“Casa Gramsci: Monumento nazionale cioè luogo dove l’intera nazione…riconosca il punto di inizio di una vicenda esistenziale» [di Umberto Cocco]
Bisognerebbe guardarsi un po’ indietro, alla storia di 50 anni della casa di Antonio Gramsci a Ghilarza, per non restare spiazzati davanti al riconoscimento di monumento storico nazionale che ne ha fatto la Camera qualche giorno fa. Ci sarà la furbizia dei renziani, e i meriti che attribuisce loro un articoletto del Corriere della Sera (“Il piano dei renziani per casa Gramsci”) che assegna a una deputata Pd dichiarazioni non sue, ma di Luciano Canfora e Adriano Prosperi. E hanno qualche senso i dubbi del M5s, perché un monumento storico nessuno sa come dev’essere perché venga riconosciuto con legge, e c’è sempre il sospetto di contrattazioni fra partiti, in queste leggi senza criterio, e chissà che non finisca Predappio in un eventuale scambio di riconoscimenti con la destra. Ma la proposta che lo stato riconoscesse come bene culturale, patrimonio nazionale la casa dove Gramsci ha vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, era una richiesta del Pci dai primi anni ’70, dei parenti di Gramsci, la sorella Teresina, i figli di questa, dell’associazione Amici della casa Gramsci che da Milano prese a cuore quell’abitazione a un piano al centro di Ghilarza, ne curò gli oggetti, la fece diventare un centro culturale vivo e aperto nel paese conservatore che continuava a diffidare del grande ghilarzese, con le donne che giravano a largo, all’uscita dalla chiesa, per non passarci davanti. Era la fase della santificazione che di Gramsci stava facendo Togliatti, secondo molti suoi critici, ma aveva una grandezza tragica quell’operazione, si entrava in silenzio nella casa dove i Gramsci erano stati stretti nonostante il decoro borghese dell’abitazione, “Nino” ammalato, il padre in carcere per qualche anno. Il Pci aveva comprato la casa a metà degli anni ’60, sottraendola al rischio di venire venduta e trasformata in bottega, come è accaduto a quasi ogni casa in quel tratto di corso Umberto, nel paesone che diventava centro zonale, con il suo ospedaletto, la pretura, le scuole superiori. Diventò luogo di un culto laico, la ristrutturò l’architetto Cini Boeri, il percorso museale curato da Elsa Fubini, mentre i circoli progressisti soprattutto di Milano, con il direttore della libreria in Galleria Manzoni, Vando Aldrovandi, facevano di Ghilarza un villaggio aperto al mondo, con il tramite di Mimma Paulesu, figlia di Teresina Gramsci e che aveva sposato Elio Quercioli. La casa veniva aperta tutti i giorni dall’altra figlia di Teresina, Diddi. Ci gettavano uno sguardo i vicini che se ne cominciavano a inorgoglire, a vedere i visitatori anche di fama, delegazioni da tutto il mondo; e davano una mano gli iscritti alla sezione del Pci che a un certo punto riuscirono a far eleggere un’amministrazione di sinistra nel paese dove la piazza si era riempita sino ad allora (1975) solo per i comizi di Almirante. Più che soldi, si cercava in quegli anni il riconoscimento dello stato come per un dovere risarcitorio nei confronti di Gramsci e della sua memoria, e non ci fu mai invece, nonostante tutti i presidenti della repubblica abbiano fatto visita alla casa di Ghilarza, da Pertini sino a Napolitano, i presidenti della camera, del senato, e vi si succedessero artisti, omaggi, conferenze, concerti. Poi è andata che la fine del Pci si è trascinata dietro anche questo padre, mentre cresceva l’influenza del suo pensiero nel mondo; e forse prima ancora contribuì una declinazione localistica sulle orme del Gramsci sardo scoperto da Giuseppe Fiori e che anche il Pci regionale coltivò, con un leggero fastidio per la cura “continentale” della sua memoria e dei luoghi. E’ da una ventina di anni che quella casa vivacchia, non per mancanza di soldi. Anzi, apre grazie ai soldi della Regione, dell’Unipol, della Fondazione del Banco di Sardegna e della proprietà soprattutto, la Fondazione Berlinguer che ha ereditato gli immobili che il Pci-Pds-Ds aveva nell’isola. Ma si è spenta ogni iniziativa culturale, il Pd se n’è allontanato, anche coloro che vengono dal Pci. Tuttavia è da questo ambiente che proviene l’iniziativa che ha rilanciato la richiesta allo stato di riconoscere la casa di Gramsci come un proprio bene. Anche la relatrice della proposta di legge alla Camera viene dal Pci, Mara Carocci, ligure, dirigente scolastica, e della stessa tradizione è Walter Tocci, che forse sarà il relatore al Senato. E’ stata la Fondazione Berlinguer a chiamare i deputati sardi e il Pd della provincia di Oristano a prendere l’iniziativa, dopo avere ottenuto dal MIBACT il riconoscimento della casa come edificio storico, e della raccolta di oggetti come bene culturale. Questo stesso ambiente sta per dar vita alla Fondazione Casa Gramsci proprio nelle forme auspicate da Guido Liguori sul manifesto del 22 aprile. La costituiscono la proprietà, la famiglia Gramsci Paulesu, l’Istituto Gramsci di Roma, il Comune di Ghilarza e un’associazione che sta lavorando al progetto di un parco letterario, Paesaggio Gramsci. Paradossalmente ma non troppo, è alla fine della presa del partito sull’ eredità del grande intellettuale, che si aprono spazi. Certo, per il Gramsci che a Leonardo Paggi sembra depotenziato, collocato «nel limbo dei “classici” validi per ogni (e quindi nessuno) tempo e luogo», e che può essere messo in naftalina (il manifesto del 24 aprile). Oppure rimesso sul binario giusto, da quello che uno storico come Adriano Prosperi auspicava recentemente in una recensione (del libro di Giorgio Fabre, Perché Gramsci non fu liberato, Sellerio editore): «lo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel “furibondo cavallo ideologico” (Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio». Dell’opera del grande sardo «si impadronì – scriveva Prosperi nello stesso articolo – un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore». Finirei citando un altro storico, anche lui assai poco renziano, Luciano Canfora, che ha inviato una sua memoria alla commissione cultura della Camera qualche settimana fa, dichiarandosi «profondamente convinto della opportunità» della proposta di legge, perché «E’ giusta usanza, quando si tratti di personalità di tale rilievo, attribuire ad un luogo fisico dove tali personalità compirono i loro primi passi e lasciarono durevoli tracce di affetti, un rango specifico e simbolico: quello, per l’appunto, di monumento nazionale: cioè di luogo dove l’intera nazione fisicamente riconosca il punto di inizio di una vicenda esistenziale che ha lasciato il segno».
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