Prima mondiale a Bruxelles della versione restaurata di “Già vola il fiore magro” [di Umberto Cocco]

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Il Belgio ricorda il 70° anniversario della grande emigrazione italiana del dopoguerra con un film appena restaurato di cui è protagonista una famiglia sarda, di Ula Tirso. “Già vola il fiore magro” di Paul Meyer, film capolavoro del cinema sociale europeo, premiato da una giuria composta da Zavattini, De Sica, De Sanctis e Rossellini nel 1960 appena uscito, e subito ritirato dal governo belga perché non raccontava quello per cui era stato commissionato dal Ministero dell’Istruzione  pubblica – e cioè la felice integrazione fra gli emigrati che dal 1946 affollavano le baracche del Borinage –  torna dopo il restauro ad opera della Cinematek Royale (con i fondi della  Baillet-Latour e in parternariato con l’Istituto Italiano di Cultura) ed è al centro delle manifestazioni per questa ricorrenza in Belgio.

La Sardegna starebbe a guardare, se non fosse per il Comune di Ula Tirso e l’Associazione Paesaggio Gramsci che stanno proponendo  il film da alcuni mesi con il contributo della sola Fondazione di Sardegna, nelle cui sale a Cagliari è stato proiettato il 13 aprile scorso nella malandata versione in dvd disponibile sino ad allora.

La prima mondiale della versione restaurata di “Già vola il fiore magro” (da un verso di una poesia di Quasimodo) è in calendario mercoledì prossimo, 1° giugno, nelle sale del Palais du Beaux Arts (Bozar)  di Bruxelles, presente il direttore della Cinematek, Nicola Mazzanti, l’ambasciatore italiano Vincenzo Grassi e Claire Meyer, figlia del regista morto nel 2007, ed è in programmazione per tutto giugno e sino al 7 luglio nelle sale fra gli altri del cinema Flagey, nella stessa capitale del Belgio.

Fortunata coincidenza: mentre il Comune di Ula Tirso in solitudine per un bel tratto arrancava a promuovere in Sardegna il ricordo di una delle migrazioni più dure, che portarono decine di migliaia di sardi nelle miniere del Belgio, e azzardava l’idea di lanciare una sottoscrizione chiedendo aiuto al governo italiano per il restauro del film, è arrivata la notizia che all’operazione avevano pensato in Belgio gli eredi di Paul Meyer e la Cinematek di Bruxelles. Così è possibile che a Ula Tirso il 23 giugno, ricorrenza del giorno della firma degli accordi fra De Gasperi e il governo belga, venga data una versione dell’opera basata sulla pellicola restaurata.

Il film arrivò in Sardegna, a Carbonia e a Cagliari nel 1994-’95, quando il regista lo rimise insieme dopo averne riscattato i diritti, ormai anziano e dopo avere impiegato la sua vita di cineasta a restituire i soldi anticipati per la produzione, che il governo belga gli aveva chiesto indietro. Fu un grande successo nelle città europee dove si potè vedere.  A Ula Tirso, a Sindia, a Siniscola, non è mai arrivato; eppure di questi paesi sono originari i protagonisti.

Alcuni di loro erano a Cagliari il 13 giugno: bambini quando il film venne girato, avevano un vago ricordo delle riprese fra le baracche dove abitavano, nel Borinage. Pietro Sanna è il minatore attorno a  cui ruota la storia: è lui che aspetta alla stazione di Flénu che lo raggiungano la moglie e i figli piccoli, mentre un compaesano sta tornando indietro, in Sardegna, in fuga da quell’inferno.

Non c’è mai nessuna indulgenza verso la rappresentazione cruda della vita terribile nei pozzi, dove la cinepresa non penetra mai, limitandosi a sfiorare l’imboccatura della miniera quando un ragazzo va ad aspettare il padre all’uscita. Il racconto è a tratti anche lieve, con i giochi dei bambini nelle scarpate delle discariche, le chiacchiere fra donne, i balli sul palco nel giorno di festa, l’apprendimento del francese con i buoni maestri del tempo, una bellissima scena in cui tutti in mensa intonano “Marina”, canzonetta italiana di un emigrato come loro, Rocco Granata.

Ma domina tutto il realismo della vita nelle baracche di lamiera, che avevano ospitato fino a pochi anni prima i prigionieri dei nazisti e poi i tedeschi sconfitti. E quando lo sguardo si alza sull’orizzonte, è un’impressionante distesa di carbone che si svela, che sembra negare qualsiasi speranza ai ragazzi ai quali un uomo mostra questa desolazione dall’alto di una collina.

Il mood è la malinconia scorata di Pietro Sanna davanti al rimprovero della moglie per averle taciuto la verità sulla vita, la casa che li aspettava, lei e i suoi figli, e la tristezza di chi vuole tornare sapendo che i paesi d’origine sono in rovina dopo la guerra, e in preda alla miseria.

C’è in quella epopea che la Sardegna fa fatica a ricordare, e nel film, nonostante tutto il primo embrione della cittadinanza europea, come dice qualcuno. Ricordano volentieri i minatori, oggi ottanta e novantenni. Li stanno intervistando per il progetto “Uomini contro carbone”, Simone Cireddu e Barbara Pinna; l’ultimo, l’altro giorno, Antonio Daga di Sindia: anche lui sapeva di essere nel film di Meyer, appena arrivato a Flénu e con la moglie incinta, che avrebbe perduto dopo qualche anno, quarantaduenne.

Sono storie dolorose ma non gli sembra vero che qualcuno mostri interesse per loro, e vengono fuori lo smisurato orgoglio dei minatori che la Sardegna già conosce dal Sulcis, ma anche altre inattese risposte: il rimpianto per essere tornati, e non essere rimasti lì, in un paese che in fondo ha saputo accogliere i figli e i nipoti.

 

 

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