L’America e il caso Trump. L’uomo forte e le democrazie [di Zygmunt Bauman]
Il Corriere.it 27/05/2016. Perché le società in declino puntano sui nazionalisti che vogliono chiudere le porte. Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un Uomo (o Donna) forte. Come suggerisce Robert Reich, nel suo «Donald Trump e la rivolta della classe ansiosa», quello spettro (che nel caso in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce (proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo) dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando «la grande classe media americana», oggi impaurita dalle «elevatissime probabilità di finire in miseria». Due terzi dei cittadini americani oggi vivono con i soldi contati e la stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un momento all’altro. Molti ingrossano le file della manodopera «a chiamata» — lavorano cioè quando sono necessari, si accontentano dei compensi che gli vengono offerti, a discrezione del datore di lavoro. Eppure, queste stesse persone, nel momento in cui non riescono più a pagare l’affitto o il mutuo della casa, rischiano di precipitare nel baratro. Questi «due terzi degli americani» sono costretti a camminare sull’acqua, squassati da venti di tempesta non meno impetuosi di quelli che agitavano il Mar di Galilea, descritti nel Vangelo di Matteo. Nelle parole dell’evangelista, camminare sulle acque era una questione di fede: ma oggi la «classe ansiosa» di Reich non sa più in che cosa riporre la sua fiducia. «Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro, impedendo che le aziende delocalizzino in Asia oppure che i posti di lavoro vengano presi da immigrati clandestini disposti a lavorare per meno». «Trucchi da impostore». Tuttavia, osserva Reich, affidarsi all’onnipotenza dell’uomo forte rappresenta un «sogno impossibile», e se Trump è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’elettorato, lo ha fatto ricorrendo a «trucchi da impostore». Eppure, la chiamata a raccolta della «classe ansiosa» per stringersi attorno al mago, che li inganna facendo balenare ai loro occhi quel sogno impossibile, non rappresenta necessariamente una reazione scontata e inevitabile. La risposta alla domanda posta di recente da Joseph M. Schwartz, professore di Scienze politiche alla Temple University — «La classe media e i lavoratori bianchi, oggi in difficoltà economiche, sono pronti a seguire la politica razzista e nazionalistica di Trump e del Tea Party (convinti che il gioco sia tutto predisposto a favore delle fasce più povere della popolazione di colore), oppure si uniranno per dare battaglia contro le élite imprenditoriali, che hanno sancito l’annientamento della classe operaia?» —, non è per nulla ovvia. Come suggerisce Schwartz, un sondaggio effettuato da New York Times/Cbc News «appena prima del discorso del senatore Bernie Sanders alla Georgetown University sul socialismo democratico il 19 novembre 2015» rivela che il 56% degli elettori storici del partito democratico erano favorevoli al socialismo, contro il 29% dei contrari, e questo ci consente di ipotizzare che «la maggior parte degli intervistati associ il capitalismo con la disuguaglianza, l’eccessivo indebitamento per gli studi universitari e un mercato del lavoro stagnante. Costoro vedono invece nel socialismo una società più giusta e ugualitaria». Dalle attuali difficoltà in cui si dibatte la «classe ansiosa» (oppure i ranghi sempre più affollati del «precariato»), scaturiscono molteplici scelte politiche. Una di queste fa appello a un uomo forte; l’altra, a un popolo forte. La paura cosmica. Nelle parole del grande filosofo russo, Mikhail Bakhtin, tutte le potenze terrestri si alimentano e prosperano sulla diffusione di «timori cosmici», i quali possono essere innati o endemici per gli esseri umani: ciò vuol dire il timore davanti a tutto ciò che è sconfinato e potente; davanti al cielo stellato, la mole materiale delle montagne, il mare, la paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali istillata da antiche mitologie, credenze, immaginazioni, persino la paura delle lingue e dei modi di pensare a loro connaturati… questo terrore cosmico, in senso stretto anziché mistico (trattandosi di timore di tutto ciò che è materialmente grande e rappresenta una potenza difficile da definire) viene sfruttato da tutte le grandi religioni per reprimere la persona e la sua coscienza, trasformandola in una variante artificiale e volutamente «ufficiale». Nel suo studio delle complesse relazioni tra i gestori terrestri della «paura ufficiale» e i soggetti nei quali si inducono questi timori, ricorrendo all’aiuto de «Il processo» e de «Il castello», i due celebri romanzi di Franz Kafka, Roberto Calasso dimostra che l’azione della «paura ufficiale» è tutt’altro che semplice e immediata. «Se i cittadini avessero sentito gli esegeti de “Il castello” dilungarsi su Dio e divinità e su come questi interferiscono nella loro vita, avrebbero reagito con sdegno», suggerisce Calasso. Si sarebbero risentiti dei tentativi colti di paragonare gli occupanti del Castello a Dio o ad altre divinità a loro ben note per gli insegnamenti religiosi ricevuti. «Come sarebbe facile trattare con gli abitanti del Castello se, come nel caso di Dio, bastasse studiare un po’ di teologia e affidarsi alla devozione — potrebbero pensare. Ma i funzionari del Castello sono assai più complessi. Non esiste scienza né disciplina che possa aiutarci a trattare con loro». Difatti i sistemi religiosi — che secondo Bakhtin rappresentano i primi tentativi per riciclare il timore «cosmico» in un timore «ufficiale» (in altre parole, fabbricare la «paura ufficiale» sullo stampo di quella «cosmica», e capitalizzando allo stesso tempo sulle fondamenta già predisposte dalle fonti primordiali e originali della paura) — tendevano ad assicurare la sottomissione e l’obbedienza dei soggetti con la promessa (spesso disattesa per quantità e qualità in confronto a quanto stipulato) di ricette infallibili per attirare la grazia e i favori divini, o per placare la Sua collera qualora ogni sforzo per rispettare i Suoi dettami alla lettera si fosse dimostrato, all’atto pratico, troppo difficile e oneroso. Senza perdere nulla della sua temibilità, a Dio si poteva parlare — a differenza delle fonti mute e ottuse della paura cosmica. Dio poteva essere pregato, implorato, scongiurato, tramite parole e azioni, per impetrare il perdono dei peccati e la ricompensa delle virtù. E a differenza della Natura sorda e cieca, Dio magari poteva ascoltare, ed esaudire i voti dei peccatori contriti. Le chiese, plenipotenziari terreni dell’autorità divina, spiegavano meticolosamente, fin nel minimo dettaglio, il codice di condotta indispensabile per indurre Dio, con un gioco simultaneo di benedizioni e tribolazioni, ad esaudire il credente. Doloranti sotto i colpi del destino, le vittime dell’ira divina sapevano esattamente che cosa fare per meritarsi la redenzione. Quando la redenzione tardava ad arrivare, si convincevano di aver mancato di zelo, e pertanto si ritenevano colpevoli di una manchevolezza facile da correggere. Potere e «delega» alla società. Ma questo è esattamente il dispositivo che la paura ufficiale, nella sua veste moderna, arruolata e dispiegata nuovamente in campo dai poteri politici laici, respinge nella pratica — anche se ben di rado si sottrae alla tentazione ipocrita di esaltare a parole i suoi precetti. In un’aperta violazione dell’intenzione e promessa moderna di sostituire i ciechi giochi del fato (cioè quel divario irritante e confuso tra le azioni umane e le loro conseguenze sia per coloro che le compiono che per coloro che le subiscono) tramite un ordine di cose coerente e relativamente inequivocabile, guidato dai principi morali di giustizia e responsabilità — pertanto assicurando una stretta corrispondenza tra la situazione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani e le loro scelte di comportamento — gli uomini di oggi si ritrovano esposti a una società traboccante di rischi e al contempo vuota di certezze e di garanzie. Due nuove circostanze ci invitano a ripensare e, se non a correggere, perlomeno a integrare il modello di Bakhtin. La prima è l’«individualizzazione» su vasta scala — un nome in codice che vede nel potere costituito un’immagine complessiva della «società» che mira a «delegare» il compito di affrontare i problemi innescati dall’incertezza esistenziale sui singoli individui e sulle loro risorse del tutto inadeguate. Nelle parole dello scomparso Ulrich Beck, oggi si addossa agli individui la responsabilità irrealizzabile di trovare, da soli, le soluzioni ai problemi generati dalla società. Lo spettro che si aggira in una società di attori-per-decreto incarna l’orrore che si prova nel trovarsi inetti e inefficaci; come pure il terrore dei suoi effetti immediati, la perdita di autostima e le sue probabili conseguenze: l’emarginazione e l’esclusione. Come generatori di paura ufficiale, i detentori del potere si affannano a ingigantire le incertezze esistenziali che hanno dato forma allo spettro e perennemente lo ricreano; i detentori del potere puntano a fare qualsiasi cosa per rendere quello spettro il più tangibile e credibile — il più «realistico» — possibile. Dopo tutto, la paura ufficiale dei loro soggetti è ciò che, in ultima analisi, li mantiene al potere. Tuttavia, in una società disgregata e ridotta a un ammasso di attori individuali (costretti a fingere la loro autosufficienza), i detentori del potere potrebbero anche essere tentati di appoggiarsi sempre di più su di noi, i loro stagisti insicuri, precari, non retribuiti e non tutelati, che vivono la loro vita frammentata in una società la cui frammentazione è da loro voluta, alimentata e giornalmente riprodotta. Avendo attraversato le incarnazioni religiose e politiche della «paura ufficiale» della «società disciplinata», la paura cosmica che emana dalla dolorosa fragilità e finitudine delle capacità cognitive e pragmatiche si è calata nella «società di attori» nell’arena della «politica della vita» (definizione di Anthony Giddens) ed è atterrata sulle spalle dei praticanti individuali di quella vita. Stretti tra l’infinità di opzioni e tentazioni presumibilmente accessibili, come pure le sconfinate richieste rivolte all’individuo che si presuppone «autonomo, capace e risoluto» , stimolati a «sforzarsi incessantemente a migliorarsi» da un lato — e dall’altro la scarsità di risorse a disposizione, messa tristemente a nudo dalla grandiosità pura e semplice di quella sfida — agli attori-per-decreto, tormentati dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, non resta altra scelta che quella di invocare la salvezza dall’imminente depressione rivolgendosi «alle loro divinità». Nelle parole memorabili di Ulrich Beck, «alle divinità da loro scelte». Ma questo scambio di appartenenza ha fatto ben poco per mitigare sia l’assillante ansietà generata dalla precarietà ovvia del loro stato esistenziale, sia il dolore dell’autocensura e dell’autocondanna per non essere riusciti nemmeno a fermare — figuriamoci invertire — il suo progressivo aggravarsi. Immigrazione e razzismo. La seconda circostanza nuova è l’erosione della sovranità territoriale delle attuali unità politiche, provocata dal processo oggi in corso della globalizzazione del potere (ovvero la capacità di realizzare certe cose) cui non è seguita la globalizzazione della politica (ovvero la capacità di decidere quali cose debbano essere realizzate), ottenendo come risultato una discrepanza irritante tra gli obiettivi e i mezzi a disposizione per un’azione efficace. Il risultato è la scomparsa delle cause della «paura ufficiale» dal modello tratteggiato da Bakhtin: invisibili e irraggiungibili a tutti gli effetti, esse sono — proprio come le fonti della «paura cosmica» — mute e ottuse. A grande distanza dai richiedenti, esse restano sorde alle loro istanze generiche, per non parlare delle loro specifiche richieste. La maggior parte dei loro soggetti sono tagliati fuori dalle comunicazioni — e sempre in maggior numero hanno perso, o stanno perdendo rapidamente, ogni speranza di dialogo sensato con le istituzioni. Eric Hobsbawm, uno degli storici più acuti dell’era moderna, intuiva già, un quarto di secolo addietro (ben prima dell’attuale «crisi dell’immigrazione», e ancor prima che si diffondesse l’odierna consapevolezza della nuova «globalità» della condizione umana) che «l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché si fondano su movimenti massicci e variegati, migrazioni e spostamenti di popolazioni, erodono il concetto nazionalistico di base per cui un territorio è abitato essenzialmente da una popolazione omogenea per etnicità, lingua e cultura. Xenofobia e razzismo rappresentano il sintomo, non la cura. Le comunità e i gruppi etnici nelle società moderne sono destinati a coesistere, qualunque sia la retorica che fa balenare il sogno del ritorno a una nazione pura». «Ogni volta — prosegue Hobsbawm — i movimenti di identità etnica sembrano scaturire da reazioni di debolezza e di paura, tentativi per innalzare barricate atte a tenere a bada le forze del mondo moderno… Ciò che alimenta queste reazioni di difesa, contro minacce reali o immaginarie, sono gli spostamenti di popolazioni internazionali che si accompagnano a drammatiche trasformazioni socio-economiche, senza precedenti e ultraveloci», trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti ai nostri giorni. «Dovunque viviamo, in una società urbanizzata, incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati dai loro Paesi, che ci richiamano alla mente la fragilità e il decadimento delle nostre stesse radici familiari». «Loro, gli stranieri — ci ricorda Hobsbawm dall’aldilà —, saranno accusati di tutte le nefandezze, incertezze, disorientamento e confusione che molti di noi provano, dopo quarant’anni di sconvolgimenti così rapidi e profondi da risultare senza precedenti nella storia umana». Come dicevano i nostri antenati, «la storia è maestra di vita», un insegnamento, questo, che stiamo dimenticando a nostro rischio e pericolo. Per assicurare la nostra sopravvivenza, ascoltiamo quella maestra; leggiamo e rileggiamo l’opera cardine di Hobsbawm, «Nazioni e nazionalismi dal 1780», in cui ci insegna che le società in declino puntano tutte le loro speranze su un salvatore, su un uomo (o una donna) della provvidenza, e sono alla ricerca di un nazionalista risoluto, militante e battagliero: qualcuno che promette di spegnere l’interruttore del pianeta globalizzato, di sbarrare quelle porte che già da tanto tempo hanno perso — o a cui sono stati rotti — i cardini, rendendole inutilizzabili. La verità è che le scorciatoie suggerite dagli uomini e dalle donne forti che aspirano al governo restano assai seducenti, per quanto fuorvianti. Tratteggiano una visione di ripristino e riappropriazione di tutto ciò di cui un numero crescente dei nostri contemporanei avverte la mancanza nella politica odierna, contraddistinta da una carenza progressiva di potere, incapace pertanto di impedire i danni arrecati da elementi che si sottraggono al suo controllo, pronta a ignorare, o a distruggere sul nascere, ogni tentativo messo in atto dai politici liberal-democratici per riconquistare la loro sempre più debole autorità. Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte, che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da dimostrare. (Traduzione di Rita Baldassarre) *«L’uomo forte e le democrazie» è l’intervento che Zygmunt Bauman ha inviato agli Istanbul Seminars, il think tank che ResetDoc diretto da Giancarlo Bosetti organizza da nove anni con la Bilgi University nella metropoli sul Bosforo. In che modo la religione contribuisce a fondare e legittimare la democrazia? E perché, al contrario, a volte sono proprio le fedi a diventare una fonte di intolleranza? Filosofi, analisti politici e sociologi da tutto il mondo risponderanno, fino a domani, a questa e altre domande. Una serie di relazioni e tavole rotonde sul rapporto tra secolarismo e democrazia, sul liberalismo illiberale, sull’origine dell’Islam radicale. Tra i partecipanti Manuel Castells, direttore del dipartimento di Sociologia a Cambridge, Seyla Benhabib, docente di Scienze politiche alla Yale University, Amr Hamzawy, ex deputato egiziano nel Parlamento sciolto da Morsi che ora insegna alla Stanford University, Patrick Weil che insegna Legge alla Sorbona, David Rasmussen filosofo del Boston College e Silvio Ferrari, professore di Diritto canonico a Milano.
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