcuno ha provato a liberarsi qualcun altro lo ha fermato con la forza riportando tutto al prima, alla dipendenza e all’assoggettamento. La Sardegna si è divisa in tante Sardegne popolata da genti umiliate non più padrone del proprio tempo e della propria terra, non più un popolo con una sola lingua e una sola patria. 2ª voce: Il nostro destino è stato infelice ma non solo per colpa dei dominatori stranieri ma anche per la nostra inettitudine in tutti i tempi, anche nel periodo giudicale, anch’esso pieno di violenza, di oppressione e di lotte di tutti contro tutti ma soprattutto contro coloro che tentarono di trasformare le tante Sardegne in un unico regno sotto un unico signore. Le nostre disgrazie non sono tutte figlie della sfortuna. Non è stata solo la sfortuna ad impedirci di essere un popolo libero padrone della sua terra. Anche noi abbiamo colpe delle nostre disgrazie. La nostra però non è solo una storia di sfruttamento e di dominio straniero. C’è stato anche il tempo dei grandi guerrieri di Mont’ e Prama e prima di loro, per molte migliaia di anni la Sardegna ha vissuto libera e in pace. Il declino è iniziato quando gli stranieri venuti dal mare hanno sottomesso i nativi più che con la forza, la frode e il tradimento, con il fascino della porpora, dei profumi e della scrittura e con la promessa di una vita migliore. Il perché del nostro destino non va cercato nella sfortuna, ma nelle vicende della storia. 3ª voce: Tutto quello che conosciamo ci dice che la prima infanzia dell’uomo sardo è stata simile a quella dell’uomo dell’Asia o dell’ Africa o della Spagna o della Francia. È stata un’infanzia senza voce lunga più di centomila anni che si snodano in cicli di molte migliaia di anni, apparentemente sempre uguali senza che nulla accada al di fuori dell’evoluzione naturale ancora tutta avvolta in un mistero. Di questi nostri più antichi antenati non sappiamo quasi niente neppure se la nostra primigenia natura sia una sola oppure molte e diverse. Della storia più antica sappiamo solo ciò che abbiamo scoperto nelle tombe e nelle caverne sparse in tutta l’isola, e possiamo anche immaginare che negli spazi ancora incolti vagasse una presenza umana simile all’uomo di oggi in lotta senza quartiere con gli animali prima ancora di competere tra simili per le risorse materiali e le donne. L’uomo che viveva in Sardegna non era diverso dall’uomo che cercava solo di sopravvivere in tutte le altre parti della terra. L’identità nel senso che si intende oggi, fatta di fattori naturali e di fattori culturali, è una cosa che viene molto dopo. 1ª voce: L’identità è figlia di tanti padri e di tante madri e figlia oltre che dell’ambiente naturale, della storia. Quel che sappiamo della nostra storia più antica non prova e non nega che all’origine ci fosse un unico popolo nato da una sola radice. Dice però che nel tempo c’è stata un’evoluzione, un innesto del carattere e del sangue delle tante diverse genti venute in Sardegna nel tempo lungo e travagliato della storia. Ci dice che alcuni semi delle piante venute da fuori non hanno germinato perché i nativi non li hanno raccolti per paura dell’ignoto. Ma ci dice anche che molti altri sono stati raccolti e si sono aperti, hanno prodotto frutti che sono diventati parte dell’identità di tutti gli abitanti dell’isola. Nessuno può negare che ci sia stato un crogiolo che ha fuso nel tempo molti elementi diversi e che il prodotto finale non è più perfettamente simile a quello dell’origine. Neppure il nucleo più interno e profondo, infatti, investito dai nuovi valori, dalle nuove culture e dai nuovi saperi, portati da quelli che vennero uno dopo l’altro in modo incessante dal mondo esterno, può essere sopravvissuto intatto e senza alcun cambiamento. 2ª voce: È vero; quello che affermi è vero; molte cose i sardi le hanno apprese dagli stranieri che però a loro volta hanno assorbito l’influsso della natura, dell’ambiente e della cultura locale. Con questa realtà si sono dovuti confrontare sia i più antichi invasori ancora sconosciuti, sia i suadenti e pacifici mercanti fenici sia i Punici venuti con molta maggiore potenza e volontà di dominio; sia i Romani e tutti gli altri venuti dopo di loro. Lungo tutta la storia la Sardegna ha preso ed ha dato. Nessuno è rimasto indenne dalla contaminazione, non solo i sardi ma neppure i Punici e i Romani che pure hanno imposto la loro legge domando ogni resistenza anche nelle zone più interne. Tanto meno sono rimasti gli stessi quelli venuti dopo di loro. Nessuno è riuscito però a cancellare le originarie radici né a modificare la natura più profonda del popolo sardo. Nessuno è riuscito ad imporre completamente la sua cultura la sua lingua e i suoi costumi. Il vecchio e il nuovo si sono mescolati e contaminati ma la natura profonda dei sardi è rimasta intatta. Le grandi memorie del passato e le espressioni culturali maggiori sono rimaste. Gli usi, i costumi, i riti, il senso del possesso diretto della terra e dei beni primari e con loro la speranza di riavere un giorno una patria e una nazione sono sopravvissuti nel profondo delle coscienze a tutti i cambiamenti e in tutte le fasi della lunga storia di sofferenza e oppressione. La storia non ha seguito sempre gli ordini dei vincitori e non si è snodata solo secondo le loro pretese. Persino il nuovo messaggio cristiano, che si era imposto anche contro gli imperatori romani molto prima di Costantino, trovò difficoltà a penetrare nella società sarda perché quelli che odiavano il servaggio temevano che anche quelli che si chiamavano cristiani invece della libertà promessa avrebbero portato guerre, sofferenze e condizioni servili. 3ª voce: Non tutto nella nostra storia è assoggettamento, omologazione e rinunzia. Le testimonianze archeologiche raccontano la presenza contemporanea dal tempo dei Fenici in poi di due culture, una vecchia e una nuova: quella dei nativi e quella degli stranieri. Anche quando la nuova presenza da pacifica attività mercantile diventa potenza militare e impone alle antiche popolazioni la sua volontà con la forza delle armi e concede ai suoi capi privilegi e ricompense per corromperli, l’identità dei sardi sopravvive spesso in forme silenziose ma sempre vitali. E quando il potere militare prima di Cartagine e poi di Roma pose tutto il territorio sotto il suo controllo comprese le città, i commerci e tutte le risorse naturali, la cultura nuragica sopravvisse nelle terre più interne rifiutando di accettare umilianti compromessi e conservando con orgoglio e sofferenza le vecchie radici. E dopo Pisa, Genova e Spagna,e infine sotto i Savoia, in tutta la sua storia la società sarda ha sempre oscillato tra opposte visioni, tra separazione e unione, tra fiducia e diffidenza, tra ostilità e attrazione. tra la spinta a confluire in una patria più grande e il desiderio di conservare una sua piccola ma autonoma espressione politica. L’identità ha conosciuto molte traversie, manipolazioni e violenze. Ha attraversato i secoli, subendo lunghi e vasti processi di integrazione ma non è mai scomparsa, anzi si è insinuata nelle menti e nei cuori dei discendenti dei dominatori stranieri succedutisi ininterrottamente al comando nei palazzi del potere, nelle miniere, nelle peschiere, nel commercio dei grani nel possesso dei grandi latifondi e nello sfruttamento dei grandi pascoli. L’identità sopravvissuta non è il frutto di una progressiva successione lineare, non è una semplice somma di modifiche succedutesi una dietro l’altra ma è frutto di un processo fatto di spinte, di accelerazioni di grandi pause, di interruzioni e di contrasti spesso violenti tra le vecchie e le nuove culture. L’identità è cambiata, si è spesso confusa e smarrita, è rimasta sospesa tra due mondi, lasciando spesso tutti incerti se affrontare da soli fino in fondo il mondo grande e terribile in piena libertà e in piena responsabilità, oppure lasciarsi guidare nel mare tempestoso della storia da chi aveva più volontà e più interessi e soprattutto possedeva la forza per imporli. La vecchia identità non è morta, anche se per lunghi secoli siamo apparsi un popolo senza lingua, senza voce, senza ambizione, senza rimorsi e senza patria. Capitolo 2 Voce narrante: Dopo l’abbandono di Bisanzio la Sardegna, isolata dal mondo, visse un lungo declino, tra continue guerre intestine, violenza di eserciti mercenari, carestie e ricorrenti pestilenze. La terra sarda venne divisa in quattro regni e in essi si alternarono e si mescolarono i Lacon, i Serra e i Gunale, con Torchitori, Visconti, Gherardesca, Doria e Malaspina e dopo di loro altre casate feudali catalano-aragonesi tra le quali la casata dei Bas Serra cui appartenevano Ugone, Pietro, Mariano e la grande Eleonora che per molti anni tennero alto lo stendardo della Sardegna amministrandola e governandola con buone leggi e cercando di liberarla dal giogo della loro stessa stirpe regnante ad Aragona costringendo questa a subire molte sconfitte e a impegnare tutte le sue forze, prima di riuscire a imporre alla Sardegna il suo sigillo, la sua legge e il suo dominio. Molti dei suoi villaggi morirono, i loro fuochi si spensero per sempre e della loro fitta trama rimasero solo poche rovine e nessun segno a ricordare l’esistenza di un popolo che si sente nazione. Un mondo intero scomparve nel nulla, la rete degli insediamenti umani si allargò lasciando spazi sempre più vuoti. Dopo qualche secolo tutti i giudicati alla fine vennero cancellati, Pisa e Genova sconfitte , tutte le famiglie che avevano a lungo dominato nell’isola vennero infeudate prima alla Corona catalano-aragonese e poi alla Spagna. Dopo di allora oltre alla peste nera, alle carestie e alle guerre la Sardegna fu devastata dallo sfruttamento brutale delle sue popolazioni da parte dei nobili e spesso anche dell’alto clero di origine spagnola. Non solo nei grandi feudi nobiliari ma anche nelle terre possedute da basiliche e monasteri molti sardi erano servi della gleba. Nei condaghi insieme ai nomi degli abati e dei monaci ci sono i nomi di quanti la morte ha liberato dal duro sfruttamento spesso nascosto sotto la veste della pietà religiosa. In quegli anni non di nazione di liberi si può parlare ma solo di un popolo di schiavi. In Sardegna non c’è traccia delle comunità fraterne che nelle terre convertite mettevano tutto in comune e spartivano i beni, liberavano gli schiavi diventando tutti fratelli nel nome di Cristo emancipando i miseri e riconoscendosi un’unica comunità, un solo popolo. Tra i martiri ci sono anche sardi ma la maggior parte di essi porta i nomi stranieri, porta i nomi di soldati romani. Efisio, Simplicio, Lussorio, Gavino Proto, Genuario, Antioco diventati solo dopo nomi sardi. Sotto l’egemonia di Pisa e Genova la presenza cristiana diventa più intensa, sorsero ovunque molti conventi concepiti più per controllare che per unire o per rendere più liberi i sudditi; più per segnare i confini e difendere le terre dei signori dei castelli che avevano i nomi di Doria, Malaspina, Arborea, Gherardesca e Visconti, per dire i più noti, piuttosto che per promuovere una nuova coscienza identitaria o per unificare la Sardegna e fare delle varie genti dell’isola un’unica gente sotto le insegne cristiane come avveniva in altre parti d’Europa. Il Papato al contrario, con Bonifacio VIII autoproclamatosi Signore dell’Isola, infeudò i sardi al Re Alfonso di Aragona dando di fatto inizio a un lungo e tormentato periodo di guerre e di lotte che finirono solo quando la Sardegna divenne tutta spagnola umiliando Arborea e spegnendo nel sangue il suo tentativo di unificare l’isola. Primo Coro: Non possiamo condannare i nostri antenati per aver vissuto insieme ai loro vecchi nemici. L’uomo non è fatto per stare sempre uno contro l’altro armato. Il suo cuore non può vivere solo d’odio e di rancore; ha bisogno anche di tenerezza, di amicizia, di riconoscenza. Ha bisogno di dare e di ricevere gratuitamente dei doni ha necessità di aprirsi a orizzonti di sentimenti condivisi; deve scambiare i timori e le speranze con persone amiche che possano rassicurarlo e dargli quel che da solo non può avere. Gli uomini non possono vivere senza fidarsi di altri uomini rimanendo sempre da soli tra loro aspettando una salvezza e un salvatore, un messia come quello promesso agli ebrei senza cedere alle lusinghe e al bisogno. E poi noi non siamo un altro popolo eletto, non abbiamo avuto un Dio che ci ha scelti come suo popolo, e neppure un mediatore per negoziare un patto, attraversare il deserto e avere finalmente la libertà promessa. Secondo coro: Nessuno può incolpare i nostri progenitori di non aver combattuto abbastanza per mantenere intatto il sangue dei sardi per mille e mille anni. Non sono loro i responsabili del dominio straniero, né di tutte le guerre che per tante volte hanno spento i focolari e svuotato i campi e costretto tutti a servire in silenzio e a combattere sotto insegne straniere. Nessuno può accusarli di non aver sopportato di vivere ancor più miseramente per rimanere liberi e soli accettando di essere assoggettati e comandati da altri nella infondata illusione che lontano, molto lontano, invisibile e tutta avvolta nel mistero ci fosse una forza che un giorno si sarebbe mossa in loro aiuto per liberarli facendoli tornare ad essere quello che erano stati prima che il grande popolo di guerrieri raffigurato nei bronzetti e nelle statue di Mont’e Prama, scomparisse nel nulla, non si sa se causa di una guerra, di una carestia o di una pestilenza oppure per decisione spontanea per tornare alle proprie case o per conquistare altre terre, proprio quando erano sul punto di diventare una grande nazione come ci raccontano i bronzetti e le alte stanze dei nuraghi. Una voce dalla folla: Ma allora noi chi siamo?
1ª voce: Siamo tutto ciò che è, che è stato o che sarà e non è ancora. Siamo i figli di quelli che elevarono al cielo le torri dei nuraghi, siamo i discendenti degli uomini e delle donne sepolti nelle tombe scavate nella pietra e nelle domus de janas. Siamo gli eredi dei costruttori dei betili e dei giganti di Mont’e Prama, siamo i figli di quelli che hanno scavato i pozzi sacri. Siamo Amsicora e Iosto, siamo Cartagine e Roma Genova e Pisa, Barcellona e Madrid. Siamo Piemonte e Italia siamo l’Europa. Siamo contadini e pastori, banditi e carabinieri, giudici e soldati, siamo carcerati e schiavi venduti a basso prezzo siamo preti e sacristi, signori e servitori fedeli. Siamo il Risorgimento e la rivolta contro il Piemonte, siamo il Piave e l’Isonzo e le trincee delle Frasche, siamo la marcia su Roma e la Resistenza siamo il nuovo e l’antico. Siamo tutto quello che ha voluto la storia. 2ª voce: Per lungo tempo abbiamo cercato di non guardare e quando abbiamo riaperto gli occhi abbiamo scoperto di essere diventati un’altra cosa, abbiamo scoperto di esserci piegati a vivere come ci veniva detto da altri a volte con la forza a volte senza alcuna violenza, anzi ansiosi di diventare uguali a loro. Tante volte abbiamo rinunciato all’idea che potessimo tornare a essere i soli padroni della nostra terra e della nostra vita. Troppe volte abbiamo sopportato una servile convivenza trasformandola spesso in compiaciuta dipendenza, e persino nell’esaltazione delle radici straniere conservate con cura nei costumi, nella lingua, nel cibo, nei titoli feudali, nel canto, nelle feste e persino nella venerazione dei santi imposti dai dominatori. Troppe volte abbiamo dimenticato quanto la nostra vita abbia grondato di sangue e di lacrime per i soprusi, gli arroganti saccheggi e le morti per violenza e per fame. Per moltissimi anni abbiamo evitato di fare domande a noi stessi per non sentire la voce dell’orgoglio umiliato seguendo quelli che preferivano vedere un mondo colorato di turchese. Troppe volte abbiamo rifiutato di riconoscere che la nostra è stata sempre una terra d’esilio non tanto e non solo per i condannati dai potenti di turno ma per tutti i sardi costretti a vivere sotto il pesante tallone straniero. Troppe volte abbiamo nascosto a noi stessi che in tutti i tempi hanno comandato gli invasori perché i vecchi abitanti non hanno avuto il coraggio di reagire e non credendo nel successo hanno preferito restare inerti, immobili e incupiti dal rancore oppure si sono limitati a presidiare uno spazio di speranza sempre più piccolo senza correre alcun rischio, rimanendo al sicuro nelle loro case tristi e silenziosi con finestre e porte rigidamente sbarrate. 3ª voce: Il tempo della prigionia è stato lungo; ha conosciuto molti inverni segnati dallo sconforto e molte estati di torrida violenza . La speranza però di tornare ad essere quello che siamo stati nel tempo più antico non è mai morta ma sopravvissuta nelle coscienze sia della gente delle pianure e sia delle montagne; in quella dei mietitori col viso bruciato di sole e le mani indurite dalle resti, nella coscienza delle donne costrette a raccogliere in silenzio le spighe cadute dai mannelli, in quella dei contadini dominati dalla paura della scarsità della pioggia e delle invasioni delle locuste divoratrici; in quella degli abitanti delle città cacciati con la forza e la violenza dalle loro case dei pescatori del mare e delle lagune rimasti senza la barca requisita dai vincitori, dei pastori senza cani senza greggi e senza pascoli, e in quella di chi pianse i familiari morti in battaglia o fatti schiavi dai vincitori. 1ª voce: Non basta solo credere e sperare per vedere realizzarsi i sogni. La speranza per diventare realtà ha bisogno di un lungo e duro lavoro di un grande impegno di tutti. Nella nostra tormentata storia molti hanno sopportato di vedere il sole della libertà solo al tramonto; hanno lasciato che il vento della giustizia restasse immobile dietro i monti per paura di turbare il mare calmo della loro vita e continuare a dormire senza rimorsi e senza affanno. Gli uni e gli altri hanno preferito fingere di non sapere che continuando a camminare sempre con gli stessi piccoli passi, e aspettando inerti il cambiamento, il mondo non li avrebbe mai riconosciuti come popolo.
2ª voce: Il destino di un popolo lo decide il coraggio e la responsabilità della sua gente non lo decide una storia senza protagonisti. Nessuno ha mai cambiato il destino restando rinchiuso dentro le proprie memorie nell’illusione che un giorno tutto comunque cambi e nessuno sia più costretto a servire un padrone accontentandosi, nell’attesa di avere tempi migliori, di evitare il peggio, convivendo con gli stranieri che volta a volta comandano su di loro. Per avere la libertà perduta non basta conservare i valori e le memorie delle antiche origini, ma occorre combattere e rischiare, fare cioè tutto quello che non è stato mai fatto. neppure al tempo della storia giudicale che è stata una parentesi di libertà vissuta dai sardi in una forma mai pienamente sovrana perché dovettero accettare dure dipendenze feudali e la tutela protettrice pesante e onerosa delle città marinare e delle loro grandi famiglie. 3ª voce: L’orgoglio non rende migliore una storia che si è svolta giorno dopo giorno secondo l’arrogante pretesa di gente di altre terre, di altre lingue e di altri costumi. Di una storia che ci ha visto quasi sempre, come hanno detto gli spagnoli, “pocos, locos e maleunidos” , ci ha visto come un popolo che non cerca neppure di ritrovare la sua unità perduta di riprendere il cammino e il posto di quelli che avevano costruito i grandi nuraghi di Antigori, Arrubiu, Burghidu, Domu e s’Orcu, Genna Maria, Loelle, Losa, Lagherras, Maiori, Oes, Orok, Piscu, S. Antine, Su Nuraxi, Palmavera e tutti gli altri, che nel Nord e nel Sud dell’isola raccontano la storia di un popolo forte e unito e di una terra dove per più di un millennio non è mai comparsa una bandiera straniera. 1ª voce: Il popolo dei nuraghi è scomparso in una forma ancora avvolta nel mistero ma la sua potenza è arrivata fino a noi. Nessun altro popolo venuto dopo di loro, né quello fenicio-punico, né quello romano, pisano, genovese, spagnolo è riuscito a superarla e neppure a cancellare le prove che un tempo siamo stati un popolo e una nazione gloriosa unita e potente, destinata a rinascere. Essa rinascerà a nuova vita dopo un processo che ci ha fatto diventare tutti meticci, sardi non per ius sanguinis ma per ius soli. Siamo un unico popolo e ad una sola nazione, ma siamo anche figli delle tante stirpi che hanno dato vita alla millenaria storia della Sardegna con successive sovrapposizioni, mescolanze e ibridazioni. 2ª voce: Anch’io penso che i sardi di oggi sono eredi di sangue dei nuragici ma anche di tutti quelli che si sono sovrapposti al nucleo originario in un processo che dura da migliaia di anni. Ed è in questo processo che dobbiamo cercare la forza e la debolezza dell’identità. È in questo lungo processo che si è formato il carattere dei sardi che hanno affrontato le vicende della storia, a volte con sobrietà e tolleranza, a volte senza dignità e a volte senza orgoglio a volte assorbendo il meglio di ogni esperienza. Solo il nocciolo duro dell’identità non è cambiato ed è sopravvissuto a tutti i regimi, a tutte le difficoltà e persino a tutti i cedimenti; ma molte altre cose presenti nell’origine sono cambiate. 3ª voce: Se l’identità è sopravvissuta a tutti i cambiamenti, vuol dire che le sue radici vanno cercate non tanto nella esistenza di antiche statualità originarie, o in una sovranità perdute, ma piuttosto nel fatto che tutti quelli che vivono nell’isola si costituiscono sempre come popolo che ha coscienza di essere una nazione che la storia e/o l’assenza di idonee condizioni hanno costretto a una permanente incompiutezza, fatta di precarietà e indecisione di negata statualità, e di pesanti sconfitte che hanno alimentato una coscienza infelice carica di permanente delusione e di profondi, duri, insopprimibili complessi di inferiorità per non essere riusciti a realizzare pienamente la nazione e di vedere che l’obiettivo tanto desiderato potrebbe non essere mai raggiunto . 1ª voce: Tante volte nel silenzio delle passioni il cuore si è fermato e il tempo è rimasto sospeso. Ma non per sempre. I più fedeli custodi dell’ identità nazionale hanno ripreso a tessere la tela ogni volta con più forza, più ansia, più rimpianti e maggiore sofferenza per non essere ancora riusciti a ritrovare il respiro unitario di popolo con una propria voce e una propria lingua, neppure dopo la caduta dell’Impero romano, neppure quando il latino ecclesiastico e notarile aveva lasciato libero il campo, e si è cominciato a parlare e scrivere nella lingua “volgare” del popolo per più di trecento anni. 2ª voce: La lingua sarda si affermò nei condaghi nell’uso comune e negli atti di governo, nella Carta de Logu e negli Statuti delle città. Ma ai potenti serviva conservare le distanze e continuarono a scrivere prima nell’antica lingua di Cesare e poi in quella di Spagna i preghi, i pregoni e gli atti giuridici necessari per tutelare la proprietà, rafforzare il dominio conservare tutti i vecchi privilegi, impedire la crescita di una vera identità nazionale. Dopo l’abbandono del latino Aragona e la Spagna e da ultimo il Piemonte imposero le loro lingue condannando quella sarda a diventare sempre più povera a vivere negli spazi ristretti delle relazioni private dove si è conservata fino ad oggi ma sempre più emarginata, o spesso esibita come si esibiscono le spiagge e le rocce, o per completare il travestimento di gente vestita nel costume antico dai colori sgargianti nell’illusione che l’identità e la lingua sopravvivano danzando, o vantando la sua età centenaria come segno di buona vita, migliore delle altre come i cavalli, le capre, i buoi, le vigne e gli ulivi sardi.
3ª voce: Il rischio di veder scomparire tutto ciò che siamo stati nel passato è sempre presente anzi rischia di diventare più forte proprio nel momento nel quale cresce il numero di quelli che rivendicano il diritto di diventare uno Stato indipendente e sovrano, senza accorgersi che la Sardegna assomiglia sempre di più a una cortigiana che si può avere facilmente in dono, per conquista o anche solo per denaro. Per impedire che la Sardegna perda per sempre la sua antica identità la cosa più urgente non è quella di affermare un diritto ma di combattere contro tutto ciò che contribuisce a far diventare i sardi sempre servili sempre più venali e sempre più divisi più disuniti di come sono stati nelle peggiori epoche della loro tormentata storia. 1ª voce: Tutto quello che oggi siamo è nella storia, anche la diffidenza, il sospetto, la sfiducia hanno le radici in ciò che è accaduto nel tempo. Nascono in parte dal tradimento in parte dall’inganno, in parte da promesse non mantenute, da disegni ambigui o troppo brillanti per essere veri, o troppo deboli per convincere molti a sopportare senza alcuna garanzia i rischi del cambiamento. Tutta la storia è piena di eventi che portano a diffidare e sospettare anche chi parla la stessa lingua e dichiara di riconoscere gli errori e promette di correggerli. Perché meravigliarsi se i sardi preferiscono diffidare e sospettare piuttosto che lasciarsi ingannare un’altra volta? Essi non dimenticano le tante volte che la frettolosa fiducia ha provocato la rovina delle case, il silenzio dei focolari, ha fatto diventare freddi i giacigli delle giovani vedove, ha svuotato gli armadi ha bruciato le messi e inaridito le fontane ha scavato l’abisso di lacrime nel quale ancora piange la loro anima e risuonano i lamenti dei morti, dei feriti, dei prigionieri e degli schiavi abbandonati, anche dai loro fratelli, che hanno ignorato le preghiere di aiuto preferendo seguire gli inviti dei vincitori e diventare loro alleati. 2ª voce: In ogni tempo solo pochi uomini generosi hanno dato ascolto alla coscienza quando essa chiedeva a tutti di riflettere, di ascoltare la voce degli altri, di non ripetere gli errori, ma anche di non fuggire di fronte alle prove di fidarsi qualche volta dei propri fratelli di non chiudere sempre la porta a chi propone di costruire un futuro diverso da quello conservato e tramandato, a chi afferma che non basta dire di amare la propria terra, gli uomini, le donne, le fontane, i fiumi, gli alberi e persino gli uccelli ma occorre combattere, occorre rischiare senza mai arrendersi neppure quando si scopre che le cose sono spesso andate in un modo che non sempre ci fa onore. 3ª voce: Nella storia della Sardegna ci sono anche persone che non hanno mai ceduto alla forza o alla violenta arroganza dei vincitori. Ma sono molti di più quelli che hanno preferito arrendersi, cedere, persino fare un patto scellerato per avere qualche misero beneficio ottenuto sottoponendo a un umiliante servaggio i propri fratelli. In tutti i tempi solo pochi hanno operato per mantenere le condizioni indispensabili perché un giorno il popolo sardo potesse tornare a governarsi e difendersi da solo. La gran parte dei sardi ha preferito aspettare che gli fosse regalata una patria; ha scelto di restare inerte e passiva, sperando di avere senza fatica e senza dolore quel che altri popoli hanno ottenuto con grandi sacrifici e grandi prove comuni continuando a sperare che un giorno qualcuno avrebbe alzato la bandiera della liberazione avrebbe superato le resistenze e le titubanze e cancellato dalle menti i sospetti, i dubbi e soprattutto le invidie che hanno sempre segnato la storia sarda. Per scrivere un’altra storia al posto della storia imposta dai vincitori, per avere una storia che non sia solo il racconto di una mano sofferente che cerca l’aiuto e la compagnia di un’altra mano compassionevole non sia solo il bilancio del tempo guadagnato e del tempo perduto, o più semplicemente un’esperienza imposta dai potenti, occorre molto di più di quanto fino ad ora è stato fatto. Occorre non la passione e l’orgoglio di pochi ma la volontà e l’impegno di tutto un popolo. 1ª voce: La storia ha dimostrato che senza l’impegno di tutti si può ottenere una modesta autonomia ma non evitare di essere omologati agli stati dominanti. Si può conservare una soggettualità più formale che sostanziale si può vivere una condizione che è apparentemente di forza ma nella sostanza è di debolezza perché sotto una apparente conservazione delle caratteristiche culturali, sociali e politiche raccolte nella specificità; l’autonomia spesso si è dimostrata un limite, un freno allo sviluppo, al progresso civile rispetto agli altri territori dello Stato del quale si è parte.
2ª voce: C’è sempre stato chi ha giudicato l’Autonomia più un limite che un vantaggio per lo sviluppo e il progresso. Tutti ricordiamo ciò che è successo nel 1847 quando la borghesia sarda e soprattutto i giovani studenti delle città sostennero che era ormai tempo di cancellare le differenze, diventare a tutti gli effetti uguali agli altri sudditi dei Savoia considerando la sopravvivenza degli antichi Stamenti e l’esistenza di leggi diverse, di uffici separati e di codici differenti un danno, un ostacolo da eliminare per essere a tutti gli effetti un unico Regno, una sola nazione, un solo Stato. Ma il cambiamento in meglio non ci fu, gli antichi disagi rimasero, e le condizioni civili della Sardegna non si avvicinarono a quelle del Piemonte. I sardi rinunciarono alla loro autonomia ma non divennero parte di un unica più grande nazione. Essi restarono diversi e riprese forza e vigore l’idea che solo con l’affermarsi di una nazione sarda consapevole e unita diventata Stato sovrano il destino della Sardegna sarebbe realmente cambiato. 1ª voce: Lungo tutti i millenni qualcuno in Sardegna ha sognato che essa diventasse una vera nazione – stato ma molti di più hanno sopportato tanti domini senza troppi sussulti. Hanno accettato senza grandi resistenze, lingua, cultura e leggi di altre nazioni hanno lasciato indebolire la natura e la forza dell’identità che non è mai diventata piena coscienza nazionale. La Sardegna nel suo lungo cammino non è stata solo sfortunata ma è stata incapace persino di scegliere un capo per guidarla fuori dal deserto. La storia non è stata buona con i sardi e li ha messi troppe volte alla prova gli ha fatto subire molte sofferenze li ha costretti a portare un giogo pesante. Ma questo è potuto accadere perché essi non hanno fatto abbastanza per impedire che molti di loro collaborassero con i dominatori stranieri avidi e crudeli che non avevano alcuna pietà per i vinti non si sono opposti a che la loro antica storia fosse prima offuscata e poi quasi cancellata. 2ª voce: È vero siamo noi stessi i primi responsabili. Ed è altrettanto vero che nessuno è stato capace di raccogliere la domanda del popolo nessuno dei capi si è mosso vedendo i suoi fratelli diventare sempre più oppressi e sfruttati e per impedire che un manto di nebbia si stendesse su interi secoli offuscando gran parte dei fattori costitutivi e del carattere identitario e facendoci diventare quello che ora siamo: un popolo che dice di voler tornare a essere libero e sovrano ma non combatte, non si ribella, non si unisce rimane passivo come sempre, o ancora peggio cerca di imitare i nuovi padroni costruendo nei vecchi paesi di tegole sbrecciate grandi villone, e riempiendo le piazze con gruppi vestiti di costumi sgargianti solo per rallegrare i loro giorni. Nessuno vuole più le vecchie feste, vissute semplicemente con brocche di vino, torrone tagliato a pezzi, pesce grasso di stagno arrostito nelle graticole tutto avvolto in foglie profumate di vento, spari a salve per scacciare l’antica paura canti a voce nuda senza chitarre né fisarmoniche, voci acute d’ira nella morra, insulti gridati come sfida vino e birra per tutti fino a quando ognuno non ha pagato il suo giro, gare di poesia improvvisata su palchi nella piazza, a cantare la morte e la vita, il fuoco e l’acqua, l’odio e l’amore, il ricco e il povero, la guerra e la pace, la vendetta e il perdono.
3ª voce: Nessuno vuole tornare al passato e alle sue sofferenze. Tutti hanno paura di essere sé stessi perché temono di dover tornare al duro lavoro dei campi, a quello delle tessitrici senza giusta mercede, dei conduttori di greggi costretti a passare le notti al gelo sotto le stelle, dei minatori morti sotto le frane o con i polmoni mangiati dalla silicosi, dei mietitori che hanno lavorato per un pugno di spighe, o di essere costretti ad emigrare per avere un lavoro. Le sagre in costume servono a dimenticare aiutano a essere spensierati e contenti, senza pensare di essere passati tutti al servizio di avidi e voraci invasori. 1ª voce: Del fuoco che un tempo aveva riempito le menti dei loro antenati, della fiamma dell’ira, della voglia di vendetta e dell’insofferenza contro tutti i soprusi, gli sfruttamenti, le oppressioni, le arroganti pretese, gli abbandoni e le ripetute ingiustizie, ora sopravvive solo qualche brace sotto la cenere. Nessuno vuole correre rischi: tutti vogliono essere felici e ricordano solo i tempi della gloria ma non gli antenati che vissero fianco a fianco con la fame e con la paura di vedere comparire il volto pallido della morte in pieno giorno con il sole alto, nelle notti di luna piena e in quelle di buio senza stelle, di vederla scendere dalle navi nere nel porto vestita di abiti sfarzosi o sfilare dietro le bandiere delle feste ed entrare in tutte le case, anche in quelle con le porte sprangate, o uscire dai fiumi, dagli stagni e dalle pozzanghere, sgusciare dai boschi dov’era rimasta a lungo nascosta aspettando la sua ora per colpire. Essi vogliono solo dimenticare. 2ª voce: Nessuno dimentica che i sardi sono stati a lungo infelici, disgraziati e dolenti, mai al sicuro dalla guerra, dalla carestia e dalla peste, mai privi di pena, di sofferenza e di lacrime mai in pace perché quando sembrava che il dolore stesse per mettersi da parte e la gioia cominciava a mostrare il suo sorriso giovane carico di speranza, un’ira senza motivo muoveva gli avidi signori senz’anima e senza cuore a lanciare i loro cani feroci nelle aie e nelle vigne a caccia di servi senza vestiti, senza spada e senza scarpe, coperti di piaghe e costretti a stare in ginocchio sotto il giogo crudele della miseria, dello sfruttamento e della violenza. Tutti temono ma solo pochi si preoccupano che il duro lavoro non si presenti in altre vesti e con un più insidioso dominio. 3ª voce: Abbiamo camminato a lungo nel buio non per odio alla luce ma per paura degli inganni in essa nascosti. Abbiamo scelto di fuggire lontano dalle ridenti rive del mare, lontano dalle nostre case e dalle nostre terre per non dover vivere sottomessi per non essere portati in terre straniere. Abbiamo urlato e pianto nella speranza che qualcuno di quelli che dicevano di amare la luce ci sentisse e ci soccorresse. Ma nessuno si è voltato indietro verso di noi nessuno è venuto in nostro soccorso; nessuno lungo tutta la nostra storia si è pentito di averci lasciato rinchiusi nel buio di stanze anguste a piangere sconsolati vedendo scomparire l’ultima speranza di cambiare la nostra vita. Perché sorprendersi allora se siamo diventati diffidenti e sospettosi di tutti i cambiamenti, non crediamo più a chi promette di cambiare e non abbiamo nessun desiderio di rivoltarci? Primo coro: Nella storia di oggi non c’è niente di nuovo. Il cuore degli uomini non si è commosso nel passato di fronte ai grandi disastri e non si commuove oggi ma rimane indifferente come le piante. Ieri non ha sentito le voci di dolore e di pianto che riempivano l’aria e facevano tremare l’erba. Ha ignorato le voci dei feriti, i lamenti che venivano dalle case abbandonate, dai focolari spenti, non ha risposto al grido di dolore di quanti avevano lasciato cadere la bandiera fuggendo non per paura del nemico ma perché gente della stessa terra, li aveva offesi, sfruttati e derisi peggio dei padroni stranieri perché in ogni tempo sono stati privati di tutto dai tradimenti della loro stessa gente, costretti ad andare via dalle loro case senza voltarsi indietro. Perché meravigliarsi se oggi i sardi sono stanchi e sconfortati di sentire sempre e solo lamenti e promesse ma mai urli di ribellione, gesti di rinuncia e di sacrificio e coraggiose azioni di lotta contro il nuovo servaggio?
Secondo Coro: Per lunghi anni la nostra storia <<è una notte che nasconde e che non parla>> . Una notte senza stelle e senza vento, senza lampade per rompere le tenebre che avvolgono le ombre degli antichi padri ancora padroni della propria vita, della terra, dei suoi frutti e degli armenti. Ma qualcosa intorno a noi e dentro di noi ci dice che l’identità non è morta non è scomparsa nonostante la rinuncia a combattere, e nonostante non essere riusciti a scaldare il cuore degli uomini che camminavano stanchi nella dura terra senz’acqua, pensando che il loro destino non sarebbe mai cambiato. Primo coro: Noi non siamo mai morti. Abbiamo atteso in silenzio come i mietitori che si riposano sotto l’ombra ospitale di alberi frondosi prima di riprendere la loro fatica; o come il pastore che d’inverno aspetta che cessi il freddo delle gelide notti e torni la primavera. Abbiamo atteso sperando di rinascere a nuova vita come le foglie che rispuntano sugli alberi dopo l’assalto dei bruchi famelici o del fuoco. Abbiamo atteso pazienti che il tempo cambiasse, e arrivassero tempi più generosi sopravvivendo alla furia delle spade, alla fame e alle pestilenze che hanno accompagnato sempre la nostra vita. Abbiamo atteso nascosti nei boschi delle montagne vivendo di ghiande, di mirto, di castagne, di nocciole, di bacche di corbezzolo, di erbe e di radici come gli animali, usando antiche essenze per curare le ferite dei corpi bruciati dal fuoco o tormentati dalle piaghe generate da un cibo insano; rimanendo nascosti in caverne di indistruttibile granito, vicino a fontane d’acqua chiara e a torrenti che si gonfiano d’inverno e si prosciugano nelle lunghe stagioni senza pioggia, sperando che insieme alle anatre selvatiche ricomparisse un giorno il volto ridente della libertà riconquistata. Abbiamo sopportato servitù e oppressioni malattie e morte fiduciosi che un giorno tutto questo sarebbe finito e ci sarebbe stata una vita diversa e nuova anche per noi. Secondo coro: Non abbiamo aspettato invano. Non siamo morti e non permetteremo a nessuno di cantare la nostra morte né la morte del nostro mondo che non è stato solo un cumulo di disgrazie e sofferenze ma è stato anche speranza e amore per i fratelli per i morti per i viventi, e per quelli che devono ancora nascere. Terzo coro: Nessuno potrà mai distruggere tutto ciò che ha costruito il tempo, niente scompare di ciò che è accaduto neanche le cose più gravi quelle accadute a causa delle lotte infinite tra noi. D’ora in poi lavoreremo perché nessuno si disperda, chiameremo ognuno per nome per ricordare a tutti chi siamo, chi siamo stati e chi ancora saremo. La morte ha portato via tante cose ma non la nostra coscienza di popolo che ingloba anche la morte e in qualche misura la comprende e la oltrepassa e che per questo rimane più grande di lei, continua a vivere nel tempo, di generazione in generazione, conservando tutto quel che è essenziale perché tutti possano ancora riconoscersi tra loro. Nessuno osi perciò cantare la morte di un popolo, di una nazione, di tutto ciò che noi pensiamo di essere stati e tornare presto ancora a essere. Primo coro: Per diventare popolo – nazione occorre che da tanti io nasca finalmente un “noi” : un popolo con una terra una storia una cultura una lingua. Nasca un noi che unisce, un noi che risponde solo a se stesso, che non riconosce altri padroni, un noi che abbia piena coscienza di sé, che non sia la somma di tutti gli io che lo compongono che vada oltre gli egoismi, i risentimenti e l’invidia, oltre le pretese che hanno obbligato tutti a stare sul confine che separa l’io dal noi, sempre sul punto di diventare quello che tutti anche quelli che non ci credono dicono di voler essere tenendo la mano sul cuore e le braccia spalancate per accogliere tutti gli altri io, dichiarandosi desiderosi di fare un noi ed evocato con gli occhi umidi di lacrime, ma senza mai agire, sperando in un miracolo che spazzi via i dubbi, le diffidenze e le resistenze che si sono rincorse nel tempo portando a rimproverarsi l’un l’altro l’egoismo, l’ambizione, le pretese, la venalità, la dipendenza, gli errori, i punti di vista sbagliati, tutti i peccati che ogni anima naturalmente compie nascondendoli agli altri oppure pensando cinicamente che in fondo sono condivisi da tutti quelli che dichiarano solennemente di voler diventare un popolo, cioè un solo noi. Una voce: La nostra storia è uno specchio che rimanda a chi guarda tutto ciò che è accaduto nel tempo: le sofferenze e le speranze della gente comune, l’arrogante indifferenza dei governanti le debolezze e gli errori delle istituzioni. La storia è lo specchio nel quale si riflette tutto e non solo ciò che è nato dal caso e dalla necessità, ma anche ciò che ha deciso la volontà degli uomini, ciò che ha guidato i loro egoismi, le loro ambizioni la loro viltà e la fuga. Per dire “noi” prima tutti dovrebbero sapere il come, il quando e il cosa è cambiato dovrebbero capire perché vogliono diventare un “noi” non per caso o per necessità, ma per una libera e consapevole decisione dovrebbero spiegare a tutti e prima di tutto a sé stessi cosa intendono dire con questo “noi”, chi sono coloro che costituiscono il “noi” e ne esprimono volontà e desideri sia nel tempo presente, sia nel futuro, considerando quel che è stato il loro agire nel passato. Dovrebbero verificare se nel “noi” ci possono essere le eredità dei vecchi dominatori, dei signori feudali, delle corti militari, dei padroni dei castelli, della loro arroganza e dei loro privilegi insieme alle eredità della gente senza terra, senza casa, senza alcun possesso neppure quello delle proprie braccia. Dovrebbero chiarire come il “noi” che nasce possa comporre gli interessi di segno opposto dei padroni e dei servi, gli uni rivolti a conservare gli altri a cambiare, questi a cercare di non essere costretti a vivere pensando solo alla pura, elementare sopravvivenza e quelli a mantenere il controllo e il dominio sulle cose e sugli uomini. Altra voce: Non basta neppure consultare la storia perché la storia scritta non dice tutto e non tutti gli storici raccontano nello stesso modo ciò che accadde nel tempo. Ogni storico quasi sempre racconta quello che pensa guardando le immagini del passato riflesse nello specchio della sua mente che accetta e ricostruisce il senso degli eventi interpretandoli secondo le sue credenze, scrivendo quello che serve a dimostrare ciò che lui vorrebbe fosse veramente successo. Se chi scrive appartiene ai“moderati”, è portato a vedere la storia dalla parte del re, dei principi, dei cavalieri e dei vescovi. Se invece appartiene agli “indignati” , agli sfruttati, ai caritatevoli, ai sostenitori della giustizia sociale, vedrà soprattutto ciò che serve a provare che quel tempo ignorava l’equità e la carità, tollerava dominio e sopraffazione, praticava sfruttamento, crudeltà e ingiustizia. Chi crede che la storia sia soprattutto una lotta tra classi sociali tenderà a mettere in luce le ragioni della propria classe e i torti dell’altra classe. Chi pensa invece che la storia sia quella delle Istituzioni metterà in luce il ruolo dei Re dei Parlamenti e degli eserciti. Un cristiano che crede nelle beatitudini del Vangelo, e nella pari dignità di ogni uomo e un marxista che crede nell’egemonia del proletariato e nella forza delle strutture produttive preferiranno non le ragioni dei potenti, degli sfruttatori e dei ricchi ma le ragioni dei deboli, degli sfruttati e dei poveri; non le ragioni dei violenti e degli oppressori ma quelle dei pacifici e degli oppressi. Sia chi scrive sia chi legge e pensa che la storia sia maestra di vita e guida sicura dell’agire politico, cerca nella storia ciò che più corrisponde al suo pensiero e alle sue credenze e cerca la conferma che le sue ragioni sono più giuste delle ragioni degli altri e le sue azioni più legittime esattamente come noi che crediamo nella legittimità della causa della nazione sarda e ne cerchiamo la conferma nelle narrazioni della storia rifiutando quelle che non sono come vorremmo. Altra voce: Da secoli in Sardegna tutti parlano di Arborea e di come sarebbe stato se Mariano non fosse morto nel momento cruciale e se Eleonora, se Eleonora non fosse stata solo la reggente di suo figlio e se suo figlio non fosse stato il figlio di Brancaleone. Allora si allora forse le cose sarebbero potute andare diversamente. Il mare e il tempo ascoltano in silenzio. Il vento agita le piante e fa schiumoso il mare non di rabbia e neanche di dolore ma di diffidenza e incredulità sapendo che il caso, la necessità e non la volontà umana hanno deciso il destino, senza sentire nessuno. Un acuto e sottile pensiero cerca di penetrare nel profondo abisso dei cuori dove ognuno nasconde i segreti più segreti tutti diversi e tutti uguali. Il vento tace non c’è neppure un filo d’aria. Raggi di luna inteneriti dal luccichio delle lacrime accarezzano l’onda e le foglie tenere delle piante che si ritirano pudiche e si nascondono nell’ombra scesa in loro aiuto in forma di nuvola. Quando cala il buio qualcuno, una quinta colonna forse si prepara a tradire ricordando che i sacerdoti hanno estratto il miele dai favi lasciando a lui la cera per le candele chiamando gli usignoli a cantare come hanno fatto in tutti i tempi quando li hanno visti piangere per cercare di consolarli e fargli dimenticare le disgrazie convincendoli che era meglio scegliere la mansuetudine. Non era così Maone il grande capo guerriero uscito maledicendo da Caralis all’arrivo dei fenici. Il suo cuore ardeva di furore vedendo che a notte fonda le anime dei suoi si sentivano smarrite e perdute per poi ricominciare all’alba a invocarlo cantando: Maone, Maone oh Maone portaci lontano dal mare non abbandonarci nelle mani dei nostri nemici. Maone ascolta e tace. Il vento invece diventa tenero con le foglie che cominciano a cantare dicendo andate, andate senza temere non aspettate che il sole sveli i segreti della foresta sul monte. Andate e costruite pietra su pietra le nuove torri e innalzatele al cielo metteteci dentro i vostri sogni mescolateli con quelli dei guerrieri armati di spada e scudi e alti elmi pinnati. Non temete il buio ma solo la vostra coscienza quando protesta e si lamenta perché gli manca molto il mare, gli mancano i fenicotteri rosa dello stagno e anche il sale e i polpi dalle braccia tenere da mangiare crudi la sera prima di andare a dormire e sognare un sole caldo sui grappoli di uva matura, brillante sulle foglie brune sulle cime d’argento degli ulivi, sopra il fieno giallo dei campi e sulle ginocchia delle vergini ricoperte di ghirlande di papaveri scarlatti. Nel cielo ormai vuoto di stelle anche il sogno scompare. Faville di oro fulvo e color zafferano essiccato fuggono dal cuore invaso dalle lacrime per i pensieri di tradimento e di morte comparsi negli incubi dell’alba. Forse è meglio lasciare le cose come stanno e pazienza se non vanno bene per tutti. La cosa che più conta è che ci sia comprensione per gli anziani e non importa se per questo c’è molta insofferenza tra i giovani che non capiscono perché i padri vogliano sempre il potere e non pensano che i figli siano infelici e scontenti perché gli mancano i sogni. Dall’alto della torre del vecchio nuraghe uno parla dicendo: lasciate che il tempo si disponga al nuovo; lasciate che il vento porti via le nuvole più scure perché alle altre più leggere penserete voi quando sarà il momento. Ora allontanatevi dai pozzi sacri, non destate alcun sospetto in chi teme i sacrilegi, le magie e i malefici e ha paura della vita senza padroni. Il freddo acuto del maestrale penetra nelle camicie degli anziani. I loro cigli si annuvolano severi ma tutti fanno finta di niente e continuano a guardare il mare e il luccichio dell’acqua in lontananza. Nessuno ha voglia di tuffarsi nel mare buio del tempo futuro. Sono tutti stanchi vogliono stare così « come una cosa posata in un angolo e dimenticata ».
Capitolo 3 1ª voce: Comunque la si guardi la storia resta per molte parti avvolta nel mistero. Ognuno dovrà penetrare nelle sue stanze sperando di trovarvi le ragioni che giustificano il suo agire sapendo che il passato non è mai interamente conoscibile, ma solo in parte, solo nella parte che corrisponde a ciò che uno cerca. In questo senso passato e futuro si assomigliano: inconciliabili nella loro interezza, lasciano prevedere il futuro quando esso è solo un normale, naturale sviluppo del presente che a sua volta è, in qualche modo la continuazione e lo sviluppo del passato. Pensare di costruire il futuro basandosi sulle esperienze della storia vuol dire che esso sarà molto simile a queste. Perciò tutti quelli ai quali non piaceva il passato e puntavano a cambiare il futuro secondo un orientamento diverso dalle esperienze della storia hanno adottato programmi fondati sulla profezia. Quelli invece ai quali piacevano gli elementi del passato hanno orientato il loro agire basandosi sulla prognosi, su valutazioni ponderate e fornite di prove bilanciate e misurate sugli errori e sui successi del passato. 2ª voce: Oggi in Sardegna tutti quelli che vogliono cambiare il senso della storia dovranno ricorrere alla profezia. Chi non vuole cambiare sceglierà invece un programma fondato sulla prognosi, proverà a costruire un futuro sulla base delle esperienze, e orientare ciò che deve accadere secondo modi e forme vicine a fatti già accaduti. Sceglie invece la profezia chi guarda al passato per superarlo e modificarlo, per costruire un noi che comprenda tutti, realizzando un programma di grandi cambiamenti che non siano solo la ripetizione aggiornata dei programmi già sperimentati. La Sardegna ha conosciuto quasi sempre progetti fondati sulle esperienze del passato nell’intento di costruire un futuro come prosecuzione del già nato e sperimentato e raramente progetti fondati sulla profezia. Si può dire che anche per questa ragione la questione dell’identità è rimasta parzialmente irrisolta, perché solo una visione profetica basata sulla costruzione di un futuro slegato dal passato cioè una visione totalmente altra poteva sperare di costruire quel “noi” indipendente e sovrano che inutilmente i sardi inseguono dalle origini della storia. 3ª voce: La questione è più complessa e forse sbagliamo a continuare a ragionare come se tutto dipendesse dalla politica come se la “condizione umana”, le sorti dell’uomo, la sua felicità, la sua insoddisfazione, la sua incompletezza, il suo continuo vagare come Teseo alla ricerca del vello d’oro, i suoi desideri e i suoi dubbi tutto ciò che appartiene alla sua vita debba e possa essere regolato dalle leggi, faccia parte dei diritti e dei doveri rientranti nella sfera politica. Ma così non è, così non è mai stato, né prima né dopo l’avvento della sovranità popolare. Da quando la cultura democratica ha riconosciuto che tutte le persone umane hanno gli stessi diritti fondamentali sono nati molti movimenti politici che hanno promesso di far scomparire dal mondo il dolore, l’infelicità, oltrepassando i fini tradizionali della politica suscitando in ogni singola persona, grandi aspettative violando i principi che devono ispirare l’azione politica sia nella scelta dei fini da raggiungere sia nei mezzi da utilizzare per realizzarli, ma nonostante questo non hanno mai raggiunto il loro intento. 4ª voce: Quando si parla di crisi della politica bisogna anche considerare che i nuovi fini nel terzo millennio non sono più gli stessi del 1789 e neppure del 1917. Nessuno propone infatti di realizzare il Paradiso in terra attraverso l’azione dello Stato. Se mai molti propongono di consentire ad ogni individuo di realizzare i suoi sogni limitando la sfera pubblica e ampliando quella del mercato organizzando l’espressione della volontà popolare secondo regole variabili, per avere volta a volta le maggioranze più vicine all’opinione dominante se poi è sempre quello dei più forti. In questo nuovo contesto va collocato anche il problema dell’identità della nazione sarda di come farla riconoscere, di come tutelarla di come farla diventare parte costitutiva della democrazia, di come includerla nella sfera generale la stessa cui appartengono i principi fondamentali i diritti e i doveri di ogni cittadino, il valore supremo della persona umana, della giustizia e dell’eguaglianza, nonché tutti i principi della democrazia politica e quelli della libertà religiosa. 5ª voce: Dipende dalla volontà dei più forti oltre al riconoscimento dell’identità come fattore costitutivo della democrazia anche di avere le risorse necessarie alla sua attuazione reale. L’opinione pubblica delle aree più forti non accetterà di supportare con le sue risorse gli oneri derivanti dai processi identitari dal momento che si considerano anch’esse nazioni e che ognuno deve pensare a sé stesso e in politica valgono le stesse leggi della fisica. La massa più grande attrae la massa più piccola, tutte le masse più piccole nella sua orbita dalla quale nessuna può sfuggire senza danni per tutte. È la massa più grande che determina il funzionamento del sistema decide l’orizzonte generale di senso e obbliga i satelliti a gravitare intorno al suo corpo e a seguire le stesse leggi. Dalla stella più grande provengono l’energia, la luce. La direzione del moto, i tempi del suo percorso e tutte le altre funzioni sono condizionati e regolati dalla forza gravitazionale. Anche nella vita istituzionale è naturale che il corpo più grande influenzi la vita, i costumi, le espressioni linguistiche le abitudini, la cultura e la convivenza dei corpi più piccoli i quali pur in forme e modalità tra loro diverse devono seguire le leggi fondamentali del corpo maggiore. Tutti hanno una sfera propria distinta e diversa da quella di tutti gli altri ma nessuno può sfuggire all’influenza del corpo maggiore. Uscendo dalla metafora ciò vuol dire che la nazione minore non può sfuggire all’influenza della nazione maggiore. La nazione minore può cambiare stella, può sceglierne una nuova con luce ed energia diverse e principi generali più vicini alle esigenze degli abitanti del satellite. Per evitare danni e non correre troppi rischi la cosa migliore per il satellite sarebbe poter scegliere tra diverse stelle e tra diversi sistemi secondo la convenienza. Ma questo se è possibile nella vita delle persone è molto più difficile nei sistemi istituzionali. E se l’idea di abbandonare la stella dei grandi principi ideali si potesse realizzare, questo non sarebbe senza conseguenze. Uguaglianza, libertà, giustizia potrebbero entrare in crisi e la democrazia liberale maggioritaria potrebbe diventare dispotismo democratico. Saremmo davanti a un evento fortemente reazionario. 4ª voce: Libertà, uguaglianza, giustizia sono irrinunciabili. Ma i principi, le idee e le istituzioni del XIX e del XX secolo sono diventate inadeguate, vanno aggiornate e se necessario profondamente riformate, messe in grado di affrontare e risolvere i problemi di oggi, consentire alla politica di rispondere alle domande che il potere della tecnica ha creato in tutti i campi della vita, dell’economia, della religione, della cultura, e persino dei sentimenti. Per potersi efficacemente confrontare con le nuove aspirazioni materiali e le nuove esigenze occorre modificare i contenuti della sfera politica rispetto a quelli della prima modernità. Ma questo non è senza rischi per il destino dell’identità. Diversamente da ciò che abbiamo sempre pensato l’identità e la nazione così come l’abbiamo intesa finora rischiano di essere un residuo del vecchio mondo, e non una istituzione politica del nuovo. Questo perché le frontiere dell’agire umano non sono più le stesse. Se non si tenesse nel giusto conto che il campo della politica è cambiato, è diventato grande quanto il mondo se non si partisse dall’idea che anche le specificità e le identità locali hanno cambiato ruolo e funzione, se non si capisce che esse non devono più rispondere alle domande che nascono dalla nostalgia per un passato che non può tornare se non come folclore e che se tornasse in altra forma forse sarebbe poco gradito – non solo dai gruppi dominanti, ma anche dalle nuove generazioni- non si uscirebbe dalla crisi e l’identità rischierebbe di non diventare mai un soggetto politico sovrano. 5ª voce: A tutto questo io aggiungerei che il potere politico ha perso la sacralità religiosa e quella laica, non ha più legittimazione né sacra né profana, non è né assoluto né democratico non è più Re ma neppure popolo sovrano. Nessuno sa più dire cosa veramente esso sia diventato, qual è la sua sfera d’azione che comunque si è molto ridotta perché sono sempre meno quelli che riconoscono alla politica il potere di ingerirsi nella sfera dei diritti della persona. Anche per questa ragione molti sostengono che per risolvere la crisi della politica occorra uscire al più presto dalla gabbia di ferro del passato anche rischiando di vedere trasformarsi radicalmente alcuni fondamentali elementi della democrazia liberale, tra i quali la rappresentanza, la cittadinanza l’estensione dei diritti, dei doveri, degli obblighi dei modi di essere dei principi di libertà e giustizia e per quanto ci riguarda dell’identità nazionale. Subito dopo il trionfo della democrazia e l’affermarsi dei diritti umani fondamentali, le questioni nazionali identitarie furono incluse nella stessa sfera dei diritti individuali e collettivi, allo stesso livello della sovranità popolare, dell’eguaglianza e della giustizia sociale. Ma ora tutto questo è rimesso in discussione e per dare una soluzione positiva alla questiona della nostra specificità identitaria bisogna cercare il suo fondamento non nel passato non in programmi fondati sulla prognosi ma in una profezia di largo respiro che non abbia paura dell’ignoto. 4ª voce: Andare dietro il senso del tempo è certamente molto rischioso; ma sarebbe ancora più insensato e rischioso non tener conto di tutto ciò che sta avvenendo nel mondo rimanendo fermi a contemplare il vecchio amato e/o odiato cortile di casa, che comunque sta cambiando anch’esso ogni giorno e con lo stesso segno del tempo post – moderno . È dentro il nuovo orizzonte politico condizionato dai nuovi poteri extranazionali e alimentato dalla smisurata ambizione della tecnica che bisogna collocare anche la questione sarda, le speranze, le attese e le paure, del’uomo sardo, di tutti i sardi, sia di quelli che preferiscono conservare l’attuale sistema sia di quelli che vogliono cambiarlo. Gli uni e gli altri dicono di voler diventare più liberi, rispettando i principi democratici e i valori umani, ma poi si dividono tra chi è convinto che i troppo frettolosi e improvvisi cambiamenti causino danni e portino disgrazie e ingiustizie, creano illusorie e pericolose aspettative e perciò punta a costruire il futuro sull’esperienza del passato e chi invece pur non ignorando i pericoli, sostiene con molti buoni argomenti che solo una profezia solo soluzioni totalmente nuove, non fondate sul passato, coerenti con il nuovo scenario del mondo possono farci uscire dalla crisi e fermare il declino. 5ª voce: La scelta non è facile perché la prosecuzione sulla via del passato ha dimostrato tutti i suoi limiti e la profezia, anche ammettendo l’idea che il terzo millennio non sarà uguale al secondo e che il XXI secolo non sarà come il XVIII, il XIX e il XX, da sola non basta per decidere come sarà il XXI secolo. E c’è chi dice che la storia ha conosciuto molte profezie dannose per l’uomo e per interi popoli. Gli uomini hanno creduto nel Paradiso in terra provando a raddrizzare il legno storto dell’umanità, con sistemi quasi swmpre oppressivi, oppure con nuove nazioni –stato o cercando di uscire dal piccolo spazio avuto in dono per dominare l’immensità dell’universo; tentando di scoprire gli ultimi segreti del cosmo della natura e della vita per andare oltre la morte. Ma nonostante tutto, nonostante i totalitarismi, i nazionalismi e la tecnica, l’uomo non è ancora riuscito a trovare la strada per la felicità. L’uomo non è riuscito ancora a cambiare il suo cuore non è riuscito a scoprire il modo per essere soddisfatto. La politica e la tecnica hanno cambiato gli aspetti materiali della condizione umana, ma il cuore dell’uomo e la sua mente continuano a desiderare senza fine e a pensare che si possa ottenere ciò che non si è ancora avuto colmando le carenze del sapere e superando l’improprietà dell’agire e ampliando la sfera della politica. Ma contrariamente a tutte le speranze il progresso tecnico ha reso la politica sempre più debole sia nel governo dell’economia che in quello dei rapporti sociali. 4ª voce: La prognosi da un lato e la profezia dall’altro prese singolarmente non risolvono il problema. La prima presenta molti limiti e la seconda molti rischi. La cosa più giusta sarebbe unire l’una a l’altra riuscire a oltrepassare l’esperienza senza abbandonarsi totalmente alle utopie, ma anche senza condannarle in astratto a priori rifiutandole solo per il fatto che non possono garantire al cento per cento quello che promettono. Senza la valorizzazione dell’esperienza si gioca alla cieca, senza la profezia si resta prigionieri del passato. Ogni ragionamento e ogni valutazione sullo stato presente portano però a concludere che le scelte della politica, anche quelle che riguardano la questione identitaria non possono essere più quelle di prima né nella forma né nella sostanza. 5ª voce: Prima che finisse il XX secolo dopo aver sconfitto i regimi antagonisti, fascisti e comunisti, la democrazia liberale è entrata in crisi con un declino apparentemente senza ritorno. La sovranità popolare sta rischiando di diventare il fantasma di ciò che era all’origine. Lo Stato nazionale sta consumando i suoi giorni tra processi di indebolimento e brevi ritorni di fiamma; la politica dopo la rovina della vecchia fortezza dell’universalismo ideologico, non riesce a rispondere alle esigenze crescenti del pluralismo e alle pretese sempre più pressanti dell’individualismo. Tutto quello che era solido sta diventando volatile o liquido, il vecchio universo di senso è moribondo e il nuovo è ancora informe. I suoi principi, le sue leggi e i suoi confini sono ancora troppo vaghi e incerti e ciò rende difficile elaborare idee, e progetti in linea con le nuove esigenze individuali e collettive e individuare soluzioni capaci di dare risposte adeguate alle domande di una realtà sempre in movimento. 4ª voce: Molti hanno provato a ricostruire le stanze delle vecchie case, ma al posto di una nuova casa sono nati disordinati labirinti, dentro i quali persone e istituzioni si muovono smarrite e dolenti sentendosi prigioniere in un edificio che rischia di crollare per il venir meno delle vecchie fondamenta. Della sovranità popolare innanzi tutto e dell’autogoverno; ma anche dell’uguaglianza, della libertà, della giustizia distributiva del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione in una parola di tutto ciò che era stato pensato dalla democrazia moderna per garantire la piena affermazione della persona umana. Tutto è rimesso in discussione e al posto delle vecchie certezze sta crescendo un vuoto sempre più grande affidato interamente alle cure non sempre amorevoli del mercato. Nessuno è ancora riuscito a scoprire il modo e il tempo più propizi, le forme istituzionali e le azioni per far uscire la politica da questa crisi per liberarla dalla costrizione di essere il passivo strumento di un mercato che non ha cuore né anima che non si cura delle sofferenze e delle ingiustizie che opprimono gli uomini che quando non sono nella veste di consumatori, contano meno degli alberi, delle fontane, dell’erba, dei fiori, dell’aria e del mare. 5ª voce: Questo è il problema più importante ma non il solo. I grandi principi democratici rischiano di essere messi in crisi non solo dal mercato, ma anche da chi sostiene che essi si declinino tutti nello stesso tempo e in un solo modo e non in tanti tempi e molti modi, mentre invece i principi di uguaglianza, giustizia e libertà, identità e autogoverno sviluppo equo e solidale possono essere declinati secondo visioni diverse riconoscendo la legittimità di tutte le espressioni. Questo soprattutto quando si deve decidere su questioni fondamentali che coinvolgono il pluralismo religioso, il multiculturalismo, o l’identità delle diverse nazionalità che compongono una compagine statale. In questo caso il principio di maggioranza deve lasciare il campo a sistemi più idonei già sperimentati a livello ONU e sostituito con forme di accordi e patti tra varie minoranze ognuna delle quali riconosce i diritti delle altre, attraverso una sintesi della volontà di tutte le parti che trasformano il principio maggioritario della democrazia liberale rappresentativa, fondato sulle sovranità individuali, espresse sulla base di ideologie o di interessi di classe, in un principio maggioritario che oltre alle sovranità individuali riconosce i valori identitari e gli interessi territoriali di ciascuna comunità. Si tratta in sostanza di riconoscere l’esigenza di una sovranità più articolata e complessa, capace di assicurare a tutte le identità nazionali, a tutti i popoli e a tutte le fedi religiose uguale dignità, e il diritto di scegliere legittimamente le priorità nel rispetto dei diritti fondamentali, delle politiche per la famiglia, il lavoro, l’economia, il paesaggio, la cultura, la lingua e l’istruzione. 4ª voce: La volontà di una maggioranza, fondata esclusivamente sul valore del voto individuale, non può decidere quali politiche adottare nelle materie che attengono all’identità e ancor meno su nessun dei punti che mettono in discussione l’esistenza, il ruolo e la sopravvivenza delle diversità e delle specificità etniche, linguistiche o religiose. Le minoranze devono essere rispettate e tutelate senza pretendere né imporre comportamenti contrari al loro patrimonio culturale alla loro storia, all’integrità ambientale, alle diversità derivanti da una lunga ininterrotta selezione naturale Qualsiasi cosa imposta costituirebbe una grave violazione delle pari dignità di ogni comunità sarebbe una forma di oppressione che deve essere respinta. L’identità va difesa non solo di fronte ai nuovi sovrani che dominano il mondo attraverso il controllo del mercato ma anche da tutti i tentativi di riforma fondati su presupposti errati, e dalle decisioni assunte in contrasto con i diritti derivanti dall’essere nazione. Il nuovo orizzonte generale di senso che sta avanzando nel mondo esige la tutela e il rispetto di tutte le minoranze per sé stesse e per facilitare la convivenza umana senza ricorrere a strumenti e regole imposte con la forza. 5ª voce: Il passaggio a una nuova forma più vasta di governance è resa più urgente da quando l’ambito delle competenze dello Stato nazionale a cominciato a ridursi sensibilmente rendendo una diversa dislocazione delle materie residue tra i due livelli assolutamente inadeguata per soddisfare le esigenze e le ambizioni delle nazionalità autonome e dello Stato. Molte materie che prima ricadevano sotto la sovranità statale oggi appartengono a livelli super statali o extra statali. Molte decisioni un tempo riservate alle istituzioni democratiche oggi sono lasciate al mercato e a soggetti privati che decidono senza la mediazione dei partiti oppure corrompendoli quando serve per raggiungere certi fini e poi denunciando i politici alla pubblica opinione come persone che pensano solo ai loro interessi, solo ad arricchirsi. 4ª voce: I padroni del mercato e dell’opinione pubblica utilizzano l’argomento corruzione per svuotare ulteriormente la sovranità popolare, e delegittimare i partiti e il sistema democratico nel suo complesso. Il processo in corso tende ad assoggettare i politici al potere economico rendendo i cittadini sempre meno sovrani e sempre più soggetti passivi al servizio dei padroni del mercato cioè delle strutture finanziarie internazionali, cresciute fuori dal vecchio spazio della sovranità nazionale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. I diritti fondamentali sono sempre meno tutelati, e gli interessi delle comunità e le identità minoritarie, subordinati alle ragioni del profitto e cioè del denaro. È difficile che un nuovo soggetto politico – istituzionale – identitario possa riuscire a capovolgere la tendenza dominante e ottenere che insieme alla sua storia venga rispettato tutto ciò che costituisce il patrimonio materiale e immateriale di un popolo che vuole essere nazione. 5ª voce: Da ciò che abbiamo detto emerge chiaramente che la crisi che stiamo vivendo è duplice: comprende sia l’orizzonte di senso della democrazia sia le forme dell’agire politico. Ma nonostante tutto molti continuano a pensare che le difficoltà si possano superare nei vecchi modi, con vecchi soggetti collettivi e con le vecchie istituzioni, nonostante sia ormai evidente che occorre cambiare profondamente gli obbiettivi, gli strumenti, i modi dell’agire politico, i soggetti collettivi e le istituzioni senza limitarsi a criticare e protestare e soprattutto evitando di abbandonare il campo lasciando la politica a un destino infausto. Dalla crisi però non si può uscire solo rivalutando i pilastri dell’identità e della nazione e valorizzando le sovranità e le autonomie locali. Per essere sovrani non è sufficiente il riconoscimento dell’identità nazionale. L’economia, la cultura, la tecnica la competizione e la convivenza tra le varie parti territoriali e sociali, le funzioni e i ruoli dei soggetti pubblici e privati non sono più regolati dagli Stati nazionali, dalle nazioni-stato ma da forze e da poteri più ampi tendenti a inglobare il mondo. La sovranità di un soggetto nazionale può trasformarsi in realtà solo definendo i nuovi confini delle istituzioni, della politica e della vita democratica dando più spazio a tutti i soggetti naturali restituendo ai cittadini l’esercizio effettivo del potere sovrano in condizioni di uguaglianza e di parità, ridefinendo regole e istituzioni senza oasi di privilegi e soprattutto valorizzando i soggetti minori facendoli partecipare al governo della globalizzazione attraverso nuove istituzioni e nuove forme di espressione politica. 4ª voce: Anch’io penso che questa sia la nuova frontiera della politica. Ed è di questo che si deve occupare anche chi ha a cuore la sorte del popolo sardo unendo al progetto rivolto a rafforzare e ampliare la sfera dell’autogoverno locale l’idea di utilizzare la più larga sovranità per portare avanti non una politica localistica ma una politica di respiro più vasto, aperto a tutto il mondo. Il problema oggi infatti non è tanto quello di stabilire se esista ancora una identità sarda, e neppure quello di accertare scrupolosamente se essa possa essere considerata identità nazionale; ma consiste piuttosto nel riuscire a trovare il modo per far si che le istituzioni regionali e la politica regionale siano messe in grado di assicurare una condizione di cittadinanza non inferiore a quella goduta e praticata dai cittadini delle altre zone del paese e allo stesso tempo messe in condizione di partecipare alla governance più vasta dalla quale nella società post – moderna dipenderà sempre di più non solo il rispetto dei diritti ma persino la sopravvivenza delle comunità minori. 5ª voce: Tutto ciò impone di cambiare le regole fondate sul principio di maggioranza che non garantisce la solidarietà tra le parti più ricche e le parti più deboli del paese e non assicura a tutti una uguale condizione di cittadinanza. Il principio di maggioranza portato alle estreme conclusioni rischia di uccidere la democrazia, rischia di trasformarla in dispotismo della maggioranza che poi è il dispotismo del mercato. Se non si vuole che il sistema involva gravemente ripiegandosi sempre più su sé stesso, o si perda dietro la voce delle sirene che cantano le fortune della libera competizione di mercato, occorrerà mettere chiari limiti al nuovo principe, che in forme che mutano di continuo sta esercitando la sovranità al posto del vecchio popolo sovrano. Per questo occorre valorizzare la piccola dimensione con forme di sovranità inedite espresse in diversi livelli nelle forme necessarie per rendere possibile una vera democrazia governante che salvi insieme alle singole identità locali la democrazia rappresentativa, la sovranità popolare e persino l’unità della Repubblica. Capitolo 4 4ª voce: L’io sardo che come tutti gli io dell’occidente si era illuso di essere immortale, per aver raggiunto la luna e le stelle, aver penetrato i segreti del cosmo e delle particelle elementari aver scoperto i codici genetici di ogni uomo, ed essere riuscito a violare l’intimo più intimo di ciascuno, ora sente che il destino gli sta sfuggendo e una grande insicurezza carica di paura rischia di sommergerlo. Non sa più se ha vinto o se ha perso, se quel che possiede sia al sicuro per sempre o destinato presto a perire nel possente flusso del tempo che trasforma tutto distrugge antiche credenze, crea bisogni, oggetti e desideri sempre nuovi, riduce le differenze individuali e di specie, ma non tocca la natura umana più profonda che rimane la stessa nella lunga durata, in quella dimensione senza confini mai conclusa dove gli eventi individuali e collettivi appaiono un lieve battito di ciglia, un leggero corrugarsi della fronte, un tic nervoso, una dolorosa fitta del cuore, un respiro irregolare e che presto scompaiono senza fermare il tempo e senza cambiare la sua direzione. 5ª voce: Per cambiare il corso della storia per non subire passivamente tutto ciò che accade non basta criticare il proprio tempo e auspicarne la fine. Occorre impegnarsi senza riserve, lottare senza tregua, senza scoraggiarsi vedendo che i “giusti” sono sempre meno e che solo pochi prendono posizione, lottano anche per gli altri non vivono solo per se stessi non si preoccupano solo di accumulare, prendere ostentare e consumare sempre più avidamente i prodotti della natura e della tecnica. 4ª voce: Nel mondo che diventa sempre più correlato c’è bisogno di giusti, di testimoni, di profeti, di uomini capaci di trasmettere entusiasmo e di spingere gli altri a cercare nuove mete e nuovi orizzonti; c’è bisogno di maestri che aiutino ad amare la verità aiutino a conoscere che cosa è veramente giusto, a distinguere il buono e il bello, a rifiutare il dominio della vanità e dell’apparire sempre e dovunque eternamente giovani e vincenti; c’è bisogno di sapienti che insegnino a vivere con sobrietà a combattere l’idea che il meglio consista nel possedere sempre più beni, dimenticare l’età e ringiovanire usando adeguati stimolanti e/o cambiando la propria immagine; c’è bisogno di persone che insegnino a sostituire l’invidia con la passione per la giustizia, a cambiare il mondo, lottando per gli altri a promuovere una scienza al servizio di tutti, a mostrare pietà per i vinti sostegno per le vittime delle catastrofi, delle guerre, delle malattie; c’è bisogno di gente che abbia il coraggio di rischiare per gli altri e dimostrare che solo un io giusto, un io morale, un io plurimo piuttosto che un io cinico, un io assoluto come quello oggi prevalente, può affrontare il nuovo tempo. 5ª voce: Occorre un io generoso che non si nasconda di fronte alle domande degli altri, che non pensi che curando solo sé stesso può evitare scontentezza, depressione, sofferenza, disperazione può sfuggire a tutte le altre cose che generano infelicità e insopportabili sensi di colpa. Questo io non può essere quello che alcuni chiamano io minimo, e altri io assoluto per dire di un io che non lotta per cancellare le ingiustizie, e per promuovere l’eguaglianza che non si cura degli altri e rimane solo proprio quando servirebbe la compagnia di una voce amica per rompere la solitudine e difendersi dalle false sirene che cantano e promettono la fine di tutti i mali che hanno segnato e ancora segnano il tormentato cammino della storia. Occorre un io che non si affidi al mercato non affronti da solo con folle superbia l’inquieto e tempestoso mare aperto diventato sempre più infido, non si chiuda in sé stesso dimenticando tutti gli altri io, non affronti in solitudine il labirinto incantato del tempo chiamato moderno, ma si disponga a diventare un “noi solidale” , un popolo, una nazione consapevole che un destino diverso e migliore può realizzarsi solo se voluto, costruito e condiviso da tutti gli io che compongono un “noi” consapevole sia del senso del passato come del senso del futuro. 4ª voce: Undici, ventidue, quarantaquattro ottantotto, centonovantasei. Potrei continuare all’infinito sicuro di non sbagliare mai l’ordine della serie. Questo non si può fare con la storia del passato non si ottiene la conoscenza di ciò che è successo soltanto sommando gli eventi partendo da quelli più lontani fino a quelli del secolo appena trascorso per arrivare a fatti di avantieri e ieri. Ci sono cose che non si possono sommare perché rimangono nascoste o perché vengono rimosse per non sentirsi in colpa. Non conosceremmo mai le vere ragioni che hanno causato i morti, i feriti, i prigionieri, né i sentimenti degli internati nei campi di sterminio, dei caduti per una Patria sconosciuta delle vittime inermi dei bombardamenti; delle spie al servizio del nemico, degli imboscati nelle retrovie, degli arricchiti del mercato nero. Non scopriremmo neppure le ragioni che hanno spinto a cambiare le vecchie abitudini, né conosceremo le ragioni che hanno cancellato le sicurezze, le speranze, generato i dubbi sul domani, sfiducia nei vicini, l’assenza di dolore per le disgrazie degli amici, invidiosa attesa per la vendemmia e per il raccolto degli altri, assenza di dolore per la morte di un amico. Non potremmo mettere insieme i casi della vita di un tempo dura e crudele; vissuta su un sentiero stretto da fare a piedi, o a cavallo di un asino, su un carro a buoi lento, e scomodo, paragonandolo con la vita di oggi vissuta con egoismo sleale, percorsa in autostrada ma sempre da soli cercando di dimenticare tutto ciò che può turbare il tempo. È difficile costruire un nuovo senso della vita futura sommando ciò che propone la nostalgia snervata dei laudatori del tempo antico, con tutto ciò che ha segnato per sempre la nostra anima, e ci ha fatto diventare infelici e scontenti. È difficile sommare le sofferenze, le attese e le delusioni della nostra interminabile storia di vinti con i soprusi dei vincitori e ottenere l’indicazione di ciò che serve a costruire un futuro diverso un futuro sovrano, liberato dal dominio oppressivo dei più forti. 5ª voce: Non è la somma che serve conoscere per giudicare l’esattezza del ricordo e la ragione degli eventi e per decidere le scelte del futuro. Del nostro passato non possiamo più cancellare nulla e noi siamo tutto ciò che è stato: siamo i morti, i mutilati, i dispersi; i feriti, le distruzioni, gli incendi, i saccheggi; siamo le vittime ma anche quelli che hanno acclamato i vincitori, e sopportato senza rivoltarsi le condizioni umilianti di un lungo servaggio; siamo quelli che abbiamo ucciso senza motivo e quelli che sono morti in una guerra che non volevano siamo quelli incatenati ai remi delle navi o schiavi delle miniere e quelli che abbiamo oppresso come servi della gleba; siamo quelli che a Nora, a Tharros, a Neapoli o nel Gennargentu nel nord, nel centro e nel sud dell’Isola hanno versato il loro sangue combattendo per raccogliere una sfida e quelli che combatterono a difesa dei loro oppressori nelle Fiandre, a Messina, a Barcellona, a Monzon; siamo i morti delle rivolte contro i feudatari e quelli che morirono per una patria non loro a Solferino e S. Martino; siamo i fanti della “Sassari” eroi del Carso e della trincea delle Frasche delle battaglie dei Tre Monti di Codroipo dopo Caporetto quando sfilarono tutti insieme senza disertori né sbandati, in perfetta tenuta di guerra con le armi in pugno e gli zaini in spalla per l’onore dei Savoia oltre che per il loro orgoglio ma siamo anche quelli che hanno represso gli operai in sciopero siamo i morti nei deserti di Libia, in Etiopia, in Spagna nelle brigate nere; gli internati nei lager nazisti e i collaboratori dei torturatori. Siamo gli autori di tutto del giusto e dell’ingiusto, di tutto quello che è scritto nelle pietre o nella terra intrisa di sangue, o conservato nei nuraghi, nei pozzi sacri e nelle miniere, negli altari di Monte d’Accoddi di Tharros, di Sulci, di Karalis; o nelle prigioni oscure dei castelli pisani, genovesi o spagnoli nelle galere dei Savoia. Saimo gli angioiani costretti all’esilio siamo i servi della gleba dei monasteri. Per dare un significato alla storia bisogna ricordare ogni cosa: i giuramenti e le promesse le umiliazioni, le lacrime di dolore e di vergogna e la rabbia impotente covata nei secoli. Dobbiamo ricordare anche le sconfitte prima di alzare le nuove bandiere e di suonare le campane per annunciare che è finito il tempo dell’ingiustizia, della rassegnazione e della morte, ed è arrivata l’ora del riscatto, della libertà e della giustizia per tutti. Occorre ricordare tutto quello che è successo per essere finalmente un solo popolo e una sola voce, con un solo destino e una sola patria. Tutti i cori insieme: Noi siamo noi: siamo quello che siamo stati con tutti i nostri tradimenti e i nostri inganni, i nostri cedimenti e le nostre paure; con tutte le nostre speranze e promesse senza piegare la verità come fa chi la vorrebbe altra e diversa, e preferirebbe nascondere sotto manti rilucenti gli errori gli abbandoni e le fughe. Noi siamo noi, siamo anche ciò che molti vorrebbero nascondere, siamo quelli che pensando solo a se stessi hanno ignorato la sorte dei fratelli che avevano il diritto di essere ascoltati e riconosciuti in carne e ossa, in sangue e amore. Noi siamo il presente e il passato, siamo il futuro, siamo la terra, siamo il cielo, siamo le piante tagliate, siamo tutto ciò che si brucia e si consuma, tutto ciò che si dice o si sussurra o si pensa o si canta, siamo il respiro della vita e del tempo, di quello passato e di quello presente e di quello che deve ancora venire siamo tutto ciò che si è costituito e si costituisce come un noi, come la storia di un popolo che comprende quelli che sono morti e quelli che devono ancora nascere. Noi siamo noi siamo quelli che vivono nelle città, nei campi duri e ventosi, quelli che studiano nelle scuole e lavorano nelle officine, che siedono nei tribunali o sono rinchiusi nelle carceri; quelli che faticano nelle miniere e nelle fabbriche siamo quelli che pregano nelle chiese e siamo quelli che hanno creduto solo in sé stessi; siamo quelli che sono morti nelle trincee insanguinate, quelli che hanno seguito piangenti i funerali dei loro amici e congiunti periti nella peste, o che hanno brindato nelle nozze e nei battesimi dei figli in terre lontane siamo quelli che si augurano che i figli dei loro figli tornino un giorno per sempre nella loro terra. Noi siamo tutti i figli della grande madre Sardegna nostra amata patria, dolce e amara, terra di sole e di vento, terra di mirto, e di menta, di rosmarino, di lentischio e di alloro terra di solitudine e di silenzio terra di angustie di fame e di sete, di violenza, di rapine e di saccheggi, di ferite inferte dai nemici venuti dal mare per prendersi le vergini. Noi siamo la Sardegna, terra di malinconia, d’orgoglio e di rassegnazione; siamo quelli che hanno provato sentimenti di felicità e di rivolta; siamo i figli di una terra che ha sopportato la forza di Cartagine e di Roma, l’avidità di pisani e genovesi, il duro arrogante dominio d’Aragona , di Castiglia e di Savoia. Siamo la terra che ha conservato per i suoi figli l’idea che un giorno torneranno a vivere liberi non saranno più uccisi davanti alle loro case, non morranno in guerre lontane, non saranno più incatenati ai remi delle galere, né costretti a morire di fatica nelle miniere, né consumati dalla malaria e dalla fame. Siamo i figli di una madre che ha tenuto accesi i focolari, hai impedito che perissero tutte le speranze nei lunghi anni gonfi di rabbia e di dolore, di una madre che ha aiutato i superstiti, i fuggitivi e i disperati dispersi nelle guerre a vivere liberi nei monti, ha difeso la sua antica lingua e non ha mai ceduto di fronte a quelli che hanno cercato di sottometterla per sempre. Sardegna madre dolente, «non averti amato abbastanza ti fa amare di più» ora, in questo tempo che cambia ora che il mare e il sole si rattristano perché non sono più nostri e una sonnolenza pesante rischia di avvolgere i nostri animi offuscando la memoria di ciò che siamo stati lasciando che affamate locuste umane venute da altri mari si prendano le nostre terre e le nostre case, e cielo e terra senza fatica solo con il denaro. Sardegna madre venerata noi ti invochiamo e insieme a noi ti invocano anche le anime di coloro che sono morti lontano dalla loro casa ma che tornano ogni anno a piangere sulle tombe dei familiari a cercare con affannati sospiri le memorie che avevano lasciato lacrimanti nell’ora dell’addio nelle vecchie case con i focolari spenti, i cortili deserti e le stanze chiuse; noi ti invochiamo insieme alle anime che tornano per sentire il suono degli zoccoli sul selciato al mattino presto, o per partecipare alla festa della vendemmia, per sostare nell’aia in attesa del vento, per raccogliere di primo mattino i pomodori nell’orto e preparare la conserva per l’inverno; o per cercare i funghi e le castagne nel bosco e preparare i taglieri e le corbule, o per lavare la lana prima di colorarla, filarla e poi tesserla nei pesanti telai del tempo antico. Sardegna madre nostra noi ti invochiamo insieme alle anime delle giovani donne con le brocche sulla testa simili a corone regali e con le anime di quelle che danzavano felici nei matrimoni e nei carnevali; e con le anime che tornano per sentire il vento di maestrale sul viso e le campane che suonano la gloria di Cristo risorto, annunciano il perdono e invitano tutti alla festa; con quelle che ritornano per vedere chi ha pagato per i morti ammazzati, chi ha scontato la sua pena per i tradimenti e chi ancora rimane impunito per i misfatti e chi è morto nel suo letto accompagnato dal pianto delle sue stesse vittime e chi prima di lasciare questo mondo ha finalmente riconosciuto di non essere sempre stato nel giusto, né sempre in colpa; con le anime di chi sotto l’urgere della passione si è lasciato accecare dimenticando le promesse fatte in piena coscienza liberamente senza violenza né inganni. Sardegna madre amata dolente madre noi ti ringraziamo perché tu ci hai sempre perdonato sapendo che tutti possono sbagliare e che il tempo non si ferma a vedere chi ha ragione o torto ma compie la sua opera fino in fondo lasciando che accada il bene e il male, migliorando le sorti di alcuni e devastando le vite di altri, di quelli che non si lamentano di nulla e che anche quando sospettano che qualcuno li stia ingannando o sfruttando non protestano e tantomeno si ribellano ma accettano che tutto vada come deve, come è stato stabilito da chi può fare ciò che vuole e quando vuole.
Sardegna patria amata noi siamo tuoi figli siamo quelli che come te madre non hanno mai perso la speranza neppure sotto il peso di domini crudeli e implacabili, a volte di gente straniera, a volte di gente dello stesso sangue. Noi siamo tuoi figli e con te dobbiamo lottare contro i nuovi invisibili padroni che da lontano guidano le nostre vite e ci opprimono insieme a tutti gli uomini del mondo col potere del denaro. Venerata madre fa che la memoria dei tempi gloriosi e il rimpianto delle cose perdute ci faccia ritrovare il senso di una vita vissuta nella pienezza del possesso di ciò che la terra, la nostra terra offre ai suoi figli fin dai tempi più lontani, aiutaci a impedire nuove e pesanti sottrazioni, e a respingere il compassionevole oltraggio di quelli che offrono quel che resta delle loro tavole imbandite a chi si accontenta delle briciole. Noi siamo noi. Siamo la Sardegna che nel passato solo raramente ha levato la voce alta e chiara per difendere la sua libertà e la storia di quando era libera. Siamo la Sardegna che ha dovuto sopportare umilianti servaggi per non perdere con l’onore anche la vita, per tenere accesi i focolari, per sconfiggere la fame antica, per resistere alla sfortuna che ogni volta trasformava le speranze in un pugno di polvere. Sardegna madre amata siamo i nuovi figli che vogliono costruire un futuro diverso di libertà, giustizia e pace, di rispetto e concordia fraterna, siamo i nuovi figli che combattono per far nascere finalmente un “noi”, che crede in sé stesso, crede nella sua terra nel suo cielo, nel suo mare, nella sua lingua crede nel suo ingegno, crede nella capacità e nel diritto di costruire liberamente un nuovo destino e proclamare alto e forte: «O patria ogni tua età s’è desta nel mio sangue. Sicura avanzi e canti sopra un mare famelico».
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