Giappone, la “good city” ha gli occhi a mandorla [di Antonietta Mazzette]
La Nuova Sardegna 16/06/2016. In Immagini di città Walter Benjamin scrisse bisogna andare a Mosca per comprendere Berlino. Con umiltà applicherò questo concetto per parlare di un mio recente viaggio nelle città di Kyoto e Tokyo, e ricondurlo all’Italia. Non racconterò della bellezza dei giardini fioriti, dei suggestivi templi buddisti e scintoisti di Kyoto, e neppure della grandiosità architettonica dei grattacieli e dell’efficiente sistema di mobilità di Tokyo, mi limiterò ad evidenziare tre aspetti della vita sociale che mi hanno colpito: il rispetto degli spazi pubblici, l’attenzione verso le persone e la percezione di sicurezza. Naturalmente non assegnerò a queste riflessioni una valenza generale ma sono da ricondurre alla mia parziale esperienza di viaggio. Il rispetto degli spazi pubblici emerge agli occhi di uno straniero – particolarmente se italiano – in relazione a due elementi: 1. l’estrema pulizia delle strade, piazze, giardini, metropolitane e quant’altro; 2. la cura verso l’arredo urbano. La pulizia è assicurata dagli addetti che lavorano ad ogni angolo della città e che, come ha spiegato il sociologo di Waseda University, Junji Tsuchiya, sono a carico sia delle diverse municipalità, sia dei privati che gestiscono le molte attività urbane. Ma la pulizia non è riconducibile solo a quanti sono responsabili del sistema di pulizia urbana; senza l’assunzione di responsabilità di ogni singolo cittadino, l’impresa di tenere pulita una città (qualunque sia la sua dimensione) risulterebbe vana. Nelle nostre città, invece, si tende quasi sempre a far ricadere sull’Amministrazione Comunale l’onere di tenere puliti i luoghi pubblici e, se si buttano cartacce sui marciapiedi, la colpa è sempre del pubblico che non dota la città di un numero sufficiente di cestini di rifiuti. Si noti il fatto che nelle strade urbane giapponesi raramente si trovano questi raccoglitori, dove peraltro non si buttano mozziconi di sigarette; comportamento diffuso nei nostri territori, spiagge e montagne comprese, tanto da aver indotto il legislatore ad adottare ulteriori norme sanzionatorie. Nelle città giapponesi c’è il divieto totale di fumare negli spazi pubblici, se non in quelli dedicati, e ciò viene ricordato con il simbolo di divieto di fumare disegnato per terra. Invece in Italia è difficile far rispettare questo divieto persino in luoghi come gli ospedali e le scuole. Altro aspetto che costituisce un indicatore di civiltà di una popolazione è dato dal comfort delle toilette pubbliche e private (gratuite) che si trovano sparse ovunque, a partire dai parchi, stazioni e metropolitane. Emerge un’idea di spazio pubblico (inteso come spazio accessibile e di uso pubblico) centrale per la vita urbana. Questa idea è stata alla base delle radici storico-politiche delle nostre città ma la cui valenza sociale, oltre che politica, sembra essersi persa nelle nebbie dell’individualismo portato a parossismo e nella totale inversione pubblico vs privato: il pubblico, se non comporta vantaggi individuali, è terra di nessuno, spazio anarchico dove è facile che prevalga la legge del più forte. Sotto questo aspetto, le nostre città sembrano aver perso la stessa nozione di città pubblica e dimenticato le ragioni stesse che hanno portato a definirsi Comuni. Questo mi porta alla cura dell’arredo urbano che non comprende solo le opere di public art. L’arredo ha una valenza estetica ma, associato al contrasto del degrado, si manifesta come valore di accoglienza del flusso ininterrotto di residenti, pendolari e city users. Anche nei punti più affollati, e perciò maggiormente esposti all’incuria, è possibile sostare e assistere allo spettacolo del genere umano perché, come ha scritto il sociologo statunitense William H. White, l’attività più frequente di chi usa gli spazi pubblici è quella di guardare gli altri: people looking at other people. L’attenzione verso gli altri è il secondo aspetto di vita sociale da rimarcare. Ad esempio, è capitato più volte di rimanere disorientati per l’assenza di indicazioni in inglese, ebbene, ogni volta c’è stato qualcuno che ha offerto il suo aiuto e, se il disorientamento ha riguardato una linea metropolitana presa per sbaglio, non c’è mai stata una sanzione da parte dei controllori ma la comprensione che si fosse trattato di un errore. L’attenzione verso gli altri, però, non riguarda solo gli stranieri, ma anche gli abitanti, in particolare i bambini. Era percepibile il senso di fiducia che rinviava la visione di bambini che uscivano da scuola e ritornavano a casa senza accompagnatori adulti o genitori in attesa davanti alle scuole. Condizione assai diversa dal vissuto dei bambini italiani, scortati sempre in tutte le loro attività. La fiducia verso gli altri è emersa anche dal racconto di una madre giapponese che per ben tre volte ha mandato da sola la figlia di nove anni nella stazione di Shinjuku, luogo che per il suo intenso traffico di passeggeri sta nel Guinness dei primati. L’ansia della madre non ha mai riguardato la paura degli altri, ma solo che la bambina si potesse perdere nei labirinti della stazione. Questo racconto mi porta al terzo aspetto, il senso di sicurezza che non ha niente a che vedere con l’incertezza di un popolo legato al rischio perenne di calamità naturali. Mai una volta mi sono sentita inquieta nelle strade della città, così come non ho avuto modo di preoccuparmi di lasciare incustodita la borsa sul sedile di un treno o ai piedi di un tavolino. Naturalmente anche in Giappone c’è criminalità, ma il controllo dell’ordine pubblico, insieme a quello sociale, è stata una realtà costante. Con ciò non voglio sostenere che il Giappone sia un Eden. È un Paese che sta attraversando gravi problemi come l’invecchiamento della popolazione, la natalità vicina allo zero, giovani sempre più precari e disoccupati, consumo del suolo (compreso quello sottratto al mare) che determinerà quasi sicuramente bolle immobiliari, come è già accaduto in Paesi avanzati come gli USA e la Spagna. E se il tempo è ormai considerato un indicatore di qualità della vita urbana, certamente questo è una risorsa scarsa per gli abitanti di Tokyo. Ciò nonostante, la sensazione che questi milioni di persone siano ancora sorretti da legami relazionali e dal rispetto del bene pubblico, mi porta a dire che forse abbiamo molto da imparare da Paesi da noi lontani geograficamente, storicamente e culturalmente. Il sociologo britannico Ash Amin in un suo scritto ha sostenuto che una Good City conviene a tutti e la si ottiene se si adottano politiche di riparazione dei danni sociali, di attenzione verso gli altri e di relazionalità. Il tutto legato al registro dei diritti sui quali, però, qui non mi soffermo perché andrebbe studiato con altri metodi che non siano limitati all’osservazione diretta. |