Omofobia, sessismo, una questione di genere (II) [di Maria Francesca Chiappe]

Un momento della Festa delle Famiglie Arcobaleno a Salerno, madrina Vladimir Luxuria. Salerno, 3 maggio 2015. ANSA/MASSIMO PICA

La Relazione qui di seguito è stata letta Sabato 18 a Sassari in Piazza d’Italia nel corso della manifestazione contro sessismo, razzismo, omofobia che ha concluso l’iniziativa “Diritti al cuore”. La prima comunicazione è stata pubblicata sul tema è stata pubblicata il 19 giugno 2016. (ndr)

Il fatto che siamo qui stasera significa principalmente che c’è bisogno di manifestazioni come questa. Significa che c’è un problema di discriminazione sessista, razzista e omofoba. Chi nega che anche in Sardegna ci sia bisogno di una nuova educazione, di nuovi modelli culturali, di un dibattito rinnovato e continuo, dice bugie o semplicemente non sa guardarsi intorno.

E’ innegabile che l’attenzione su questi problemi ci sia:  tragedie come quella di Orlando costringono tutti a discutere di omofobia, il numero impressionante di femminicidi pone la questione da tempo al centro del dibattito pubblico, gli sbarchi di migranti uniti alla crisi economica hanno risvegliato sentimenti a lungo nascosti o negati. Dunque il faro su questi temi è acceso. Il problema è capire quanto concretamente nelle Istituzioni, nelle organizzazioni, nella società, nella quotidianità ci sia la voglia, e l’interesse, a eliminare le discriminazioni sessiste razziste omofobe. Bisogna capire quanto le affermazioni di principio, rivendicate in questa piazza oggi, siano seguite da azioni concrete.

Credo sia necessario diffidare dall’eccesso di disponibilità teorica quanto poi sul piano pratico si vede poco o nulla. Se un prete, un parroco, ha avuto l’ardire di essere pubblicamente , apertamente e arrogantemente omofobo, dov’è stata la risposta delle Istituzioni? E non parlo solo della chiesa ma anche del sindaco e pure del presidente della Regione che potrebbero, per esempio, scrivere alla conferenza episcopale. Niente di tutto questo è successo.

Abbiamo solo letto poche frasi di circostanza sui giornali da parte dell’arcivescovo,  “ gli sono stati tolti gli incarichi nella Curia”. Ok. Acqua fresca. Domanda: perché non è stato sospeso quel parroco? Perché non si ha il coraggio di prendere veramente posizione? Perché con un’azione concreta non si dà un contributo reale al cambiamento di mentalità all’interno delle parrocchie dove è diffusa una mentalità omofoba?   Perché molto semplicemente non si dice questo?

La cronaca e le tragedie quasi ci obbligano a essere qui oggi, inclusi i rappresentanti delle Istituzioni,  con una partecipazione di massa che ci riempie il cuore di speranza per il futuro, anzi per il presente. Però:  non si può dimenticare che, per esempio davanti alle scelte dell’ex deputato Nichi Vendola sulla maternità surrogata, sui social network si sono esibiti  a frotte i cosiddetti leoni da tastiera, quelli che dietro il computer, e nell’anonimato, insultano senza pietà.

E  qui apro una parentesi per ricordare la mappa dell’intolleranza stilata dall’associazione Vox sui diritti civili, un progetto realizzato da tre università italiane, Bari, Roma e Milano, sui tweet di commento ai fatti di cronaca nell’ultimo anno.  Linguaggio greve e violento, innanzitutto: ebbene,  al primo posto di questa classifica c’è l’odio per le donne, con oltre 280mila tweet, poi quello per i migranti con 38 mila, e per gli omosessuali, 35 mila (il  picco di insulti è in concomitanza con l’esibizione a Sanremo di Valerio Scanu con un microfono avvolto dal nastro arcobaleno. Il picco di insulti contro le donne avviene invece tra agosto e settembre 2015 quando si registrano 14 femminicidi).

E allora vien da pensare che la quotidianità sia fatta di un politicamente scorretto che fa breccia e che si allarga a dispetto della solidarietà e del cordoglio pubblici suscitati dalle tragedie. La presenza di tutti noi qui oggi che vogliamo un mondo senza discriminazioni è la testimonianza  che viceversa viviamo in una società che discrimina. Ed è per questo che dobbiamo cercare di evitare che comportamenti conformisti possano strumentalizzare la sacrosanta battaglia di chi crede nei diritti civili.

La Sardegna è stata terra di migranti e oggi si trova a vivere la stessa esperienza del secolo scorso dall’altra parte della barricata. Da più parti si sente dire: ma qui non ci sono sentimenti razzisti, semmai c’è una sorta di diffidenza ma  è legata alla crisi economica, lasciando intendere che altrimenti non ci  sarebbe neppure quella. Intanto, un mio amico senegalese mi racconta che sui pullman c’è una sorta di apartheid e perfino le persone anziane o sofferenti viaggiano in piedi pur di non stare vicino a un nero (e sto parlando di Cagliari).

Allora: cosa vuol dire non siamo razzisti? E’ facile dirlo: non sono razzista, i sardi non sono razzisti. Il problema è che dalla teoria bisogna passare alla pratica.  Dunque: cosa facciamo per non essere razzisti, per agevolare l‘integrazione delle popolazioni in cerca di un presente migliore? Cosa facciamo, al di là dell’accoglienza e della sistemazione in alloggi che stanno alimentando un mercato capace di arricchire gli speculatori, non certo i migranti,  per aiutare ragazzi e ragazze, adolescenti e giovani adulti che attualmente ciondolano nelle nostre città e nei nostri paesi senza nulla da fare e senza capire una parola di italiano?

Cosa facciamo per insegnar loro un lavoro che li inserisca veramente nella nostra società o, i più giovani, per integrarli nel nostro sistema scolastico? Qual è la nostra azione concreta che ci fa dire “non siamo razzisti”? Questa è la domanda che io credo sia necessario porre ora, qui , subito , a ognuno di noi e alle Istituzioni che ci rappresentano.

E cosa facciamo per le donne, per eliminare il femminicidio e tutte le forme di violenza, psicologica e fisica, molte delle quali taciute se non nascoste? Sento molti inviti: denunciate denunciate denunciate. Come se, ancora una volta, la colpa fosse delle vittime. “Uccisa o pestata perché non hai denunciato, non hai avuto il coraggio,  fifona, se lo avessi fatto invece…”.  Basta, è ora di dire basta. A parte che sono tante quelle che, pur avendo denunciato,  sono state uccise o quasi, è successo a Villacidro e di recente pure qui a Sassari, quindi la denuncia troppe volte non serve  ed è giusto discutere e indignarsi per l’ ennesima assurdità. Ma basta con queste semplificazioni.

Bisogna cominciare dall’inizio, non dalla fine, bisogna cominciare dall’educazione al rispetto. Un recente articolo su Repubblica ricordava che fin da piccoli ai bambini si insegna che le femminucce non si toccano neanche con un fiore:  evidentemente si sente la necessità di farlo perché si pensa che nei maschi comunque alberghi una forma di violenza, ed è così che l’ombra del femminicidio compare presto nella vita  delle bambine.

Cambiamolo tutto questo: cambiamo l’atteggiamento di chi chiede a una donna in cerca di lavoro se ha intenzione di far figli.  Smettiamo  di pensare che se una donna torna tardi dal lavoro non è abbastanza attenta alla famiglia. Rifiutiamoci di definire “con le palle” una donna che si fa largo nel lavoro e nella vita. Non dobbiamo consentire a nessuno di dire o fare nulla di tutto questo in nostra presenza.

Combattiamo il sessismo nel nostro quotidiano. Combattiamo allo stesso modo razzismo e omofobia, restiamo in servizio permanente effettivo, staniamo i finti solidali, i falsi sostenitori dei diritti in ufficio, al bar, in palestra, ovunque. I diritti non sono degli omosessuali, dei migranti o delle donne, sono i nostri diritti. A noi, a ognuno di noi, il compito di conquistarli, nel quotidiano, senza delegare ad altri tutto quello che è nelle nostre possibilità.

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