La pastorizia e le pale del mulino [di Nicolò Migheli]

pecore

Quasi una condanna biblica. L’immagine più efficace è quella del pastore legato ad una ruota di un mulino che gira. La testa che periodicamente finisce sott’acqua, emerge temporaneamente respira e poi di nuovo in immersione. Da più di cento anni è così. Ogni volta che si finisce dentro la crisi le promesse per cambiare modello, poi il prezzo del latte risale e si commettono gli stessi errori. Una coazione a ripetere. Negli ultimi tre anni di pecore grasse, molti avevano previsto la crisi attuale.

Si è pensato che il prezzo di 1,00-1,10 perfino 1,20€ a litro fosse eterno e che sarebbe cresciuto anno dopo anno. Le dichiarazioni di Pierluigi Pinna, hanno avuto il pregio di mostrare che il re è nudo. Che il modello della pecora iperproduttiva alla fine non paga. Le selezioni spinte hanno creato macchine da latte, instabili, che oltre ad una alimentazione abbondante tutto l’anno, richiedono costanti cure veterinarie. Una snaturazione dell’animale rustico di anni fa. Un po’ quel che è successo con il bovino, dove vacche che producevano venti litri sono state sostituite da animali che ne producono il doppio, a volte il triplo. Solo trent’anni fa un pecora sarda produceva latte con una componente proteica del 5,70%, e del 6,50 di grassi.

La cosiddetta sostanza secca, quella che poi diventa formaggio. Oggi, in questi giorni di fine lattazione, con un latte percentualmente più grasso, si hanno valori minimi di 5,20 di proteine e 4,90 di lipidi [numeri che mi sono stati dati da un tecnico che non desidera essere citato]. In poche parole più latte per fare la stessa quantità di formaggio. Il Pecorino Romano, croce e delizia della nostra pastorizia, in questi anni ha conosciuto una ripresa. Si è passati dai 241.000 quintali del 2014 ai 393.000 quintali stimati di quest’anno [fonte: Consorzio per la Tutela del Pecorino Romano]. Il 60% di questo formaggio è fatto dalla cooperazione, il restante da imprenditori privati.

Se fino a qualche anno fa il nostro latte ovino si confrontava con i concorrenti tradizionali francesi, spagnoli e greci, in questi ultimi anni sono entrati sul mercato: slovacchi, rumeni, bulgari e turchi, spesso con prodotti di buona qualità. Nel contempo con la fine delle quote è entrato in crisi anche il latte vaccino. Ce n’è troppo in Europa e l’abbassamento del prezzo si riverbera anche in quello ovino. Soprattutto se si insiste nella produzione di Romano, il quale nonostante l’abbassamento della sapidità, solo in piccola parte è diventato un formaggio da tavola, la grande produzione finisce come commodities, una materia prima utilizzata per dare gusto a grattugiati vaccini.

Quel che, ancora oggi, avviene negli Usa. Possiamo continuare così? Possiamo ignorare tutto quel che invece può dare valore alle nostre produzioni? È indubbio che occorrono processi innovativi che riscoprano il carattere rustico della nostra pecora, in modo che lipidi e proteine risalgano, diminuendo il latte prodotto per animale. Ma non basta, bisogna rivedere il concetto stesso di qualità. Con la legge 169/89 venne definito il latte di qualità: grassi, proteine, cellule somatiche e carica batterica. Gli ultimi due, indicatori di igienicità.

Restarono fuori tutti gli antiossidanti che danno un valore nutrizionale alto. Il risultato fu che non si fece nessuna differenza in termini di prezzo tra il latte prodotto in stalla con i mangimi e quello da pascolo polifita, tra quello di pianura e quello di montagna. Persero i pastori e ci guadagnarono i trasformatori. Oggi però si è scoperto che CLA (Acido Linoleico Coniugato) previene molte forme tumorali oltre ad agire come limitatore del colesterolo. Indicatore che raggiunge livelli alti nel latte da pascolo verde, possibilmente con più essenze. È arrivato il tempo di superare le classificazioni datate ed inserire valori come, vitamine, betacaroteni ecc.

La ricercatrice Laura Pizzofferrato del CNR, proponeva il Grado di Protezione Antiossidante (GPA) perché non è il colesterolo il danno ma la sua capacità degenerativa. Un industriale sardo, ha capito l’importanza di questi nuovi descrittori e vende con successo un pecorino dove il tenore di CLA è dichiarato. La qualità secondo legge nasconde il valore reale del latte, lo fa diventare un indistinto, una materia prima come un’altra. Su questo fronte la Sardegna ha già oggi delle prospettive immense, significa però cambiare sistema, che al latte da pascolo venga riconosciuto il suo alto valore, incentivando, ad esempio i formaggi a latte crudo, così come da sempre fanno i francesi.

È chiaro che un processo del genere ha bisogno di tutti: cooperative, industriali, pastori, assistenza tecnica ed università. C’è necessità di un nuovo management che conosca bene il mercato internazionale. Tutto ciò però non basta se abbiamo una Regione senza una  visione chiara di dove si vuol andare e di che cosa bisogna fare. I concorrenti dell’Est, i francesi e gli spagnoli possono godere di indirizzi governativi ben precisi, qui da noi domina il neo liberismo metafisico. Alé.

 

4 Comments

  1. Maurizio Lai

    Analisi azzeccata… Nicolò… solo che ci sono ancora azzeccagarbugli che si ostinano a presentare sul mercato, americano soprattutto, il romano che per altro non viene usato, se non per “aggiustare” formaggi insipidi provenienti dagli stessi States o dal Sud America….. Quello che non capisco è che per far girare mezzo mondo ad amministratori di Cooperative e Consorzi, e/o politici e funzionari regionali, si sono spesi decine, forse centinaia, di migliaia di euro per aprire nuovi mercati…. ed in realtà nulla è cambiato, salvo le gite gratuite, rispetto a 30/40 anni fa quando a dettare le condizioni per l’export erano i brokers olandesi… Con un decimo di quanto speso si sarebbero potuti coinvolgere “cervelli” di livello mondiale quanto a strategie di marketing e commercializzazione… penso che i produttori ne avrebbero solo grandi vantaggi… e non staremmo qui a sputare sui vari Pinna…. romeni…scopiazzatori e quant’altro…. forse la produzione regionale non sarebbe bastata ad approvvigionare i nuovi mercati…. ma!!!

  2. Va bene utilizzare nuovi parametri per la qualità del latte, ma prima ancora bisogna garantire un sistema dei controlli di qualità indipendente e certificato, altrimenti parliamo di aria fritta o propaganda e tutti possono permettersi di sparare dati o peggio ancora di utilizzarli impropriamente

  3. Nicolò Migheli

    I dati che riporto sono di fonte terza.

  4. Giuseppe Ruiu

    Mi scusi Sig. Migheli, mi sono spiegato male nella brevità del commento precedente. Concordo sulla sua analisi e volevo aggiungere qualche elemento. Non mi riferivo ai suoi dati ma a quelli che a volte vengono utilizzati per giudicare la qualità del latte sardo. Bisognerebbe capire di quali dati stiamo parlando e come sono ottenuti. Premetto che sono convinto per la mia esperienza di lavoro come agronomo nelle campagne sarde che il latte sardo sia di alta qualità, non tutto naturalmente, e che questa qualità sia poco valorizzata. Un sistema di pagamento a qualità del latte che includa anche, per i benefici effetti sulla salute i parametri che lei cita, è l’unico strumento in grado di garantire una giusta remunerazione a chi produce bene, nonché la salubrità e la qualità ai consumatori. Dovrebbe essere un vantaggio anche per chi trasforma, tanto è vero che come lei dice alcuni sono attenti a queste problematiche. Quando si parla di statistiche però e quindi di deve giudicare la bontà del latte e a maggior ragione se si applicasse un sistema di pagamento a qualità, bisogna essere certi dei dati di partenza, a questo si riferiva la terzietà. Attualmente in Sardegna i dati regionali sulla qualità del latte sono certificati generalmente solo per la fase dell’analisi e non per quella del prelievo, affidata all’ autocontrollo degli allevatori e dei trasformatori e spesso solo dei trasformatori. Ecco perché bisognerebbe fare uno sforzo per garantire maggiormente l’attendibilità e la terzietà dei dati. Attualmente solo pochissimi trasformatori applicano il pagamento a qualità, sono soprattutto cooperative. Il vero problema è quindi, perché non si applica nonostante se ne parli da circa trent’anni? La risposta richiederebbe ovviamente più spazio, ma anche da questa risposta può dipendere il prezzo del latte sardo. Grazie

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