Intensi perimetri metropolitani [di Giovanni Campus]

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il manifesto del 21 aprile 2016. Chiamato ad aprire il recente European Regional Meeting sugli habitat urbani Jan Gehl, probabilmente l’urbanista e designer di spazi pubblici più importante e rispettato oggi al mondo (o almeno in Europa) ha dedicato quasi interamente il suo intervento a Jane Jacobs. Nel successivo incontro tematico sugli spazi pubblici di Barcellona, il 4 e 5 aprile scorsi, sono stati pochi i relatori che non hanno fatto esplicita menzione del suo nome, o almeno implicito riferimento al suo pensiero.

In entrambi questi appuntamenti, promossi sotto l’egida dell’Onu in preparazione della conferenza Habitat III per scrivere la «Nuova Agenda Urbana» e, nelle intenzioni, le linee guida dello sviluppo futuro delle città del mondo, è sembrato finalmente che a cento anni esatti della sua nascita la sua figura e il suo pensiero, dopo aver conquistato accademici, attivisti e addetti ai lavori, stiano finalmente raggiungendo anche il campo dei «decisori».

Parliamo di Jane Jacobs, nata Jane Butzner a Scranton, Pennsylvania, il 4 maggio del 1916 e vissuta principalmente fra il Greenwich Village di New York – nell’amata casa al 555 di Hudson Street – e Toronto, in Canada, di cui fece la sua seconda patria.  Priva di uno status ufficiale nel mondo accademico, consegnò i suoi interventi critici intorno ad architettura e urbanistica all’autorevole Architectural Forum. Il suo acuto spirito di osservazione e il suo approccio inedito, basato sull’osservazione diretta della vita urbana e del comportamento dei cittadini vincolato alla fisicità degli spazi, la resero presto un’interlocutrice obbligata in tutti i luoghi in cui si discuteva – e se ne discuteva parecchio, nell’America degli anni ‘50 – di ripristino, rinnovo, o «miglioramento» urbano.

Vite insorgenti. Mentre veniva accusata di mancare di basi teoriche («rimedi domestici» aveva definito le sue proposte Lewis Mumford, che pure la stimava, in un celebre articolo sul «New Yorker»), Jane Jacobs non credeva invece nella pretesa scientificità dell’urbanistica moderna, che guardava alla stregua di una serie di «formule magiche» di natura ideologica, dagli esiti non prevedibili quando non notoriamente nefasti. Eppure, oltre che autrice, Jane Jacobs fu anche attivista, lottando dalla parte dei deboli insieme a tutte le comunità urbane con cui entrò in contatto – prima nella sua New York e poi in Canada, dove si trasferì nel 1968 come atto polemico contro la guerra del Vietnam, ma anche subito dopo aver subito un arresto per «incitamento alla sommossa» durante le proteste contro la costruzione di un’autostrada che avrebbe tagliato in due la Lower Manhattan.

Fu un’epica battaglia, di cui non fu l’unica ma certamente la più celebre protagonista, che la vide contrapporsi a Robert Moses, il più influente e potente pianificatore di New York, pari per autorevolezza, e anche per la radicale durezza delle sue soluzioni, a quel Barone Haussmann – cui lui stesso si paragonava – che aveva aperto i boulevard nella Parigi di Napoleone III, spianando interi quartieri della città vecchia considerati malsani, irrazionali e pericolosi. Con lo stesso piglio Moses voleva aprire grandi strade veloci nel cuore di New York, tagliando e spianando aree storiche come appunto una parte del Greenwich Village in cui però, per sua sfortuna, risiedeva Jane Jacobs. Il progetto di Moses procedeva dunque a gonfie vele, finché non si imbatté nell’opposizione di un gruppo di cittadini, e soprattutto cittadine, costituiti nel «Joint Committe to Stop the Lower Manhattan Expressway»: «Non c’è nessuno, nessuno contrario al progetto, tranne un gruppo di mamme», avrebbe gridato in occasione di un incontro uno stupito quanto contrariato Moses proprio all’indirizzo di Jacobs.

È storia che alla fine la battaglia fu vinta dalle «mamme» e che l’autostrada urbana non si fece, anche grazie a un piano sperimentale, promosso proprio da Jacobs, che andava nella direzione opposta e proponeva di chiudere completamente al traffico delle auto l’area del quartiere attorno al Washington Square Park. Il libro cardine di Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, uscito negli Stati Uniti nel 1961 e relativamente presto tradotto anche in italiano grazie a Einaudi (Vita e morte delle grandi città, 1969) è considerato da alcuni come il singolo libro più importante nella storia della pianificazione urbana, e l’affermazione non è lontana dall’essere vera.

Liberazioni urbane. Esplicitamente polemico: «questo libro è un attacco contro gli attuali metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica» recita l’incipit, e primo fra i suoi diretti obiettivi era l’urbanesimo modernista della «Città Radiosa» di Le Corbusier, che aveva proposto una forma urbana, poi diventata canonica, concepita in funzione di una vita isolata (le celebri «unità di abitazione», che non mascheravano troppo il loro intento disciplinare) e dominata dagli spostamenti in auto. Allo stesso modo Jacobs non risparmiava critiche all’idea di «Città Giardino» propugnata da Ebenezer Howard che, apparsa anch’essa come un’utopia possibile per il risanamento materiale e morale delle città, aveva contribuito nella pratica a promuovere la forma dispersa e inefficiente dei moderni suburbi.

Accomunava queste visioni, secondo la lettura di Jacobs, l’idea di separare, insieme con le funzioni degli edifici (con quartieri per negozi, per case, per uffici) e dei collegamenti (strade per le auto, per i mezzi pubblici, per i pochi pedoni rimasti) anche i cittadini, con la falsa pretesa di liberarli, perché la liberazione era intesa solo come liberazione dai loro bisogni.

La presenza di grandi aree verdi – che pure accomunava i due disegni di Le Corbusier e di Howard – non poteva essere – e si rivelò non essere – una soluzione al «problema urbano», perché il tipo di problema che la città rappresentava era del tutto particolare. La città – dice Jane Jacobs – è una complessità auto-organizzata che procede per tentativi ed errori: toglierle con una pianificazione «ideologica» la possibilità di rigenerarsi attraverso scambi e combinazioni anche casuali significava ucciderne la vitalità e minarne il successo. La città funzionante è dunque un intensificatore di vita ed è piuttosto questo tipo di liberazione, tendente verso un incremento delle possibilità per chi le abita, che i pianificatori dovrebbero perseguire; uno dei suoi grandi lasciti da rimeditare oggi, in presenza di un’intensificazione dei fenomeni di urbanizzazione senza precedenti.

Impegno diretto. Certo il suo lavoro non è stato e non è esente da critiche. A partire da quelle originarie sulla debolezza dei suoi presupposti teorici fino ad altre più recenti che le rimproverano una certa fede aprioristica nelle capacità taumaturgiche del mercato. In effetti Jane Jacobs non mise mai in questione le strutture sociali e il predominio dell’economia (dopo The Death and Life of Great American Cities molti dei suoi successivi studi furono dedicati a questioni economiche, e lei stessa riteneva di aver dato in questo campo i suoi migliori contributi), ma valga come attenuante che il suo interesse fu sempre per il piccolo mondo della vita di quartiere, per le botteghe artigiane e un tipo di vita urbana che stimolasse la creatività.

La si è anche accusata di «depoliticizzare» i cittadini, attraverso un’idea di auto-organizzazione che rischiava di apparire meccanicistico-organicista. Ma chi le ha mosso tale critica, come sottolinea bene Carlo Olmo nell’introduzione all’edizione italiana di The Death and Life, lo fa muovendo da una concezione politica che si risolve nel modello della democrazia liberale di tipo rappresentativo. Ben diversa dall’idea – e dalla pratica – di impegno diretto promossa da Jacobs, che mostra di aver retto alla prova del tempo.

Wade Graham, quando affronta la sua figura nel recente Dream Cities, Seven Urban IdeasthatShaped the World (Harper) lo fa in un capitolo intitolato «Corals»: coralli, come le strutture che crescono e si sviluppano per azione collettiva in una forma cangiante e senza direzione.

La sua critica riguarda la possibilità di creare nuove zone urbane – nuove edificazioni – che riprendano la varietà di forme e di funzioni delle città del passato senza cadere nell’artificialità. In effetti però Jacobs non sembra parlare mai di urbanizzazioni nuove, ma sempre del miglioramento o del mantenimento di quelle esistenti, e dunque la critica è da indirizzare non tanto a lei, quanto a una parte del movimento del «New Urbanism» che anche dalle sue idee prese ispirazione.

L’urbanistica per Jane Jacobs non opera mai nel vuoto, e se dovessimo applicare il suo metodo all’espansione futura delle megalopoli dovremmo invece guardare a quella fascia di slums e insediamenti informali che le caratterizza come vita sorgente – verrebbe da dire: come potere costituente – con la sua dignità e le sue formazioni sociali spesso inedite, la cui energia e i cui equilibri sono l’energia e gli equilibri della città stessa,e non una sorta di tumore da debellare tramite l’uso ideologico della ruspa.

Ma se queste sono lezioni utili per urbanisti, per politici e studiosi di fatti urbani, cosa possiamo imparare invece tutti e tutte da Jane Jacobs? Per esempio a guardare le città con i nostri stessi occhi, ad altezza d’uomo – e più ancora di donna – e a valutare con il nostro buon senso, perché non sempre i professori hanno ragione.

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