Nuove periferie crescono in mezzo a noi [di Antonio Scurati]

Is Mirrionis

La Stampa 22/6/2016. Le periferie, dove si trovano le periferie? Ora se lo chiedono tutti. Soprattutto se lo chiedono i dirigenti del Pd mentre contemplano sgomenti la foto di Renzi che decide di commentare i risultati di una disfatta storica accanto a Massimo Bottura, lo chef superpremiato da 150 euro a coperto

È tutta qui l’immagine dello smarrimento: il leader di quel che fu il più grande partito comunista dell’Europa occidentale si bamboleggia con le tre stelle Michelin mentre le periferie si avvelenano con i polli geneticamente modificati e votano le cinque stelle.

Dove si trovano le periferie? Nessuno dei giovani rottamatori, invecchiati dalla sera alla mattina, lo sa più con precisione mentre studia le mappe cittadine del disastro elettorale: a Torino Fassino tiene in centro e sulla collina, a Roma Giachetti quasi solo ai Parioli, a Milano Sala vince dentro la cerchia del Naviglio. Tutto il resto è l’ignoto di periferia, una terra divenuta straniera. A Napoli, dove anche il centro è periferia, il Pd non arriva nemmeno al ballottaggio.

Dove cominciano, dunque, queste misteriose periferie? Se si vuole raggiungerle, non è necessario andar lontano. Basta guardarsi attorno. Le nuova periferie non sono, infatti, soltanto aree urbane delimitabili sulle mappe cittadine; sono piuttosto dimensioni storiche, esperienze sociali, luoghi dell’immalinconita anima popolare. Aree golenali in cui imputridisce la vita collettiva.

Per raggiungerne una, tra le tante periferie del nostro scontento, sarebbe sufficiente che domattina seguiste i vostri figli nel loro quotidiano percorso verso la scuola pubblica. Se poteste, non visti, varcare i cancelli di quel mondo a parte che boccheggia da decenni in stato d’assedio nel centro vitale del nostro futuro, potreste osservare muri sbrecciati, aule soffocanti, edifici che sembrano progettati da architetti di campi di concentramento.

Soprattutto, lungo quei pavimenti scoloriti di gomme resilienti, vedreste trascinarsi donne e uomini avviliti e stanchi. Sono gli insegnanti che dovrebbero formare i vostri figli; componevano fino a ieri la più solida base elettorale dei partiti di sinistra e seguono oggi le nuove stelle.

Quello degli insegnanti è uno dei molti casi in cui l’emarginazione non è un fenomeno urbanistico. Quegli insegnanti avviliti e stanchi risiedono, per lo più, negli stessi quartieri abitati dai loro genitori, ma la storia li ha disertati. Sono entrati in un margine di esclusione storica in seguito al pluridecennale disconoscimento dell’importanza della loro funzione sociale. In altre parole, più crude: di loro a nessuno, da troppo tempo, frega più niente.

La cosiddetta «buona scuola», una pseudo-riforma imposta a brutto muso dopo la solita beffarda consultazione on line, ha inflitto al morale del corpo docente il colpo di grazia di una cattiva politica ridotta ai propri slogan. Nessuna attenzione agli aspetti educativi, nessuna autentica valorizzazione sociale del sapere, ogni accento spostato sulle logiche organizzative e gestionali, sulle demagogie dei centomila posti di lavoro.

Se poteste entrare nelle aule insegnanti assistereste al risultato di questa ennesima delusione. Vedreste i precari neo-assunti, membri del cosiddetto «organico di potenziamento», inquadrati con mansioni di «tappabuchi», industriarsi con i loro cellulari obsoleti per ingannare il tempo dividendosi tra un sito porno in navigazione protetta e una community di amanti dei gatti. Di fronte a loro, a osservarli in cagnesco, inaciditi da decenni di confino nelle retrovie della battaglia per l’educazione delle giovani generazioni, scorgereste i docenti tradizionali, indecisi se invidiare l’inedia dei nuovi arrivati o se rimanere fedeli alla propria affannosa impotenza.

Ad attenderli in classe c’è un computer collegato a Internet, dono del riformatore spavaldo e distratto. Nonostante tutte le ricerche scientifiche abbiano oramai dimostrato che l’accesso immediato all’indistinta informazione non favorisca ma, al contrario, ostacoli l’acquisizione di un qualsiasi sapere, la presunta panacea del tablet in ogni classe costringerà la loro lezione di algebra o di storia medievale a competere con l’ultima canzonetta di Justin Bieber. E poi con il bonus di ottanta euro si gustino pure una pizza o si comprino «uno zainetto» (Renzi dixit)! Ecco: scrutate, non visti, questa astiosa guerra tra poveri – poveri di spirito – e avrete trovato l’indirizzo di una delle tante nuove, poco misteriose, periferie.

Poi andatevi a cercare le immagini dell’ultimo comizio di Piero Fassino, figlio di partigiano, già segretario dei Democratici di Sinistra. Per la chiusura della sua perdente campagna elettorale Fassino ha scelto proprio una scuola. Deve, però, essersi smarrito anche lui, perché si trattava della Scuola Holden di Alessandro Baricco. Un magnifico edificio riattato da Renzo Piano e arredato da Dante Ferretti dove un centinaio di ragazzi privilegiati coltivano i propri sogni creativi dietro pagamento di una retta di ventimila euro.

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