La vergine Caterina [di Francesca Gallus]
Era di pura bellezza quando morì, nell’innocenza spontanea dei suoi dodici anni. Era rosa e bianca, coi capelli biondi che si annodavano in morbide onde, gli occhi scuri e dolci, le labbra sottili, e le manine paffute, con le dita a punta e piccole unghie lucide. Era talmente bella, la vergine Caterina, che i genitori non potevano immaginare di perderla.
Chiamarono un pittore, perché le facesse il ritratto, e i suoi capelli, mentre diventavano stoppa, sulla tela riprendevano il colore dell’oro. E nel suo sguardo tornava ad ardere la scintilla folle, che l’artista non aveva conosciuto. Fecero costruire una teca di cristallo, come nelle favole che ancora la bimba leggeva per trastullo, e ve la deposero, in una vestina bianca, a piccoli gigli ricamati, con un collettino di pizzo talmente leggero che mettendoglielo si aveva paura di romperlo con le dita. Fu circondata di rose selvatiche e gelsomino, che in una sola notte scolorirono e persero il loro profumo. La teca fu sigillata con un filo di piombo; la fiamma che lo sciolse fece bruciare gli orli della veste e sbriciolare i fiori. Tutto il rosa e il bianco che la vita le aveva regalato si trasformarono, nella morte, in un color caramello.
La folle Caterina, che si era tuffata dal tetto della stalla in una notte senza luna ed era spirata senza che le si vedesse nemmeno un graffio in tutto il corpo, risorse dalla sua cenere, e dalla cenere dei suoi fiori funebri, e divenne santa. Esposta alla venerazione dei signori e dei servi, in una nicchia alla base della scala a tenaglia del grande atrio della casa padronale, un ramo della quale portava agli appartamenti della villa e l’altro alla corte rustica, sotto il suo ritratto d’oro e d’argento antico, Caterina, oggetto di suppliche e preghiere, attrasse la devozione di tutto il circondario.
I vecchi santi, tanto adorati e tanto indifferenti, avevano deluso troppe volte: si erano fatti arroganti dal tanto essere pregati e guardavano ai loro fedeli sulla terra ormai troppo di rado. C’era bisogno di un’avvocata ancora umile, che avesse forza giovanile e buona volontà per trasportare le ardenti richieste dal basso all’alto, per i sentieri del cielo. La bellezza della bambina, intatta dietro il gelido cristallo, era l’evidenza della benevolenza di Dio. E nel volgere di pochi mesi copie maldestre del suo ritratto invasero le miserabili abitazioni dei villaggi vicini.
I parroci, riuniti in consiglio segreto, per evitare di veder scomunicare il loro gregge eretico decisero di benedire il piccolo corpo di cera, al termine di una processione vespertina, e di spedire al vescovo un appello. Vi si chiedeva l’esame della vita della vergine, l’analisi dei fatti miracolosi che già le venivano attribuiti e l’imprimatur sulle parole di supplica che i contadini avevano composto per lei.
Il testo della preghiera era riscritto; la mano degli uomini di chiesa vi aveva aggiunto, a caso, qualche verbo latino e qualche ave e gloria, per dare un tocco di ortodossia alla rozza lingua dei poveri. Nel racconto della vita si leggeva della passione della bambina per le creature più umili e del modo che aveva di raccogliere i piccoli insetti in barattoli di vetro, che conservava nella sua stanza, sotto il letto, e liberava la sera, per dormire circondata dalla vita.
Si taceva del disgusto delle cameriere, che al mattino dovevano camminare sul pavimento brulicante di formiche e lombrichi e dovevano proteggersi i capelli dall’assalto delle falene e delle cavallette. Si taceva dei decotti di erbe che la balia teneva pronti per medicare le morsicature e i gonfiori che ricoprivano la pelle di Caterina. Si leggeva delle parole arcane che pronunciava nel mezzo di un discorso comune, riferendole come ispirate dagli angeli per comunicare con le creature terrene. Si taceva del precettore che indefessamente, da nove anni, cercava di insegnarle la pronuncia corretta delle frasi più semplici, ottenendo in cambio sputi e morsi.
Si parlava del suo amore per i più poveri e sfortunati e del modo con cui aveva preso a cuore la sorte di Michele, il garzone di stalla, diciassettenne, istupidito dalle febbri terzane. Si diceva di come gli portava un pezzo del pandolce conservato apposta dalla colazione, dei libri illustrati che gli regalava, perché conoscesse le cose del mondo.
Non si parlava però del giorno in cui tornò dal fienile spettinata e sudata, con le guance rosse, rigate di lacrime e i lividi sui polsi sottili, né delle fughe notturne che da quel giorno la piccola Caterina mise in atto a dispetto della sorveglianza che da sempre la balia esercitava sui suoi sonni inquieti.
Il vescovo era molto occupato; preso dagli uffici della sua carica non ebbe per molto tempo l’occasione di farsi leggere dai suoi segretari la petizione dei parroci di campagna. Ma nel frattempo l’andirivieni di oranti prese a noia ai genitori di Caterina. I fiori ed gli ex voto intralciavano il passo e il mormorio delle preghiere li assordava. Il puzzo dei villici, misto all’incenso e all’odore marcio dei gigli di campo, ristagnava nell’atrio, rendendo l’aria irrespirabile.
Imbarazzati dallo spettacolo e dalla promiscuità i signori delle proprietà confinanti non osavano più rendere visita, non si poteva uscire dal lutto, non si potevano riprendere gli svaghi e la vita sociale. Inoltre la bellezza di Caterina si andava corrompendo. Quella bimba di cera scopriva pian piano i denti in un ghigno crudele.
Così, per rompere quella catena di dolore e rimpianto, che loro stessi avevano forgiato per tenere attaccata al mondo la loro creatura defunta, i genitori di Caterina mandarono a chiamare Michele, il garzone di stalla, che confessò il suo delitto in cambio della minaccia della frusta e della promessa di una sposa e un nuovo impiego nella tenuta di Corte Vecchia, a due giorni di viaggio da lì.
Da quel momento voci ambigue e raccapriccianti iniziarono a circolare per le campagne, e i contadini genuflessi nell’atrio si sussurravano, fra una lode e un amen, particolari scabrosi sulle abitudini depravate della piccola che erano corsi a venerare. Sparirono le copie del ritratto dai poveri focolari, appassirono i gigli di campo nell’atrio e l’orribile simulacro della bellissima folle bambina venne forzato dal piede di porco.
Mentre il cristallo si frantumava in una rete di crepe sottili l’aria inceneriva i capelli di seta, la veste di tulle e di organza, le membra ed il volto di cartapecora, e le trentadue perle rotonde dei denti caddero contemporaneamente sulla polvere color caramello. Quando il Vescovo e il suo seguito giunsero in visita, si aprirono i saloni della villa, si pulirono argenti e si stesero tovaglie di bisso e, dopo una messa di suffragio nella cappella funeraria ed un pranzo di gala alla presenza di tutta la nobiltà del vicinato, gli si regalò il ritratto d’oro e d’argento antico della vergine Caterina.
Commosso dalla storia della breve vita pura e sedotto dalla tenera bellezza del ritratto, il vescovo promise di intitolarle la parrocchiale.
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