Quelli del No sulla riva dell’Arno [di Riccardo Chiari]
Il manifesto 3 giugno 2016. «Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è». Tomaso Montanari, storico di un’arte da difendere contro l’asservimento al «mercato», parla in un cinema Odeon strapieno. Tocca a lui, partigiano civile di una Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, dare il via a una festa che Sandra Bonsanti (e Maria Rosaria Bortolan) hanno organizzato con cura certosina. Un appuntamento «di alto valore simbolico», ricorda Bonsanti, fondatrice di Libertà e Giustizia, che con Norma Rangeri tiene le fila della discussione. Anche di alto valore pratico: all’ingresso della splendida sala nel palazzo dello Strozzino c’è la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi quelli su jobs act, «buona scuola», privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro «Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile» resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, fortissimi quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio e altri ancora demoliscono la narrazione farlocca, cialtrona – e pericolosa – che gli attuali governanti stanno ammannendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto. «Anche noi abbiamo diritto di parola», ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: «In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava». Cosa è rimasto di quel sogno? «Non si è compiutamente realizzato. Così oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due». Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: «Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta “governabilità”, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la “legge truffa”. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere». Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, di cui andrebbe studiato il dialogo con Luciano Canfora sulla «Maschera democratica dell’oligarchia». Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: «Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: “Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?”». Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”. Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: «I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni». Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista, che offre un assist alla direttrice del manifesto quando segnala come, per gli anziani meno abbienti, oggi sia venuta meno anche la possibilità di avere una dentiera. «E sì che ne abbiamo tutti bisogno – annota Rangeri – oggi la Costituzione va difesa anche con i denti». Applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: «Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi». A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: «Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come “la cosa più di sinistra che ha fatto il governo”. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori “scomodi” per primi». Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, «che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto». Non come oggi, dove domina l’astensione: «Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle». Ma c’è ancora una speranza: «Votare No oggi è l’unica condizione per poter dire “sì” domani al cambiamento, vero, del paese».
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