Al mercato della bellezza [di Tomaso Montanari]
La Repubblica 20 maggio 2016. Nel passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura assume un ruolo centrale – lo ha ricordato su queste pagine Stefano Rodotà – il rapporto diretto tra il capo e la folla. Questo rapporto tende a delegittimare, e quindi a far saltare, i corpi intermedi: specie quelli che non poggiano sul consenso, ma sul sapere tecnico o scientifico. Da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nel governo del patrimonio culturale italiano appare particolarmente significativo. Fin da quando era sindaco di Firenze, l’attuale presidente del Consiglio ha eletto il discorso sull’arte come terreno privilegiato del suo dialogo diretto con il popolo. La ricerca (ovviamente infruttuosa, perché affrontata fuori da ogni protocollo scientifico) della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio permise di costruire una campagna di comunicazione contro la comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte: il sindaco li definì «presunti scienziati», accusati di non essere «stupiti dal mistero» a causa di un «pregiudizio ideologico». Allo stesso periodo risale il duro giudizio sul sistema di tutela del patrimonio basato sull’autonomia tecnico-scientifica: «Sovrintendente – scrisse Renzi in un suo libro – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?». Oggi che tutto questo è divenuto programma di governo (concretizzatosi nel silenzio-assenso e nella confluenza delle soprintendenze, accorpate e avviate verso l’irrilevanza, nelle prefetture), il leader torna a parlare di arte direttamente alla folla. Renzi ha annunciato che «ci sono, pronti, 150 milioni di euro che vanno assegnati entro il 10 agosto. Le segnalazioni dovranno arrivare entro il 31 maggio. Pompei e gli Uffizi aiutano l’Italia a tornare orgogliosa di se stessa, bene! Ma abbiamo bisogno anche del piccolo borgo dimenticato o del museo abbandonato o della chiesetta da ristrutturare. E meglio ancora se un gruppo di cittadini, una associazione, una proloco, una cooperativa, una impresa innovativa si offre di gestire questi beni come luoghi dell’anima per la comunità. Dunque, scrivete a bellezza@governo.it». La semantica è esplicitamente commerciale: i monumenti devono «ripartire», come se fossero aziende; le chiese non si restaurano, ma si «ristrutturano»; i siti restaurati con denaro pubblico possono venire affidati in «gestione» indifferentemente a gruppi di cittadini o a «imprese». Alla tutela pubblica sistematica del patrimonio diffuso (prescritta dall’articolo 9 della Costituzione) subentra una sorta di lotteria in cui i cittadini sono invitati a rivolgersi direttamente al capo, ormai libero dal corpo intermedio dei professionisti della tutela e unico difensore della «bellezza». È come se si accorpassero e si depotenziassero gli ospedali e gli ambulatori dei medici di base, e poi il presidente del consiglio chiedesse di segnalare alcuni malati all’indirizzo guarigione@governo.it, dicendo che i «più votati» saranno risanati. Da un punto di vista della tutela, questa svolta significa un arretramento secolare: la rinuncia a salvare tutto il patrimonio, la scelta di concentrarsi sui grandi siti redditizi (che hanno ricevuto 850 milioni sul miliardo stanziato il primo maggio) e di destinare una quota residuale (il restante 15%) a qualche monumento minore, in una sorta di ribaltamento per cui è ora lo Stato ad adottare il format dei «luoghi del cuore» del Fai. Da un punto di vista politico questa svolta sancisce l’irrilevanza del Ministero per i Beni culturali, dimostrata dal sempre più frequente oscuramento di Franceschini da parte del premier. Da un punto di vista culturale, infine, questa antologizzazione del patrimonio attraverso il televoto significa l’abbandono della dimensione storica: Renzi aveva scritto, in quello stesso libro, che la bellezza «se è morta non è bellezza, al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». È questo il progetto del governo anche per quanto riguarda la formazione: la ministra Giannini ha spiegato che «quello che serve oggi nella vita non sono contenuti di una materia o di un’altra: per questo non abbiamo messo più ore di storia dell’arte». E nell’illustrazione ufficiale della Buona Scuola si legge che gli studenti non dovranno studiare la storia dell’arte, ma «valorizzare le nostre meraviglie artistiche all’interno dell’offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali». Che la direzione sia decisamente mercatista lo ha spiegato senza filtri la stessa Giannini, dichiarando, il 4 maggio scorso, che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica». Forse è arrivato il momento di chiederci quale sia il ruolo del sapere in una democrazia d’investitura dominata dalle richieste del mercato. |