Il comunista Piero dai gesuiti a Marchionne [di Jacopo Iacoboni]
MicroMega 2/2016, 28 aprile 2016. Di Fassino restano le profezie tutte sbagliate contro l’M5S e lo storico “abbiamo una banca” riferito allo scandalo Unipol. Negli anni è stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno inconfessabile: il Quirinale – alla fine si è dovuto accontentare della poltrona di sindaco del capoluogo piemontese: dalle giovanili del Pci alla Fabbrica, storia di un uomo che vuole blindare il sistema Torino. Un sistema dominato dalla subalternità alle banche e da un patto cinico tra il rottamatore Renzi e l’ex studente dei gesuiti. Le profezie che si autoavverano. A Torino la chiamano la «Seconda profezia di Fassino». In una seduta molto accesa del consiglio comunale, durante la quale si discuteva del consuntivo di bilancio del 2015 del Comune, davanti alle obiezioni insistenti di Chiara Appendino – la consigliera di minoranza che oggi lo sfida come candidata sindaco del Movimento 5 stelle – a un certo punto il sindaco democratico sbotta in uno dei suoi classici scatti e le fa: «Io mi sono seccato dei suoi giudizi presuntuosi, e anche fondati sull’ignoranza. Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di saper fare». Lo disse roteando le mani a palme distese, gli occhiali da presbite nella mano destra, un gesto che fa spesso come a dire «via via, toglietevi di torno seccatori». Il momento avrebbe dovuto esser grave o almeno teso, in realtà quasi tutti scoppiarono a ridere; persino i consiglieri di maggioranza seduti nelle vicinanze del sindaco. Il quale poco dopo concesse, un po’ da sovrano assoluto come nelle costituzioni octroyées: «E comunque lo decideranno gli elettori». Il fatto è che la battuta calata dall’alto era troppo simile alla più sciagurata profezia politica della storia recente della sinistra italiana, che passerà alla storia, appunto, sotto il nome di «Prima profezia di Fassino». Era il 2009, l’ultimo segretario dei Ds era ospite della Repubblica quando, intervistato su Beppe Grillo che aveva chiesto di prendere la tessera del Pd in Sardegna, rispose: «Un partito non è un taxi sul quale si sale e si scende, è una cosa seria. Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende! Perché non lo fa?». Dopo, pare di poter dire, l’ha fatto. Ma sarebbe solo una battuta, quella di Fassino. Se non fosse che è sintomatica della sordità di un’intera generazione di dirigenti dell’apparato comunista italiano, e di un atteggiamento e un tic ca-ratteriale del sindaco del Pd. Alla fine il sindaco uscente si ricandida per guidare Torino, cosa che lui deve vivere già di per sé come una sconfitta, vista la considerazione che il personaggio ha di sé, e dopo esser stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno a qualcuno confessato: il Quirinale – ed esser rimasto con un pugno di mosche in mano; ma Fassino una forma di alterigia la eredita da tutta la storia, comunista d’apparato e poi postcomunista, da cui proviene: quella totale convinzione che «il partito siamo noi», «la sinistra siamo noi» e che «ciò che è fuori di noi è comunque nulla», nulla salus extra nostra moenia. A volte la declina in modi che possono far sorridere, oppure anche aggressivi verso chi gli capita a tiro, ma è un atteggiamento di fondo, che con il renzismo, in maniera solo apparentemente paradossale, si è sposato infine benissimo (i due si sono alleati in maniera singolare, ma persino naturale, e ci torneremo). Questo atteggiamento riemerge ciclicamente nella vicenda personale di Fassino, un fiume carsico, qualcosa che non riesce mai a tenere a bada e assomiglia da vicino a una forma di arroganza del potere. Fassino del resto ci è nato, se per potere intendiamo naturalmente la segreteria del Partito comunista, quando ancora era una cosa seria e a suo modo anche un po’ terribile, o ancora prima le scuole frequentate, i gesuiti a Torino, oppure dopo, da ragazzo e poi da giovane funzionario comunista, il rapporto con la fabbrica e con il mondo della grande azienda: ovviamente, la Fiat. Fu la vicinanza alla segreteria del partito, che coltivò fin da quand’era piccolino – e forse prima ancora la scuola dei gesuiti a Torino – che gli insegnarono qual era la sua collocazione naturale; quale che poi fosse, di volta in volta, quel potere, fino ad arrivare nei momenti più involutivi della sua carriera a una forma di accorta ma anche implacabile conservazione di un sistema di potere, qual è quello che lascia la sua gestione torinese. Un comunista “contro il comunismo”? E se è vero che è di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 la foto che si porta più gelosamente dietro nei vari uffici che l’hanno ospitato, anche a Palazzo di città a Torino, bisogna pur dire che questa tendenza a riscrivere la propria storia lampeggia abbastanza spesso nella carriera di Fassino, assieme a quella parallela a cambiare opinione in base al mutare degli scenari. Il primo caso è abbastanza facile da illustrare: marcia dei quarantamila, Torino 1980. Il 26 settembre Berlinguer va a Torino e davanti ai cancelli a Mirafiori pronuncia la celebre frase sull’appoggio logistico del Pci una eventuale occupazione della Fabbrica. Il 27 ottobre cade il governo Cossiga e la Fiat trasforma i licenziamenti in cassa integrazione. Bene: se chiedete a Fassino, allora responsabile del Pci per le fabbriche, come andò quella trattativa, la sua risposta oggi è che «il Pci allora cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta», una linea che «non passò per via del clima che si era creato». Insomma, come se lui fosse da sempre stato il grande riformista disposto al saggio dialogo coi poteri e la grande industria, «nell’interesse dei lavoratori». Se fate la stessa domanda a Fausto Bertinotti, che allora era segretario della Cgil piemontese, la storia diventa tutta diversa: «Se l’hanno pensato nelle segrete stanze del Pci se lo sono detto tra di loro. Io non l’ho mai sentito». Il secondo caso – i cambi d’idea anche repentini di Fassino – può essere illustrato con un salto in avanti che ci porta d’imperio ai giorni nostri. Di Fassino su Grillo abbiamo detto, non ha cambiato idea ma è stato profeta di sventura; ma bisognerà dire anche qualcosa di Fassino e Renzi, e di Fassino su Renzi. Nell’autunno del 2012, durante le primarie tra Bersani e l’allora sindaco di Firenze in vista della candidatura a premier alle politiche del 2013, Fassino si schierò senza esitazioni con Pierluigi Bersani, guarda caso il vincitore praticamente certo di quella primarie, avendo dietro di sé le coop, le regioni rosse e tutto l’apparato; Fassino, allora, andava dicendo cose assai tranchant sul rottamatore: «Renzi? Ha una grande capacità mediatica, ma penso che il paese abbia bisogno di una guida esperta e forte. Io sono per Bersani, che ha queste caratteristiche». Poi, nella primavera del 2013 – non un secolo dopo – in seguito alla «non vittoria» di Bersani, e a metà del guado della sofferta esperienza di Enrico Letta, Renzi era diventato d’incanto «l’uomo forte che rappresenta la capacità di novità». Lo disse al Foglio, che parve il luogo migliore per registrare la conversione di Fassino sulla strada del renzismo. Grande esultanza dei berlusconiani di quel giornale, che vedevano infine sdoganata la loro storia e trasferita sul piano della presentabilità sociale a sinistra. Il voto di Torino nella prossima primavera rappresenta l’ultimo capitolo di questa conversione, e di un patto di ferro tra Renzi e Fassino che ha fatto a un certo punto sperare, al secondo, nientemeno di poter giungere al Colle; ma a Renzi Fassino serve solo per blindare il sistema Torino, e questo è: prendere o lasciare. Se vogliamo ricercare e raccontare i prodromi, o almeno i segni anticipatori, di questo patto nella storia personale dell’ex segretario dei Ds, sono appunto in questa costante esperienza fassiniana dalla parte dell’esercizio del potere; unita a quella componente di esprit sabaudo che, anziché nella vocazione gobettiana o bobbiana, s’incarna nell’attitudine militare o militaresca, dunque nell’abitudine mentale all’obbedienza da ragazzi, e al dare ordini da vecchi. Fassino lavora tanto. Sgobba, anche. Il che lo rende piuttosto diverso dai comunisti e postcomunisti romani. Non si può dire sia refrattario ai potenti. La formula è «attitudine al dialogo»: «Io mi sono occupato di Fiat per diciassette anni, e ho sempre seguito la massima: “Quando in fabbrica c’è un problema o lo risolvi tu o lo risolve il padrone”. Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni». L’esito finale di questo approccio è stato un rapporto diretto con Sergio Marchionne, con il quale capita che si vada anche a cena, sempre nello stesso ristorante, la saletta riservata al Vintage; ma insieme sono stati avvistati, non una volta sola, anche in piazza dei Mestieri, la sede della Compagnia delle Opere. La Fiat e Cl. A suo tempo vi fu, anche, un certo annusarsi – sia pure più a distanza – con Giovanni Agnelli. Quando nell’83 Fassino venne eletto capo della federazione del Pci a Torino, disse che «l’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: “Senta Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?”». Dalle chiacchierate «molto simpatiche» col sovrano al canale con Sergio Marchionne il passo è stato persino più breve del previsto. Torino si è sempre governata presidiando i vertici di questo triangolo: il Pci, la Fiat, la procura. La borghesia intellettuale della città non ha fatto altro che fare il pendolo, alternativamente, dentro questo triangolo. Gli anni del terrorismo hanno costruito uno schema che poi nel tempo s’è modificato, ma non distrutto; diciamo che s’è aggiornato. Ma a Torino la Procura ha rappresentato un elemento di questo scenario, più che un fattore di rupture, reale o possibile, come a Milano – dagli anni di Tangentopoli a oggi. L’uomo-sistema. E dire che la partenza familiare del sindaco conteneva premesse potenzialmente diverse. Il nonno materno, Cesare Grisa, socialista, e sindaco di Almese, il padre, Eugenio, capo partigiano. Il nonno paterno, Piero, ucciso dalla Brigate Nere. Anche Eugenio, suo padre, morì giovane, nel ’66, quando Fassino aveva solo 17 anni. Lo avvisano i suoi insegnanti gesuiti, e la condizione di orfano non può non aver pesato, psicologicamente, in questa biografia. C’è però un altro particolare curioso, in questa provenienza così antifascista e valsusina, di cui indirettamente bisognerà tenere conto: Fassino ha raccontato al Corriere: «Papà è stato il mio maestro di politica. Era amico di Craxi ma militava nella piccola corrente giolittiana». Bettino Craxi di cui proprio Fassino – da segretario dei Ds – avviò una sciagurata riabilitazione a sinistra. Ida Dominijanni a inizio 2006 scriveva: «Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del “politico della sinistra”, del “rivitalizzatore del Psi”, del primo leader ad aver intuito “il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale” dell’Italia, dell’uomo di Stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il “capro espiatorio” di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale “mancò allora una seria riflessione”». Lo studente dei gesuiti, il diciassettenne orfano di papà, il funzionario comunista, il politico di manovra, il segretario diessino, il rivalutatore di Craxi, l’alleato di Bersani e subito dopo di Renzi, il costruttore di una rete di potere che è quella della Torino 2016, delineano un prisma che però si unifica in un tratto: più che quello del «grande riformista», quello dell’uomo-sistema, e una fortissima ambizione sabauda, sia pure celata dai panni del gregario, dell’«onesto Fassino», del «Piero che a Roma arriva a Botteghe Oscure all’alba», o del Piero che a Torino negli anni Settanta aveva il vezzo di mettere le sedie a posto dopo le assemblee del Pci. Pochi lo ricordano, ma in tutti questi anni Silvio Berlusconi, di cui è stato straraccontato il celebre «inciucio» con D’Alema sulle riforme e sulla tv, è stato a un congresso postcomunista soltanto quando il segretario era Fassino. Accadde a Firenze, nel 2007. Fassino presentava la mozione «Per il partito democratico». Antiche amicizie – quella sua e soprattutto di D’Alema, per esempio, con Fabio Mussi o con Gavino Angius – si rompevano, e chi c’era quel giorno incredibilmente ad applaudire il segretario Piero? Silvio Berlusconi. Gli piacque molto il discorso di Fassino, il partito retto da quel piemontese di Avigliana gli riservò un’accoglienza discretamente calorosa e il Cavaliere alla fine sottolineò la «volontà coraggiosa» di Fassino, il tratto ormai compiutamente socialdemocratico dell’ormai imminente Pd che si delineava, fino a concludere: «Se è questo, al 95 per cento sarei pronto a iscrivermi pure io». Lo incrociammo mentre stava risalendo in macchina e il Cavaliere fu ancora più prodigo: «Vede, questa gente non mi odia, anche il loro segretario mi ha conosciuto e non mi odia più, chi mi conosce non mi può odiare». “Abbiamo una banca”. Che fosse in atto una mutazione politica del mondo del comunismo italiano era evidente da un pezzo, che ce ne fosse un’altra, per dirla pasolinanamente, antropologica, e dal punto di vista sabaudo, anche umana, non era così palese; almeno non nelle proporzioni. Nessuno in quei giorni ricollegò quegli elogi di Berlusconi, o la revisione del craxismo, col fatto che «l’onesto Piero» s’era incagliato, neanche un paio di anni prima, nel caso dell’«abbiamo una banca». Il 31 dicembre del 2005 il Giornale pubblicò il testo di alcune telefonate di Fassino con Giovanni Consorte, il manager Unipol che stava dando la scalata a Bnl (non distante da una parallela, grottesca scalata dei furbetti del quartierino Ricucci e Coppola nientemeno che al Corriere della Sera), e fece sensazione che Fassino – che non commise nessun illecito, non fu neanche indagato e anzi, si costituì parte civile e ottenne ragione per la pubblicazione della telefonata da parte del quotidiano di Paolo Berlusconi – con quell’«abbiamo una banca» si mostrasse anche linguisticamente così succedaneo e, ora sì, gregario, a miti e tic di un rampante capitalismo da razza padana, o addirittura razza furbetta. Dieci anni dopo i tempi dell’«unica merchant bank dove non si parla inglese» (la Palazzo Chigi attorno a Massimo D’Alema, nella celebre battuta di Guido Rossi), la sinistra dell’«abbiamo una banca» aggiungeva una variante tragicomica e altrettanto suicida, con quella battuta. La destra ovviamente la cavalcò e ci andò a nozze. Ma in quel che restava di una sinistra che avesse ancora a cuore il concetto di democrazia radicale, la cosa non poteva piacere né esser scusata. Barbara Spinelli, che per D’Alema aveva usato l’espressione di «disincanto etico», per Fassino scrisse che era un caso di «inebetita ignoranza». Da un certo punto di vista, grave più di un reato. Fassino fu sempre restio ad ammettere l’errore. Disse, al massimo: «Penso che ci sia molta cattiveria e ingenerosità nel modo in cui vengono utilizzate delle telefonate del tutto innocue. Io posso forse accettare di discutere dell’opportunità di quelle telefonate, ma non costituiscono certo né un reato né alcuna forma di illecito». Posso «forse». Le banche non erano un pallino di un momento. Se c’è una partita sulla quale, saltando per un momento all’oggi, il sindaco uscente si gioca tutto è appunto l’asse che dal comune porta a Intesa San Paolo, passando per la sua fondazione, Compagnia di San Paolo. Il comune che Fassino e soprattutto, prima di lui, l’assessore al Bilancio della giunta precedente, Gianguido Passoni, lasciano in dote al futuro è gravato di una mole preoccupante di debiti, che oggi è a quota 2,9 miliardi. Un indebitamento che grava tantissimo sulle casse del comune, costringendolo a tagli dolorosi anche nelle politiche sociali e ipotecando qualsiasi politica. Fassino ha motivato questa scarsità di risorse con la situazione di crisi generale, i vincoli di bilancio, i tagli dei trasferimenti decisi (anche) dal governo Renzi, senza mai menzionare o ridiscutere la politica di investimenti in derivati fatta dalle giunte precedenti del Pd. Ma è interessante notare come si è attrezzato per fronteggiarla: da una parte, rigorismo massimo nei conti e taglio drastico anche in servizi essenziali – perfino un’antica eccellenza torinese, come i nidi scolastici, è ormai assediata dalla carenza di risorse e con un rapporto educatori-bambini che comincia a sfiorare l’uno a sei. In alcuni nidi storici della città, per l’impossibilità economica e normativa di gestire il turn-over degli insegnanti, si può arrivare alla situazione limite: classi di 18 bimbi con due sole educatrici, uno stato di cose insostenibile e potenzialmente pericoloso. Dall’altra, c’è stato un asse sempre più stretto e ormai sempre più amicale – considerando che stiamo parlando di una città che ormai non arriva al milione di abitanti, quindi un piccolo salotto, un bellissimo centro, circondato da periferie impoverite e spaesate – col grande potere bancario della città, la Compagnia di San Paolo, primo azionista della prima banca italiana, e il più grande investitore sul territorio. Le cifre le dà l’attuale presidente, Luca Remmert, quando dice che la «Compagnia anche nell’ultimo anno è stato attore fondamentale del territorio con oltre 153 milioni di euro di stanziamenti per il 2016». In pratica non c’è quasi attività nella ricerca, nella formazione, nella scuola, persino nella salute, che a Torino di fatto non sia finanziata dalla Compagnia, anziché dal comune, la cui spesa se ne va di fatto quasi esclusivamente per la pura gestione ordinaria. Ecco perché detenerne le chiavi significa controllare il futuro politico del comune, quale che sia il sindaco che uscirà vincitore dalle urne. E qui, inesorabilmente, il sistema torinese si è compattato, facendo scudo all’idea che potesse non vincere il partito-sistema. Col pretesto che il consiglio della Compagnia andava in scadenza, e sostenendo che fosse impossibile rimandare le nomine (l’indicazione del presidente spetta per prassi al sindaco di Torino), Fassino ha iniziato una serie di pour parler il cui risultato, espresso a qualche importante interlocutore cittadino, era l’intenzione di nominare alla guida della Compagnia Francesco Profumo, rettore del Politecnico, grande amico di Fassino, e jolly del Pd in tutte le partite di potere sabaude (a un certo punto si era anche pensato di poter candidare lui, nel 2010, poi prevalse Fassino). Piccolo particolare: Profumo era già presidente di Iren, la potente società municipalizzata dell’energia di Torino, Genova e dell’Emilia, una spa quotata in Borsa (nel 2014 ricavi per 2,9 miliardi) ma anche, per vincolo statutario, a controllo pubblico. I comuni, con Torino in testa, ne decidono i vertici, e Iren a sua volta ne finanzia molte attività, con sponsorizzazioni e progetti di marketing territoriale (12 milioni nel 2014). Ecco perché il controllo di Iren e della Compagnia e l’influenza su Intesa Sanpaolo sono così strategici. Detenere, con Profumo, anche le leve dell’investimento cittadino della Compagnia avrebbe delineato un conflitto d’interessi improponibile, ma l’idea era di sondare la cosa, e magari tentarci nel più assoluto silenzio. Una denuncia di Giorgio Airaudo, che corre con una lista alternativa al Pd, e potrebbe «riaprire la partita» costringendo Fassino a un ballottaggio difficile – denuncia alla quale si è associata Chiara Appendino, la candidata 5 stelle – e soprattutto un’inchiesta della Stampa, hanno poi costretto Fassino ad annunciare che Profumo se voleva salire in Compagnia avrebbe dovuto lasciare la guida di Iren. Raccontano a Torino che un paio di giorni dopo, il sindaco fosse infuriato con Profumo, che gli aveva nascosto di essere, anche, candidato alla presidenza del Cnr. Mentre Profumo, che dopo l’inchiesta della Stampa s’è chiuso nel più totale silenzio, era arrabbiato perché Fassino non gli aveva detto niente di quell’uscita pubblica (che in effetti non era concordata) sul conflitto d’interessi del rettore. Quel giorno, a Torino, c’era con Remmert anche Giovanni Bazoli, che passeggiava ammirando le opere pittoriche della Quadreria all’educatorio Duchessa Isabella della Compagnia di San Paolo in piazza Bernini. E, un po’ distante, il segretario della Compagnia, Piero Gastaldo, legato a Sergio Chiamparino, desideroso di giocare anche lui una partita. Il Partito della nazione in salsa sabauda. In generale, il sistema della fondazioni culturali rappresenta uno dei luoghi opachi dello spoils system della città: stipendi, superstipendi, criteri di nomine, tutto finisce quasi sempre appannaggio dello stesso giro di persone, più o meno dai tempi di Valentino Castellani: centoventi bocche che si spartiscono incarichi ben pagati, e non particolarmente faticosi. Chiara Appendino, la candidata dei 5 stelle, ha promesso: «Andremo a vedere tutto, il comune farà una convenzione: per dare soldi alle fondazioni, loro dovranno rispettare criteri di trasparenza, bilancio, costi del personale. Oggi non esiste nulla, arbitrio puro. Inaccettabile, per dire, che un consigliere nominato prenda uno stipendio più alto dei manager comunali». In questi incarichi di solito il 70 per cento va alla maggioranza (di centro-sinistra), ma un lauto 30 all’ormai palesemente finta opposizione di centro-destra. Finta perché questa volta Fassino – per fronteggiare il rischio di una perdita dei voti a causa della lista di Airaudo – ha spinto oltre ogni limite la sua disponibilità manovriera: si è alleato con una serie di liste che vanno da quella di «sinistra» (diciamo) dell’ex assessore al Bilancio, a quel che resta dell’Italia dei valori, fino al sostegno esplicito di Enzo Ghigo (l’ex proconsole di Berlusconi a Torino) e di Michele Vietti, l’amico di Angelino Alfano, crocevia degli studi avvocatizi della città. La versione torinese del Partito della nazione di Renzi. Questa è insomma la Torino di Fassino, la Torino che Renzi non può permettersi di perdere perché in altre città rischia ancora di più, e perdere qui sarebbe una Caporetto definitiva; e queste alcune delle sue dinamiche non note allo sguardo più distratto, le tipiche dinamiche di un sistema di potere chiuso, che non riguarda però una bega cittadina, ma il controllo della prima banca italiana, sull’asse Torino-Milano, i conseguenti assetti di potere che ne possono derivare. Contestuale alla nomina in Compagnia ci sarà quella in Intesa San Paolo, dove l’idea è riconfermare Gian Maria Gros-Pietro. In questo quadro le elezioni torinesi sono solo un elemento della fotografia, e neanche il principale. La scena è dominata dai soldi, ipotecata dalle nomine in scadenza di mandato, offuscata da un patto cinico tra il rottamatore e l’ex studente dei gesuiti, che ha scelto di farsene perno. Una sera di carnevale del 2002, in piazza Navona a Roma, Nanni Moretti pronunciò la sua invettiva politica più famosa, «con questi dirigenti non vinceremo mai!», e fece pure il gesto di indicarli. La frase, storicamente, fu appioppata a D’Alema, ma pochi sanno che in prima fila a Roma, quel giorno, in corrispondenza del dito di Moretti c’era proprio Piero Fassino.
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