Dopo il danno, tante beffe: dell’acqua che ha inondato la Sardegna quella rimasta nei bacini non si può potabilizzare. Inutile imbarcarsi in dissertazioni di tipo tecnico sulla sicurezza e qualità delle acque e di tutto il sistema idropotabile: dai bacini ai potabilizzatori fino alle reti di adduzione dell’acqua potabile. E’ fin troppo semplice riconoscere, oggi, che il fango, i detriti, il dilavamento dei terreni ha conferito alle acque da potabilizzare delle caratteristiche che gli impianti non possono correggere. Non è questo il punto e non è questo il problema. Questo è solo uno dei risultati di un problema mai superato e generato da strane scelte legate alla gestione del comparto idropotabile.
Il 75% delle acque potabili provengono da acque superficiali. Non occorre essere tecnici per intuire l’incidenza su costi e qualità. Non si dispone di dati su quanti depuratori civili, pur scaricando in acque superficiali, sono malfunzionanti. Non si dispone neppure di dati sui costi industriali veri del sistema pubblico. Il buon governo delle acque è una componente del buon governo del territorio e questo integra la qualità del sistema acqua. E’ nostro dovere consegnare ai nostri figli un piano regolatore generale delle acque innovativo, che non si preoccupi di conservare la mistura finto-aziendalistica che i diversi enti – per delega della Regione – gestiscono come segmenti indipendenti di questo delicatissimo comparto.
Negli anni 80, col terrore della siccità alimentato da previsioni apocalittiche, venne implementato il sistema di raccolta e conservazione delle acque superficiali. Tutti sapevano che questo avrebbe potuto soddisfare il fabbisogno del settore agricolo e avrebbe potenziato il settore idroelettrico, ma avrebbe però confinato il comparto idropotabile in una progressiva e inesorabile difficoltà a produrre acqua potabile con le necessarie caratteristiche e con costi sostenibili dalla comunità e dai singoli cittadini. Con questa corsa verso le “grandi” opere e con proiezioni d’impatto ambientale e socio-economico anch’esse superficiali (per stare in tema) si sono generati inconvenienti che la collettività è costretta a subire e che di imprevedibile avevano ben poco.
Alcuni accadimenti (chiamiamoli così per non ascriverli alla categoria delle scelleratezze) hanno del singolare. Chi conosce la Barbagia e il Mandrolisai conosce anche la storia di questi centri e i racconti sulle acque cristalline e pure che la montagna regalava. Sa anche per quanto tempo il fabbisogno idrico è stato supportato da falde sotterranee. Un bel (brutto?) giorno si decise, però, di abbandonare il sistema delle falde sotterranee per investire sulle acque superficiali. Probabilmente allora si puntava sulla quantità piuttosto che su alcuni aspetti di sicurezza e qualità, o forse la strategia degli invasi divenne così contagiosa da oscurare ogni altra ipotesi.
Accadde così che quelle comunità scoprirono gli effetti devastanti dei ferrobatteri sulle loro reti idriche e cominciarono a comprendere i pericoli dell’eutrofizzazione e la potenziale pericolosità di alghe come l’oscillatoria. Le considerazioni sulla scarsa qualità delle acque superficiali ad uso potabile sono scritte nella storia “biologica” del Liscia, del Coghinas, del Bunnari, del Bidighinzu, del Mulargia, del Cixerri, del Monti Pranu. La parola meno inquietante è “eutrofizzazione”. La qualità è anche spesso compromessa dai depuratori comunali inadeguati e malfunzionanti.
Cosa avvenne a seguito dell’impiego del Simbirizzi per uno scopo diverso da quello per cui la natura nei secoli l’aveva governato? Acqua con salinità elevatissime, eutrofizzazione e infine polmone per i reflui civili di Is Arenas. Venne poi il momento delle “interconnessioni”, cioè l’idea di mettere in relazione fra loro gli invasi e di conseguenza i relativi bacini imbriferi, mettendo nuove variabili del sistema idrico. E quasi certamente, così, si sono portati gli effetti di un problema a distanze nuove.
Lo stagno di Santa Gilla era un grande specchio d’acqua di transizione in cui si sono sviluppate delle civiltà. Poi le industrie e una scellerata assenza di controllo degli scarichi urbani hannoprodotto i noti disastri. Per completare il danno, la modificazione del Cixerri e del Mannu e dei rispettivi regimi idraulici ha quindi ridotto gli apporti d’acqua dolce allo stagno. Sarebbe davvero interessante un calcolo comparato fra la situazione attuale e quella degli anni 50. Ancora, il nuovo assetto idraulico delle acque in entrata a seguito della realizzazione del Porto Canale ha trasformato buona parte dello stagno in specchio di mare con evidenti variazioni di salinità e produttività. Questo è solo un esempio di “non integrazione”.
Sarebbe utile porsi sempre delle domande. Ad esempio: quale è il fabbisogno di acqua potabile per un comune di 2000 abitanti? I dati ISTAT dicono 175 litri giorno/abitante, 350 mc/giorno per il comune. Un pozzo di buona falda può fornire sicuramente acqua per 15 mc/ora. E con costi di potabilizzazione molto più bassi. Poi, quanto costa una captazione di falda e quanto costa il trasporto se la falda è in casa? E ancora, qual è il costo teorico per abitante in un sistema idropotabile da acque superficiali? Sicuramente l’acqua di falda costa meno dell’acqua superficiale.Un piano regolatore generale delle acque potrebbe contemplare un sistema adeguato alla nostra realtà, ai nostri fabbisogni, alle nostre economie, alle storie delle nostre comunità. Nessun elemento della vita dell’uomo e del rapporto delle comunità con la natura può essere ricondotto ad un singolo calcolo. Non quel sistema integrato concepito per fabbisogni, per consumi, per usi.
Dobbiamo assicurare ai nostri figli almeno un sistema integrato per qualità ambientale, per benefici sulla sicurezza e sulla salute, per risparmi e razionalizzazione delle risorse. Quante altre tragiche lezioni dovranno esserci impartite per far sì che l’ambiente e le sue risorse non siano più un volgare cash and carry ma una casa di tutti per tutti? L’acqua è unica in tutte le sue molteplici peculiarità. Non si può privilegiarne una senza comprometterne un’altra. Non basta più raccontarlo ai bambini nelle scuole, bisogna agire. Un giorno ci chiederanno perché non l’abbiamo fatto.
*Biologo. Già responsabile Area Biotossicologica dell’ex Presidio Multizonale di Prevenzione di Cagliari.
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