Qualche riflessione sul Brexit [di Costas Lane]

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Bisogna seguire i soldi, Cercare e valutare i contributi degli Stati membri al bilancio europeo. C’è chi mette e chi prende. Per capire cosa sta succedendo si può anche partire anche da queste considerazioni.

Si va dai quasi 26 miliardi versati ogni anno dalla Germania ai circa 65 milioni di Cipro, in mezzo c’è di tutto, compreso il famoso “rebate” inglese che comunque non ha impedito di fare del Regno Unito un contributore netto. Sono, infatti, contributori netti quegli Stati che nel calcolo del Dare e Avere, ogni anno staccano un assegno senza ritorno per finanziare le politiche e le spese amministrative dell’Unione europea.

Nel 2015, Il saldo netto era negativo per Germania (14 miliardi di Euro), Francia (6 miliardi di Euro), Olanda (4,3 miliardi di Euro), Inghilterra (4,3 miliardi di Euro), Italia (3,7 miliardi di Euro) Svezia (2,1 miliardi di Euro) Austria (1,1 miliardi di Euro), Danimarca (700 milioni di Euro) e Finlandia (700 milioni di Euro). Un enorme bancomat comunitario in cui nove Stati costantemente versano e diciannove continuamente prelevano.

Dei 37 miliardi complessivi travasati dai nove Stati, la Germania da sola ne mette il 40%. Questo è il bilancio dell’Unione europea, compreso il costo delle sue istituzioni, ma, se noi partiamo dall’assunto che nessuno Stato regala soldi, è evidente che gli investimenti dei paesi contributori devono avere un tornaconto sulla bilancia del peso politico, della sfera di influenza e degli interessi nazionali.

Il resto è idealismo stolto di chi non conosce questi meccanismi o si convince che ci sia un percorso naturale verso gli Stati Uniti d’Europa. L’atteggiamento del Presidente Juncker in queste ore è il riflesso di questa visione piccola, diversa statura dovrebbero avere i veri Capi di Stato europei, la Merkel in primis, per consentire al processo di integrazione di avanzare. È certamente vero che il ruolo del Regno Unito, dentro e fuori le istituzioni, è stato sempre quello di frenare il processo di costruzione dell’integrazione europea. Ma proprio perché è sempre stato il freno dell’Europa è ancora più difficoltoso immaginare l’Unione europea senza i britannici. Chi di noi comprerebbe un’auto senza freno?

L’uscita del Regno Unito priverà l’Europa del 10% del suo budget. Il contributo complessivo del Regno Unito di circa 11 miliardi e mezzo rimarrà in sterline e si potrà usare per finanziare nazionalmente quelle politiche prima comunitarie. I pescatori e gli agricoltori avranno garantiti dal loro Stato i soldi che prima passavano per Bruxelles, lo stesso sarà per i disoccupati, per le regioni e per tutte le altre iniziative europee. Rimarrà inoltre nelle casse della Regina un assegno di oltre 4 miliardi di euro. La quota annuale per accedere al club della libera circolazione di merci, persone e capitali. L’unica cosa che interessava i britannici, già fuori da Schengen e dall’Euro.

Per anni i giornali inglesi, anche i migliori, hanno bombardato sull’inefficienza delle istituzioni, sui soldi buttati nelle politiche europee, sull’inutilità del parlamento. Con qualche ragione hanno raccontato, loro che parlano una sola lingua che tutti dovrebbero capire, di un servizio di traduzione e interpretariato che conta ottomila persone e che deve garantire i documenti in tutte le ventiquattro lingue ufficiali degli Stati Membri, dell’inutile e costosa sessione plenaria di Strasburgo, delle incompiute nel Sud Italia o dei paradossi della Politica Agricola Comune.

Qualche mese fa sono stato in Inghilterra, quella profonda e rurale; Dorset, Sommerset, Bath, Bristol. Non c’era una bandiera europea neppure a pagarla. Non c’era raccolta differenziata non c’erano energie rinnovabili,  nessuno parlava altra lingua oltre l’inglese, si guidava a sinistra,  si pagava in sterline. L’integrazione in quei luoghi non è mai esistita.

L’uscita del Regno Unito è la scommessa di due perdenti. Non ci sarà un  vincitore perché consegna ai continentali un’Europa appiattita sugli interessi tedeschi e priva i britannici di tutti i vantaggi del processo di integrazione. È come fare un grande salto indietro di 40 anni, ma senza il muro di Berlino e con una Germania riunificata, forte dal punto di vista economico e finanziario, egemone da quello industriale, ricca di una liquidità mai vista e alimentata da una conveniente (per loro) deflazione della moneta unica.

In questo quadro deprimente, immaginare una soluzione per recuperare il popolo britannico dentro il perimetro dei trattati europei non è solo puro esercizio di fantapolitica. È forse il sogno di un europeista convinto che ancora crede si possa salvare un luogo di mediazione che ha regalato prosperità e distribuito in tutta Europa il dividendo più consistente di questi ultimi 70 anni, una pace lunga, duratura, fruttuosa.

Per questi motivi va vista di buon occhio la prudenza britannica nel dilatare i tempi del divorzio e la saggezza tedesca nell’assecondare una riflessione approfondita. Atteggiamento prudente e contrario a quello bellicoso del Presidente della Commissione, giustificato probabilmente con l’esigenza di ribadire ai terzi scalpitanti che il club è una cosa seria. si paga il biglietto e si sta dentro, chi vuole uscire deve sapere che rientrare sarà difficile e complicato. Come nei film Z del cinema western, viene da chiedersi: Juncker grida per farsi coraggio o per nascondere la paura?

Va invece agevolato e facilitato il dibattito in corso in Gran Bretagna, le riflessioni non sono di poco conto e le dimissioni del Primo Ministro un atto da non sottovalutare. Non si potrà prescindere dal famoso articolo 50 del Trattato e dal conseguente negoziato di due anni. Ma due anni in politica sono un tempo geologico e nel frattempo qualcuno immagina la possibilità di riproporre ai britannici il progetto europeo.

Probabilmente attraverso elezioni politiche generali dove si dovrebbero confrontare e contare i favorevoli e i contrari all’Unione europea. Elezioni politiche durante la fase negoziale e, dopo un’eventuale vittoria degli europeisti, un nuovo referendum. Una strada stretta, accidentata, piena di problemi, l’unica percorribile per tentare di salvare le istituzioni comunitarie. Per questo motivo bisogna tenere i toni bassi, servono europei all’altezza dei tempi, leader coraggiosi e illuminati.

*Economista

 

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