Biennale SAVE ART 2013 [di Carla Deplano]

BIENNALE SAVE ART 2013

Il 29 novembre si è svolta a Firenze la Biennale SAVE ART, Conoscere l’arte per difenderla meglio. Identità italiana, identità europea. Nel sottolineare l’importanza civile e morale dell’insegnamento della Storia dell’arte, il convegno, rivolto principalmente alla Scuola, fa luce sulla necessità della conoscenza e della coscienza del valore del patrimonio culturale edella sua difesa con un monito a chi detiene le leve del potere economico e politico, ribadendo l’esigenza sempre più pregnante della conservazione di un’identità nazionale allargata al senso di appartenenza ad una comunità vasta e responsabile, che valica i confini nazionali per diventare un problema sovranazionale.

Nei suoi saluti, il Ministro Bray rileva l’importanza vitale del nostro patrimonio culturale, quale fondamento del vivere civile che dà il senso più profondo del nostro essere Italiani, auspicando un investimento sulla cultura funzionale a rilanciare la stessa economia. Conduce la giornata Philippe Daverio, Direttore Art e dossier, che nel suo contributo Identità italiana, identità europea riflette su come l’arte ed un’auspicata “rivoluzione” culturale (sul modello di quella francese, che è mancata in Italia) consentano la costruzione e la conservazione di un’identità nazionale, di un senso di appartenenza comune che sia necessariamente condiviso anche a livello europeo, quant’è vero che la conoscenza e la difesa del patrimonio si configurano come elemento fondante di qualità di cittadinanza italiana ed europea. La riflessione si sposta, quindi, sul ruolo che in questo senso dovrebbero rivestire i media, i musei, le soprintendenze e le istituzioni tutte, per non parlare del compito paradigmatico affidato alla Scuola ed in particolare ai docenti di Storia dell’arte, quali mobilitatori per antonomasia di conoscenze e coscienze collettive.

Aldo Colonetti,Direttore Scientifico IED (Istituto Europeo Design) di Firenze, nell’intervento La parte per il tutto: conoscere il mondo attraverso gli indizi analizza le possibilità e le potenzialità di un modus operandi che contempli percorsi di formazione ed esperienze didattiche che partano dal particolare per arrivare a spiegare l’universale, dal microcosmo al macro-cosmo/sistema: dagli oggetti per arrivare al contesto, secondo la lezione di Hume ed il concetto di intervallo perduto di Dorfles, per cui lo spazio dell’estetica non esiste prima delle “cose”. In tal senso la Storia dell’arte appare l’unica disciplina all’interno del sistema informativo in grado di parlare delle cose – di quelle quotidiane, dei dettagli – recuperando l’identità culturale e dando valore alla conoscenza. Analizzando la parte per il tutto, si è portati a conoscere il mondo attraverso gli indizi, a definire progressivamente un campo critico d’indagine vasto e complesso. Laddove, come sostiene Dorfles, l’estetica è alimentata dalle esperienze e non precede le cose e, d’altro canto secondo Hume, l’aspetto estetico è una conseguenza del piacere, ovvero dell’aspetto etico del coinvolgimento percettivo basato sui sensi. 

Cristina Acidini,Soprintendente per il Polo Museale di Firenze, nella sua riflessione L’Europa a Firenze, l’Europa e Firenze. Presenze europee nelle collezioni storiche fiorentine e percezione di Firenze nel turismo globale contemporaneo, affronta il tema dell’identità composita e dell’eredità culturale di un patrimonio plurale che ci accomuna tutti, in una storia europea intessuta di scambi interstatali e multiculturali, in cui concetti come nazionale, provinciale e/o locale applicati alle istituzioni museali risultano impoverenti, laddove mostrano tutta la loro precarietà ed elusività a fronte di una continua osmosi culturale di un patrimonio condiviso e mondiale.

Fabio Isman, giornalista, nell’intervento Il patrimonio fragile, vendite e scavi di frodo, fa luce sulla frammentazione e la progressiva dispersione del nostro patrimonio di beni culturali e sul lucroso mercato internazionale. Qualcuno ci ha detto – ricorda Isman – che “l’arte è il nostro petrolio”, ma il petrolio – aggiunge – è un’energia non rinnovabile e allora disperdere l’arte appare come il più grave dei reati. Tomaso Radaelli,Presidente di Mondo Mostre, ne La percezione dell’arte italiana e il pubblico delle mostre all’estero, auspica l’avvio in Italia di iniziative di cultural diplomacy incentrate sul patrimonio culturale atte a promuovere il sistema Paese sull’esempio di quanto già da tempo avviene in Francia, Spagna e Regno Unito secondo politiche avvedute e lungimiranti che puntano sul valore della cultura e si basano, sostanzialmente, sulla tutela del patrimonio ed il dialogo con l’estero.

In qualità di docente di Storia dell’arte mi preme, a questo punto, focalizzare l’intervento Gli occhiali del cardinale. Vedere attraverso l’arte per conoscere la storia e cogliere l’identità di un popolo di Clara Rech, Presidente ANISA. La Rech rileva, innanzitutto, come il momento sia tale per cui le riflessioni ed i buoni propositi maturati nella Biennale Save Art escano dall’ambito specialistico del convegno, specialmente per quanto riguarda la Scuola, perché se è vero che il Ministero dei beni culturali ha subìto vistosi tagli, non va dimenticato d’altra parte ciò che ha subito il Ministero dell’istruzione e della ricerca scientifica che insieme rappresentano, di fatto, i punti nodali dell’auspicabile investimento di uno Stato che concepisca un’azione governativa stabile e lungimirante.

La metafora occhiali-conoscenza, visione-arte – riportata denotativamente attraverso l’eloquente immagine del Cardinale di Rouen ritratto da Tommaso da Modena con gli occhiali nell’atto di studiare – viene impiegata per sottolineare quello che oggi rappresenta il mondo della conoscenza e l’essenza dell’arte, quale sintesi più completa della civiltà di un popolo. Se l’economia stessa del mondo attuale è fondata sulla conoscenza, che è il presupposto per una società civile, è evidente che senza conoscenza – e quindi senza i medium della conoscenza  (la Scuola e l’Università e tutto ciò che garantisce gli apprendimenti formali e non formali) – non si vada da nessuna parte.

Si tratta, quindi, di portare avanti un’istanza che non si limiti soltanto ad un lodevole buon senso, ma che persegua un’ottica che guardi anche all’economia e ad un vantaggio per l’economia stessa. E’ evidente che chi taglia la Storia dell’arte nella Scuola e parla di una politica avveduta si sbagli, e probabilmente lo faccia in modo programmatico e consapevole, il che risulta ancora più riprovevole.

Dal momento che la Storia dell’arte è una disciplina che interseca tutte le altre, chi la studia e la insegna si dota di uno strumento potente indispensabile per orientarsi nello studio e anche nella vita. Al di là del falso problema che vede ancora contrapporsi il sapere scientifico a quello umanistico, è un fatto che siano in forte calo le iscrizioni nel liceo classico, specie da Roma in su, che si deve interpretare come un campanello d’allarme forte per il futuro della nostra società.

Esiste “il sapere”, che in sé raccoglie ed interconnette i tanti saperi, quindi indulgere ancora in questa contrapposizione dicotomica si rivela quanto mai fallace. Se, infatti, si esaltano i saperi di natura prettamente tecnica, che indugiano sulle abilità esecutive a discapito dei saperi che una volta si dicevano “più disinteressati”, in realtà si rinuncia aprioristicamente a formare delle persone dotate di una testa in grado di ragionare e soprattutto di ragionare in maniera autonoma. Tutto questo, probabilmente, è più funzionale a creare dei “consumatori”: delle persone, cioè, che sappiano eseguire un compito, ma magari meno capaci di sviluppare quegli strumenti che servono a porsi problemi e a risolverli. La Storia dell’arte appare, in questa luce, paradigmatica del dibattito internazionale che verte sull’importanza della cultura, ed in particolare proprio di quella classica, nella società della conoscenza.

Già nel 1937 JohnDewey asseriva che fin tanto che l’arte sarà considerata una “sala d’attesa della civiltà”, né l’una né l’altra saranno al sicuro. Onde l’equazione arte-civiltà, che poi porta con sé anche il terzo fattore e cioè la scuola che ne è veicolo con la sua funzione formativa, essendo alla base di una piramide sociale; prescindere da uno solo di questi tre termini significa falsare i dati di partenza del problema. Chi insegna discipline artistiche ha una leva potentissima in mano perché, di fatto, se l’arte è la sintesi più potente della civiltà di un popolo, questo è tanto più vero nel nostro Paese, non solo per la questione risibile della percentuale di un patrimonio culturale mai esattamente quantificabile, quanto perché, come sosteneva Carlo Giulio Argan, mai come in Italia intere epoche storiche hanno trovato nella produzione artistica il fenomeno più importante per contraddistinguere la civiltà di un dato momento storico (si pensi solamente all’esito e alla portata dell’età barocca).

Onde  si comprende la valenza dello studio della Storia dell’arte proprio in Italia. Anche perché in una produzione artistica entrano in ballo, tanto nell’atto della produzione quanto in quello della “fruizione”, i due emisferi del cervello e quindi l’aspetto razionale, ma anche l’aspetto intuitivo-emozionale.

Perché bisogna studiare la storia dell’arte, o meglio: perché la si deve apprendere? Anzitutto perché si ha modo di crescere in maniera equilibrata, perché la creatività e l’innovazione che sono alla radice di ogni fenomeno conoscitivo, sono anche alla base di quello che fin da bambini si dovrebbe apprendere a scuola: un esercizio tutto sommato di libertà. In secondo luogo perché per tutti i Paesi si ha la piena conoscenza di un’identità nazionale e si acquisiscono di fatto gli strumenti per essere cittadini che concepiscono il proprio patrimonio, cioè l’eredità che ci viene dal passato, e tutti noi come collettività ci troviamo bene a vivere in un ambiente qualificato nel senso della bellezza, piuttosto che in un ambiente degradato. E, infine, occorre studiare la Storia dell’arte perché questa è in grado di garantire una prosperità economica e culturale all’ intero Paese.

Oggi ci ritroviamo di fronte ad un “bivio didattico”: vogliamo che i nostri studenti diventino criceti impazziti o persone pensanti e autonome, padrone di se stesse e capaci di uscire dai limiti di una gabbia asfittica preconfezionata ad hoc ed imposta dall’alto, capaci di esporsi anche a dei rischi? In questo risiede, sostanzialmente, il dovere etico degli insegnanti che devono fornire i propri studenti degli strumenti più aggiornati per problematizzare contenuti e conoscenze.

Dove si apprende l’arte? Le più recenti raccomandazioni europee rivalutano ampiamente il contesto non solo formale – quindi delle scuole e delle università – ma anche quello non formale e informale, e mai come nelle discipline artistiche tutto questo gioca un ruolo fondamentale. Bisogna insegnare partendo anche dal quotidiano, dalle esperienze apparentemente “piccole”, perché ai ragazzi non sfugga il senso di quello che li circonda e delle cose che utilizzano normalmente, perché qualsiasi cosa può essere un esercizio utile, un testo da leggere e da decodificare per arrivare a comprendere concetti di natura teorica.

Come si apprende l’arte? In Italia, in particolare,  si vive in un museo diffuso. Prendere atto e consapevolezza di questo è il ruolo di chi media e veicola la conoscenza. Fare acquisire la coscienza che le pietre, i paesaggi, la musica che ci circondano sono qualche cosa di connotato in senso culturale: è questo che fa la differenza con l’inconsapevolezza. Inoltre il decreto 13 del 2013 del miur insiste sulla necessità, per gli alunni, di possedere determinate competenzedisciplinari e le competenze chiave. Tra queste ultime, in particolare, l’attenzione è rivolta alla competenza di “imparare ad imparare”. Chi studia Storia dell’arte e abbia la fortuna di avere un docente competente e appassionato, più degli altri appare in grado di sviluppare questa competenza: sa come e dove reperire le fonti, le informazioni, come decodificare le immagini che ci circondano, sa che l’immagine è il mezzo più potente di comunicazione.

Al riguardo sia la Strategia di Lisbona a proposito delle competenze chiave, sia il Parlamento e il Consiglio d’Europa insistono nel ribadire la necessità per le discipline artistiche di sviluppare il pensiero autonomo e creativo. Risulta pertanto evidente il riferimento ad una tradizione di Pedagogia assai radicata e nota nel tempo, che va da Vygoskij, Bruner e Dewey a Gardner, per arrivare alla famosa testa ben fatta di Morin che contempla capacità di astrazione, esercizio del pensiero induttivo, pratica dell’anamnesi, un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi attraverso i principi organizzatori che consentono di collegare i saperi e di dare loro un senso.

Per la sua stessa natura la Storia dell’arte è, quindi, in grado di integrare saperi e culture, di parlare al di là dell’alfabeto usato, quindi di addentrarsi nel campo dell’interdisciplinarità e dell’intercultura. Senza dimenticare l’articolo 9 della Costituzioneitaliana, per cui la sintesi culturale di un’epoca e le sue declinazioni territoriali sono considerate di fondamentale importanza. Quando era viva la polemica sui giacimenti culturali e sull’opportunità di mettere a profitto l’arte, AntonioPaolucci rilevava che la ricchezza che proviene dall’arte non è proprio o solamente quella materiale, ma piuttosto il grado diincivilimento che può esercitare su un popolo.

Al riguardo non si deve dimenticare Pier Paolo Pasolini che, ne La ricchezza, a proposito della sua condizione di povertà seguita al trasferimento a Roma nel ‘50, rileva nondimeno “io ero ricco, possedevo!” con riferimento ad una ricchezza intrinseca che nessuno gli può portare via, fatta di “biblioteche, gallerie, strumenti d’ogni studio: c’era dentro la mia anima nata alle passioni, già, intero, San Francesco, in lucenti riproduzioni, e l’affresco di San Sepolcro, e quello di Monterchi: tutto Piero”.

Vero è che lo studio della Storia dell’arte è condizione imprescindibile per comprendere la storia in cui siamo radicati, le ragioni del nostro presente e le condizioni in cui si svilupperà il futuro. Quest’ultimo aspetto è anche fortemente intrecciato e condizionato dai concetti di creatività e innovazione che, se da un lato costituiscono gli elementi portanti della società attuale e futura e dell’economia, dall’altro trovano nella cultura e nella sua conoscenza la condizione per alimentarsi. Chi studia per conoscere la Storia dell’arte possiede quindi uno strumento unico per capire ed orientarsi nella storia e nella vita.

Un’analisi di Annamaria Testa ha dimostrato che la concezione che gli Italiani hanno di creatività è un mescolamento in parti uguali di astuzia/furbizia e di “dono degli dei” e non, al contrario, una facoltà suscettibile di essere sviluppata e messa a profitto. Dalla Ricerca Eurisco 2004 si evince, d’altra parte, che per gli Italiani la creatività è rilevante per il campo della moda (il 60%), della cucina (il 43%), dell’economia (il 6%): in altri termini la creatività sarebbe un requisito per rompere le regole, non per superarle, e si rivelerebbe indispensabile nel campo degli hobbies o al massimo per destreggiarsi nelle difficoltà della vita.

Al contrario, il Rapporto dell’Unione europea, Economia della cultura in Europa, ha provato in modo sistematico che l’intero comparto delle attività culturali e creative – dall’editoria alla moda al design al cinema – ha, in realtà, un impatto economico di portata inaudita. Secondo un dato del 2003, oggi ben più consistente, vale più di 650 miliardi di euro, fattura più del doppio dell’industria dell’automobile (271 miliardi) e contribuisce al pil europeo in misura maggiore rispetto a tutte le attività immobiliari.

Di fatto, il settore delle attività culturali e creative dà il maggiore singolo contributo alla crescita della ricchezza nazionale di quasi tutti i Paesi europei. Questo è un dato su cui riflettere, non solo e non tanto perché non bisogna indulgere alla mercificazione, allo spreco e/o alla svendita del patrimonio culturale, ma più che altro perché non si deve trascurare il fatto non secondario che spesso, per esempio, un visitatore venga paradossalmente attratto e narcisisticamente compiaciuto più dalla riproduzione di un’opera d’arte del book shop che dall’opera d’arte stessa, che deve necessariamente essere concepita come un manufatto culturale atto a suscitare riflessione, emozione, conoscenza. Al riguardo, un uso corretto dal punto di vista economico della produzione artistica è quello che riconosce nell’immaginazione e nella creatività le condizioni di base e l’ambiente di un Paese che possa rinnovarsi e innovare.

Fin dal 1951 l’anisa (Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte) ha fatto della difesa della cultura italiana e della Storia dell’arte un suo punto di forza. Si ricordano molte battaglie, da quella che prevede il curriculumcontinuo – cioè la presenza dell’istruzione all’arte fin dalle elementari – al famoso appello del 2008 per la reintroduzione delle due ore canoniche di Storia dell’arte firmato, tra gli altri, dal Presidente Napolitano in occasione del varo della Riforma Gelmini che prevedeva per la disciplina una sola ora al liceo classico, al pari della religione cattolica, con conseguenti doveri in termini valutativi, mentre a nessun’altra disciplina erano state riconosciute meno di due ore, per un minimo di dignità[1].

Il problema, adesso, non è tanto quello di farne una questione oraria, perché tutti rivendicano ore e a nessuno basta mai il tempo previsto per la didattica: il nodo fondamentale da valutare sono gli strumenti di cui disponiamo e gli investimenti sugli insegnanti perché la Scuola è fatta da insegnanti che devono oggi più che mai essere in grado di veicolare l’educazione all’arte tenendo conto di tutte le  trasformazioni che la nostra società ha subìto, mostrando di possedere una conoscenza approfondita di quello che ci ha preceduto ed altrettanta capacità di interpretare il presente. La criticità fondamentale viene più che altro individuata nello scollamento tra la formazione universitaria e il mondo della scuola contemporanea – la vicenda dei TFA (Tirocinio Formativo Attivo)la dice lunga in proposito – laddove i docenti universitari ignorano completamente quelle che sono le competenze richieste a livello europeo: lacune gravi che la ssis aveva cercato di colmare e superare. Questo scollamento è ora più che mai evidente, essendo nuovamente tornata in carico all’Università la formazione del docente.

Chi deve essere l’insegnante? Superato lo stadio del problema disciplinare con l’autorevolezza della sapienza e della gestione della classe con l’abilità di “un domatore di leoni”, è un fatto che oggi sempre di meno gli alunni siano disposti a sacrificarsi e ad impegnarsi se non capiscono perché lo fanno. L’insegnante deve far leva sulla ragione e sull’emozione, deve conoscere ma anche appassionare,  avere un senso forte dell’etica e dell’istruzione, una formazione costantemente aggiornata.

Allora, tanto per fare un esempio, quando si parla di insegnamento situato, se si parte da un oggetto specifico che i ragazzi possono circoscrivere, tenere e toccare,forse si può più facilmente arrivare a delle letture raffinate delle opere, a situarle nella storia e nel tempo, diventando conoscitori della Storia dell’arte. Oggi quindi, più che mai, è richiesta una professionalità diversa: è molto più difficile insegnare per tanti motivi che vanno dalla trasformazione antropologica-sociologica della società alla rivoluzione della scuola dell’autonomia, che tanta fatica fa ad affermarsi ma che in qualche modo si è aperta dando libertà al docente, cui sono conseguentemente richiesti una maggiore professionalità ed un maggiore impegno.Tutto ciò si scontra pesantemente, e non senza inquietanti risvolti psicologici, con la considerazione sempre in calo che si ha, socialmente parlando, dell’insegnante.

In Giappone vige il dettoper cuigli unici cittadini che non sono obbligati ad inchinarsi davanti all’imperatore sono gli insegnanti: i Giapponesi hanno capito che “senza insegnanti non ci possono essere imperatori“. E questa è già, a mio parere, una competenza valutabile: saggezza orientale, un  altro mondo.

 

Orbene, sulla scorta dell’analisi didattica della parte per il tutto, si potrebbero, per contrasto, analizzare le immagini pubbliche di Berlusconi o di Bush che fanno le corna in contesti istituzionali, quali indizi significativi per un’interessante ed appassionante lettura sociologica-politica-economica dei rispettivi Paesi.

 

 

 

 



[1] Vedi  Carla Deplano, “Sarà vero che con la cultura non si mangia”?, Sardegna Soprattutto, 21 ottobre 2013.

One Comment

  1. Interessante, grazie Carla

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