Passeggiando senza smartphone [di Veronica Rosati]

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Sono poco più che bambine. Sono vestite alla moda. In quel modo un po’ infantile, ma allo stesso tempo da grande che solo se vai alle medie puoi capire. Le sneakers col calzino cortissimo si abbinano misteriosamente, ma in modo perfetto, ai leggins in tinta con la camicetta pastello. Sono tre ragazzine sedute nella panchina del parco giochi del centro che ogni pomeriggio, coi bimbi, diventa la seconda casa delle mamme dei dintorni.

Senza volerlo ascolto i loro discorsi. Smettono di parlare male della prof di italiano e commentano l’avvenenza dei loro compagni di classe. Non raccontano di uscite, di incontri, di gelati presi insieme dopo la scuola. Non fanno accenno nemmeno a sguardi, a parole dette o a sentimenti mai rivelati. Parlano solo di social network, di chat di Whatsapp, di immagini scambiate. La tecnologia dei loro smartphone di ultima generazione che tengono stretti fra le mani si è impossessata totalmente di loro. Diventa la tela e la tavolozza delle loro vite. È l’unica forma di espressione delle loro emozioni. Fino all’estremo. Ad un certo punto una di loro afferma con una sfrontata sicurezza di chi la vita la conosce: “Gli ho inviato le mie foto nuda, è ovvio che ha capito che mi piace!

Mentre rincorro il mio bimbo che fugge dietro lo scivolo, mi sento infinitamente vecchia e a disagio nel tentare di metabolizzare quei discorsi che ho rubato a quelle ragazze poco più che bambine. Lo smartphone oggi è il nostro nuovo organo vitale. Anche se le medie le abbiamo finite da un pezzo. È una parte di noi. Ha preso il posto dell’orsacchiotto di quando eravamo bambini. Bastava averlo vicino per non sentirci soli. Ci ricordava che le persone a noi care ci continuavano a volere bene anche se in quell’istante non erano lì accanto a noi.

Sono passati esattamente 30 anni dall’avvento di Internet in Italia. I media di questi giorni hanno riportato interviste ai guru del mondo del web. Hanno ricordato la palese rivoluzione che internet ha portato per l’economia e per le persone. Il futuro ci riserverà l’era ormai prossima del web 3.0. Dopo  i documenti e le persone, ora è la volta dei dati. Un oceano di dati a disposizione di tutti alla luce di una nuova democrazia ancora tutta da definire. Saranno le macchine ad attingere da questo fiume di informazioni. Lo faranno al posto nostro. Sarà l’era dell’intelligenza artificiale.

Il progresso tecnologico ha cambiato le relazioni fra le persone, distruggendo per sempre lo spazio e il tempo. La curiosità di entrare in una chat room per conoscere qualcuno pare preistoria, ormai. Non ha più senso l’anonimato nella relazione virtuale. Almeno, non nei suoi scopi più limpidi e praticati dalla maggioranza degli utenti. Su Facebook abbiamo tutti un nome e un cognome: i nostri. Su Whatsapp usiamo il nostro numero di cellulare.

Quel numero che chiamano le mamme di quelle ragazzine sedute sulla panchina è lo stesso che invia in tempo reale le loro foto più intime. La loro innocenza appare infranta in modo crudele, poiché inconsapevole. Non c’è ombra di spavalderia o di trasgressione nei loro discorsi. Il mondo va così, ormai. Le emozioni non necessitano più di parole. Pronunciate guardando negli occhi qualcuno o scritte dietro lo schermo di un pc. Ora il linguaggio è fatto di immagini o di emoticons. Faccine gialle rivelano senza troppa fatica per il mittente il proprio stato d’animo. Riempiono il vuoto dell’imbarazzo dell’incapacità di dare una risposta o, ancora più spesso, banalizzano le sfumature dei rapporti e degli scambi fra le persone.

Siamo nell’era dei selfie. Autoscatti nei quali la spontaneità è solo apparente. Senza la luce perfetta, l’occhiaia cancellata da un buon filtro non troppo appariscente, la location alla moda, non ha senso esserci. Nei più giovani il meccanismo è tangibilmente più oliato. La bellezza acerba si fa spontaneità ed irriverenza e può bastare a se stessa. Una moltitudine di scatti anche intimi sono la forma di sé che si offre all’altro. Come se quella ragazzina con i leggins e le scarpe da ginnastica non fosse altro che un insieme di foto, sempre più intime. Null’altro. L’utilizzo delle nuove tecnologie ha reso troppo labile il confine fra la mercificazione di sé e la deformazione delle emozioni causata dai nuovi linguaggi di comunicazione.

Ancora una volta il vero problema è l’uso fuori controllo della tecnologia da parte dei giovanissimi. Non è facile educare al senso del limite. È ancora più difficile spiegare la tecnologia come ad uno strumento della relazione. Essa non possiede l’unica lingua possibile del nostro stare con gli altri. Siamo in grado di amare, di raccontare di noi o di esprimere opinioni a prescindere dalla tecnologia, anche se è in essa che spesso ci raccontiamo. La sua immediatezza ha i contorni sfocati. Come accade nei selfie. Non è sempre chiaro se il viso che osserviamo nell’immagine è spontaneamente così o se è il frutto di una realtà costruita ad hoc.

Esiste fortunatamente l’umano controllo di poter selezionare e decidere la modalità attraverso cui condividere ciò che siamo. Anche nell’era dell’intelligenza artificiale dovrà esistere la libertà di custodire la parte più intima di sé. Uno strano senso di vertigine accompagna i pensieri provocati dal pezzo di vita delle tre ragazzine che ho conosciuto senza il loro permesso. La spontaneità delle loro risate mi tranquillizza ritmicamente.

Abbiamo il compito di educare le nuove generazioni alla bellezza della libertà di impossessarsi nuovamente dello spazio e del tempo. C’è una necessità urgente di ripristinare la giusta dimensione dello spazio e del tempo. In essi viviamo e amiamo, diventiamo adulti ed impariamo a conoscere, anzitutto noi stessi. Non fa niente se con la tecnologia possono essere annientati in un istante. Non è sempre e comunque necessario. Questa conquista può essere potenzialmente straordinaria. Come un pomeriggio al parco giochi senza smartphone.

 

 

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