La riforma costituzionale al vaglio di tre studiosi: Pombeni, Rossi e Guzzetta [di Stefano Ceccanti]

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L’Huffington Post 14/06/2016. Uno storico delle istituzioni e due costituzionalisti hanno pubblicato in queste settimane volumi sulla riforma costituzionale. In realtà il testo storico di Paolo Pombeni (“La questione costituzionale in Italia“, Il Mulino) è più vasto e parte dall’idea di Costituente nella storia d’Itala dal Risorgimento in poi. Tuttavia, dal momento che ricostruisce puntualmente i lavori dell’assemblea Costituente del 1946-1947, è anche in grado di proporre con quelle premesse una valutazione d’insieme sulla riforma odierna.

Il punto di partenza chiave (pag. 14) è l’impatto della Guerra Fredda che non impedisce un’intesa alta sulla Prima Parte, ma che al tempo stesso non consente di dar vita a un’efficiente parte organizzativa, scarto di cui erano consapevoli sin dall’inizio i medesimi costituenti: emblematiche in questo senso le citazioni molto chiare di Ruini a fine lavori (p. 302), di Togliatti nel 1948 (p. 113) e di Dossetti nel 1951 (pp. 308-310). Il testo è utile anche perché smitizza alcuni luoghi comuni.

Il primo è quello di un sostanziale disinteresse del Governo e del Presidente del Consiglio De Gasperi verso i lavori dell’Assemblea. In realtà, oltre a richiamare il lavoro dietro le quinte che è stato illuminato negli ultimi anni da vari storici (sarebbe del resto sufficiente la magistrale intervista di Scoppola ed Elia a Lazzati e Dossetti), Pombeni rileva giustamente che l’Assemblea era già priva del potere legislativo ordinario, per cui de Gasperi “non voleva dare anche solo l’impressione che il Governo invadesse anche l’unico campo di competenza esclusiva di quell’Assemblea” (p. 171).

Il secondo è quello di un testo così perfetto da non dar luogo a critiche per il suo lessico e per i suoi contenuti: un’immagine che si è creata in anni recenti per vari motivi, sia perché il radicamento è cresciuto nel corpo sociale sia perché i contenuti si sono chiariti nell’applicazione e sono divenuti familiari. Invece l’antologia di critiche di allora che offre Pombeni è impressionante (solo per fare due esempi p. 214 Calamandrei e p. 282 Mortati) oltre al clima disincantato e un po’ frustrato dei peones dell’Assemblea che si sentivano marginalizzati dai capi partito e dai 75 della Commissione preparatoria (si vedano le critiche del Presidente Terracini pp. 210-211); per non parlare del fatto che la prima Commissione per la riforma del Senato venga già istituita nel 1948 (p. 305).

Per queste ragioni Pombeni apprezza la riforma in quanto essa, senza pretese di perfezione, migliora comunque in modo sensibile i nodi aperti sin da allora, mentre le critiche gli appaiono in continuità con quelle “del vecchio costituzionalismo contro la neonata Carta costituzionale del 1948” (p. 361) . Un bilancio più mirato su tutte le singole scelte è invece il compito che si sono assunti i due costituzionalisti.

Più esattamente Il ruolo che sembra essersi prefisso Emanuele Rossi (“Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale“. Pisa University Press) sembra quello di presentare in modo semplice e accessibile l’insieme degli argomenti dell’accusa e della difesa, senza voler prendere una posizione identificabile in termini di giudizi di valore. In realtà, come sempre accade in una materia incandescente, un’equidistanza assoluta sembra impossibile per cui il testo, molto utile da consultare, sembra nel complesso favorevole alle finalità perseguite, ma perplesso sui modi e critico sui mezzi.

La perplessità su modi riguarda soprattutto il protagonismo del Governo (p. 29): tuttavia, anche a prescindere dalle osservazioni di Pombeni sulla Costituente che riducono di molto l’impressione di un ruolo marginale anche allora, il punto chiave è che soprattutto nella precedente legislatura, dove si erano distinti i ruoli tra riforme legislative da affidare a Monti e riforme costituzionali ai partiti, si era capito che senza un ruolo propulsivo del Governo non si sarebbe realizzato niente. Le critiche di Rossi sui mezzi sono spesso rivolte non tanto alle scelte in sé operate dal testo, ma ad alcune delle possibilità che si aprono con la sua attuazione:

-fino a che punto il Senato non riprodurrà quasi solo logiche partitiche ci si chiede alle pp. 40 e 144?

-non c’è il rischio di un numero eccessivo di procedimenti legislativi a cui potrebbe seguire un numero rilevante di conflitti si rileva a p. 83?
-che succede rispetto all’obbligo di dimissioni solo per le votazioni fiduciarie nell’articolo 94 che rimane formalmente intatto se il Governo sceglie la procedura del voto a data certa in nome dell’attuazione del programma e poi perde, si rileva a p. 109?
-il problema tra Stato e Regioni non è dovuto soprattutto per l’assenza di attuazione delle disposizioni costituzionali, si sostiene a p. 175?

E’ evidente che una revisione costituzionale, così come nel 1948 le norme costituzionali di allora, ben più di leggi ordinarie, sono aperte a più scenari possibili e che, quindi, in astratto, delle critiche di questo tipo sono talora non facilmente confutabili a priori. Tuttavia, con questo criterio, si correrebbe il rischio, presentando il caso peggiore come quello più probabile o fortemente probabile, di bloccarsi e non modificare mai uno status quo non meno problematico.

In ogni caso il testo non dà spazio critiche “ansiogene” come le definisce Carlo Fusaro, ossia quelle che gridano alla svolta autoritaria, anche perché Rossi non è meno rigoroso con le ricostruzioni superficiali, come quelle che ignorano l’ampia quantità di emendamenti parlamentari approvati al testo originario (p. 29), che vedono semplicisticamente come una perdita di democrazia qualsiasi Senato che non sia direttamente elettivo (p. 43) che ignorano le modalità con cui anche da noi come in altri ordinamenti il cumulo della carca di senatori con quella regionale o locali possa trovare modalità ragionevoli di lavoro (p. 52) o che profetizzano, ignorando i processi reali, un Capo dello Stato eletto facilmente dalla maggioranza pro tempore (p. 163).

In ultima analisi il volume di Rossi, oltre ad una guida per la comprensione, si rivela anche e soprattutto un utile strumento di allerta preventivo per evitare strade sbagliate una volta che la revisione sia stata approvata. A mio avviso, senza voler annettere l’Autore a un campo, sembra però appartenere più a un “Sì, ma” che non a un “No, ma”.

Il testo di Giovanni Guzzetta (“Italia, si cambia. Identikit della riforma costituzionale“) è invece un libro che, oltre ad analizzare i singoli articoli della revisione (particolarmente accurata quella tra Stato e Regioni), presenta alcune tesi precise. La prima, in ordine logico, è che non ci si debba accontentare di un’ipocrita doppia verità per cui da un lato si riverisce il testo costituzionale anche nelle parti più obsolete che “porterebbero ad una paralisi” e dall’altro si pratica, quando si è al Governo “uno strisciante decisionismo dell’emergenza” (p. 69).

Le due successive sono molto puntuali, storicamente situate. La seconda è che l’Italicum è figlio diretto di quella consapevolezza sulla mancata tenuta delle coalizioni sul piano nazionale che aveva ispirato il referendum abrogativo del comitato presieduto nel 2009 dal medesimo Guzzetta (p. 66), che allora era fallito anche perché l’opinione pubblica aveva pensato che quell’obiettivo era già stato realizzato col Pdl di Berlusconi e il Pd di Veltroni (pp. 63/66). Quindi è tutt’altro che una scelta improvvisata, contingente, o legata all’attuale Presidente del Consiglio; la sua attualità è stata rilanciata con le elezioni politiche del 2013, in cui il corpo elettorale si è spalmato su tre minoranze non coalizzabili (p. 67).

La terza è che il testo della riforma è in realtà uno dei frutti possibili della Commissione Letta-Quagliariello che aveva arato il terreno in modo bipartisan (p. 84). La quarta è di metodo ed è tale da portare al giudizio complessivamente positivo sulla riforma: ovviamente l’attuazione di norme di questo tipo può condurre sempre su strade diverse, ma ciò non di meno quella che conta è la direzione complessiva ed essa è indubbiamente chiara (p. 86).

Sul rapporto Stato-regioni, risalendo al celebre intervento di Mortati alla Costituente il 18 settembre 1947 (p. 33) il nodo è correttamente individuato non tanto nel nuovo articolo 117, ma nella riforma del Senato anche perché è illusorio “definire gli argini delle materie una volta per tutte” (p. 94). Del resto la presunta centralizzazione che sarebbe introdotta dalla riforma è stata ampiamente già praticata dalla Corte costituzionale con la sussidiarietà legislativa e col coordinamento della finanza pubblica (pp. 92-100).

La concreta composizione del Senato e le funzioni attribuite sono coerenti? Qui Guzzetta invita a far uscire le seconde Camere territoriali dal mito: “l’appartenenza territoriale tende sempre a risentire e a essere condizionata da quella politica. Persino in Germania” (p. 121) : l’esito dipenderà soprattutto dalla capacità degli enti territoriali di farsi valere. Quanto ai possibili conflitti tra due Camere che si trovino ad essere differenziate, l’Autore segnala che essi appaiono sovrastimati anche perché il potere di veto del Senato non è elevatissimo, le leggi che restano bicamerali sono circoscritte in modo abbastanza puntuale e, comunque, l’eventuale giurisprudenza costituzionale sui conflitti di attribuzione sarebbe comunque in grado di stabilizzare il sistema (p. 123).

Il testo poi termina con due ulteriori tesi finali: che anche grazie alle soluzioni parziali della riforma sia da abbandonare la retorica paternalistica che si rifiuta di affidare agli elettori la scelta sul Governo (p. 151) e quella unanimistica spaventata dalla competizione tra progetti alternativi di cui rendere conto in caso di successo (p. 152).

*Costituzionalista

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