È l’Antropocene, bellezza [di Olmo Viola]
Micromega.it 5 luglio 2016. Negli ultimi millenni la nostra specie ha modificato così profondamente la superficie terrestre che le maggiori riviste scientifiche internazionali stanno decidendo se nominare questa epoca geologica “Antropocene”. Una delle tracce globali dell’Antropocene è un’ecatombe di esseri viventi. La Sesta Estinzione di massa è in corso e noi ne siamo i responsabili principali. In questo modo mettiamo in pericolo anche la sopravvivenza della nostra specie nel futuro. Se ne parla poco, ma quanto sta succedendo contraddice il participio di specie che ci siamo presuntuosamente auto-attribuiti: “sapiens”. Di tutto questo discute l’eccellente documentario Racing Extinction di Louis Psihoyos, mettendo in evidenza anche il ruolo nefasto di alcune insensate “credenze tradizionali”. Folletto. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va? Gnomo. Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. […] Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti […]. Gnomo. Che vuoi tu inferire? Folletto. Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta. Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino. Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette? Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo? Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo. […] Gnomo. Ma come sono andati a mancare quei monelli? Folletto. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male. Gnomo. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici. Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione. Gnomo. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli. […]. Giacomo Leopardi scrisse il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo nel marzo del 1824. Venne inserito nella raccolta delle Operette Morali. Il dialogo è una presa in giro dell’egocentrismo cosmico che ogni soggetto, e forse ogni specie, adotta per sentirsi speciale in un universo che percepisce, erroneamente, pieno di fini. I due protagonisti sono concordi nel deridere gli uomini che chiamavano le loro guerre “rivoluzioni del globo”, e alla faccia loro, ora che son scomparsi, tutto procede indisturbato; ma ben presto i due dialoganti finiranno per litigare tra di loro sulla questione se il mondo sia realmente fatto per gli gnomi o per i folletti. Il secondo tema che è trattato dall’autore è quello dell’estinzione, la possibilità che una specie vada perduta per sempre. Il poeta di Recanati elaborò questo divertissement immaginando l’umanità vittima dei propri vizi. Dopo quasi duecento anni i vizi di Homo sapiens stanno realizzando quella profezia, soltanto al rovescio: i vizi della nostra specie stanno decimando le altre specie. Questo è quanto emerge da numerosi studi recenti sulla salute della biosfera terrestre, passati quasi inosservati sui media. Gli scienziati hanno iniziato a parlare di una Sesta Estinzione di massa [1] causata dalla nostra specie [2]. È bene specificare cosa intendono i naturalisti odierni distinguendo tra estinzioni di sfondo ed estinzioni di massa. Le estinzioni di sfondo sono le estinzioni che avvengono secondo la prospettiva darwiniana classica: alcune specie perdono la battaglia per la vita in un gioco articolato di avvicendamenti nell’arena biologica secondo processi ordinari. Tale tasso di estinzione varia per i vari viventi ma è piuttosto basso: circa 2-4 famiglie ogni milione di anni. Le estinzioni di massa sono molto più estese, colpiscono i tre quarti di TUTTE le forme di vita, sono più rapide, hanno una dinamica globale, non meritocratica, e le cause possono essere ritenute eccezionali rispetto al normale corso degli eventi. Cosa sta succedendo oggi sul nostro pianeta? I tassi di estinzione odierni calcolati non possono essere riducibili a quelli di una normale estinzione di sfondo: anche essendo conservativi nei calcoli i numeri delle specie trapassate sono troppo grandi per essere ricompresi in una dinamica ordinaria [3]. Non si sa con precisione quante specie esistano né quante siano andate perdute, ma si stima che ogni anno si estinguano tra le 11000 e le 58000 specie [4]. Si stanno insomma realizzando le precondizioni essenziali per una catastrofe perfetta: dinamiche climatiche inusuali, cambiamento della composizione dell’atmosfera e dei mari, stress ecologico intenso e generalizzato. La goccia che fa traboccare il vaso siamo noi. Da quando Homo sapiens è uscito definitivamente dall’Africa per espandersi sul pianeta circa 60000 [5] anni fa, la sua diffusione nei vari continenti è sempre stata correlata con la scomparsa dei grandi vertebrati che abitavano quelle terre. Ogniqualvolta i nostri antenati si affacciavano su nuovi territori, quasi necessariamente le popolazioni di altre specie iniziavano a declinare (o proprio a precipitare, soprattutto grandi mammiferi da noi predati), e questo schema si è ripetuto costante fino a tempi recenti. L’idea ingenua di un’umanità antica che viveva in armonia con la natura e gli altri viventi è un mito, duro a morire, che nasconde cadaveri di decine di altre specie. Ma non si deve pensare che i nostri antenati fossero degli omicidi folli che godevano nel farsi bagni di sangue tra le viscere dei mammiferi giganti del passato. É più probabile che i nostri antenati siano giunti a modificare le relazioni in ecosistemi già provati a causa di fluttuazioni climatiche importanti dovute ai periodi glaciali e interglaciali [6]. Interessante è anche la correlazione con la scomparsa dei nostri cugini più prossimi, i Neandertal, che sparirono in concomitanza con la diffusione di Homo sapiens in Europa [7], ma per ora non vi sono tracce di contatti violenti. Lo stesso vale per l’estinzione di Homo floresiensis, che secondo le ultime datazioni coincide con l’arrivo di Homo sapiens in Indonesia. L’impatto umano sulla biosfera è aumentato ulteriormente a partire dalla rivoluzione agricola iniziata circa 12 mila anni fa in varie zone del globo, cominciando dal Medio Oriente. Si è iniziato ad addomesticare le piante e alcuni animali, favorendo la diffusione di queste poche specie a noi utili a danno di molte altre che ci sono risultate dannose o solo fastidiose. Nei secoli successivi l’incremento della popolazione, l’urbanizzazione e la rivoluzione industriale hanno aumentato la nostra capacità corrosiva sulla superficie terrestre. Le attività industriali hanno iniziato a inquinare le terre, i mari e l’atmosfera alterandone la composizione. Si è contribuito alla frammentazione degli habitat attraverso la deforestazione e la cooptazione dei terreni in pascoli e coltivazioni[8]. Si sono disseminate specie aliene (si definisce una specie aliena una specie che a causa dell’uomo ha colonizzato con successo un territorio diverso dal suo areale storico, per esempio le nutrie, gli scoiattoli grigi, la robinia, i pesci gatto) su tutto il globo e ciò ha fatto si che si rimescolassero globalmente la fauna e la flora. Le risorse biologiche (per esempio si pensi agli eccessi della pesca e della caccia) e anche geologiche (combustibili fossili) vengono sfruttate oggigiorno in modo cieco, ossessivo, depauperandole e sottraendole al nostro futuro. Tutte queste azioni hanno modificato la superficie terrestre e lasceranno una traccia geologica importante nella storia del pianeta. Tant’è che appunto si può legittimamente definire questa età geologica come Antropocene, termine coniato da Paul Crutzen, chimico vincitore del premio Nobel per aver scoperto gli effetti della decomposizione della fascia di ozono. Il dibattito riguarda soltanto quando fissare con precisione la data d’inizio. L’essere i principali imputati di un’estinzione di massa non dovrebbe coglierci di sorpresa: sono molti anni che si è lanciato l’allarme e mensilmente, settimanalmente, quotidianamente pubblicazioni, film, documentari trattano di questo problema. Per esempio alla fine del 2015 è stato distribuito il documentario Racing Extinction [9], diretto da Louis Psihoyos, già vincitore di un oscar per il documentario The Cove nel 2009. Nel documentario gli autori portano l’osservatore in varie zone del mondo per metterlo a contatto diretto, attraverso le immagini, con quello che sta accadendo alla biosfera. Si tenta di mostrare quel cocktail mortale costituito da una molteplicità di cause che si compongono a produrre un veleno mortale per la biosfera, rintracciando sempre quale barman un rappresentante della nostra specie. La grande rete della vita si sta dissolvendo davanti ai nostri occhi, e il tutto sta avvenendo rapidamente a più livelli. Questo è messo in mostra nel documentario attraverso le immagini della dissoluzione della barriera corallina dovuta all’acidificazione degli oceani causata dalle emissioni di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera. Forse non tutti sanno che parte della CO2 che viene immessa nell’atmosfera viene assorbita successivamente dagli oceani per un processo di tipo osmotico. La CO2 che si diluisce in acqua ne provoca un’acidificazione, ovvero ne altera il PH, abbassandolo. Ora il PH degli oceani è di circa 8.1 (è stato calcolato che gli ecosistemi odierni collassano con un PH di 7.8 [10] che si prevede sarà raggiunto entro il 2100). L’acidificazione degli oceani comporta una difficoltà sempre maggiore per gli organismi calcificanti a produrre le proprie strutture utili alla sopravvivenza e le conseguenze sono evidenti sulla barriera corallina. I coralli costruiscono le loro strutture utilizzando carbonato di calcio, ma l’acidificazione degli oceani ne diminuisce la quantità relativa disponibile e ne corrode le strutture esistenti: essi si sciolgono non potendo proseguire la loro opera di ristrutturazione continua. La morte dei coralli implica la morte di migliaia di altre specie che si sono coevolute nella barriera corallina. É come togliere le fondamenta a un grattacielo con gli inquilini dentro [11]. L’acidificazione ha effetti nefasti anche sul fitoplancton: esso è alla base delle catene alimentari dei mari e se scomparisse gli effetti si riverserebbero su tutta la catena trofica. Inoltre comporterebbe anche un cambiamento della composizione chimica dell’atmosfera, essendo il fitoplancton il produttore della metà dell’ossigeno prodotto dagli organismi vegetali della Terra. Si tratta di circoli viziosi con retro-effetti sempre più grandi e difficili da calcolare. Si può aggiungere che bruciando combustibili di origine fossile come il carbone e il petrolio Homo (sedicente) sapiens sta immettendo nell’atmosfera tutto quel carbonio che in milioni di anni si era depositato nel sottosuolo, ricostituendo così un opera di restauro delle vecchie condizioni climatiche del passato, ma il tutto a una velocità enorme, velocità che non furono raggiunte nemmeno durante la crisi del Permiano [12]. L’impatto delle nostre attività sul clima globale [13] ha effetti a più livelli contemporaneamente: se da un lato l’immissione di CO2 nell’atmosfera provoca l’acidificazione degli oceani, dall’altro ha anche come conseguenza un riscaldamento dell’atmosfera, che comporta uno scioglimento delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello dei mari. A tal proposito: a chi stanno antipatici i roditori? CO2 e innalzamento del mare hanno fatto un piccolo regalo a chi soffre di musofobia (fobia per i roditori): il Melomys rubicola, un roditore che abitava un atollo dell’Oceania, è appena stato dischiarato estinto; a comprometterne l’esistenza è stato proprio l’innalzamento dei mari conseguente al riscaldamento globale che ne ha pregiudicato l’habitat [14]. Si tratta solo di un piccolo esempio di come gli ecosistemi, gli habitat, le specie siano connessi globalmente. Ritornando alle storie raccontate nel documentario, viene descritta la vita di un piccolo villaggio sulla costa indonesiana presso lo stretto di Lamakera. In questo esempio sono sintetizzati alcuni punti fondamentali che esplicitano il vicolo cieco verso il quale si sta dirigendo la nostra specie. La piccola popolazione di questo villaggio dipende quasi del tutto dalla pesca e dal commercio delle mante, che sono (erano) abbondanti nella zona. I pescatori lavorano per il mercato cinese, che richiede soprattutto le branchie delle mante. Perché proprio le branchie? Come viene raccontato nel documentario in Cina si è diffusa la credenza, supportata dalla medicina tradizionale cinese, che le branchie di manta siano una panacea per ogni male. La loro richiesta è enorme e vengono vendute a caro prezzo. Il mercato è ravvivato da quella credenza dalle non ben chiare origini. Questo esempio permette di fare luce su una parte del problema: quanto le nostre abitudini e credenze tradizionali abbiano degli effetti collaterali dannosi per la biosfera. In questo caso specifico si tratta di una credenza tradizionale del tutto infondata scientificamente (studi scientifici escludono che le branchie di manta possano guarirei tumori). Ciò viene ignorato dalla medicina tradizionale cinese, le correlazioni sono postulate in modo arbitrario, e ciò che ne consegue è lo sterminio di una specie. Esistono altri casi specifici in cui credenze tradizionali hanno effetti dannosi su altre specie o sugli habitat. Per esempio le credenze e le esigenze superficiali che hanno portato e portano alla richiesta di zanne di elefanti o corni di rinoceronti[15] (con effetti deleteri di tipo geopolitico). La questione sta anche nella legittimità di tali credenze e abitudini. É legittimo non offendere e rispettare la credenza secondo cui le branchie delle mante curano ogni malattia? È giusto imporre a un artigiano legato alla tradizione del lavoro dell’avorio di cambiare materiale? Visto che molte credenze si radicano in tradizioni vetuste, le si deve accettare passivamente quale valore e ricchezza culturale o le si dovrebbero criticare e dissolvere? Sono domande che possono essere traslate in molti altri contesti. Non vanno lasciati fuori dalla critica modelli recenti e più vicini, tipicamente occidentali quali il modello fast food, le esigenze modaiole di aggiornamento tecnologico (che portano all’utilizzo di metalli rari la cui estrazione devasta le foreste). In questo caso ci si deve domandare se le dinamiche dei mercati e le modalità dei nostri consumi possano essere messe in discussione. Molti altri esempi potrebbero essere aggiunti in un lungo elenco che parte da vetuste credenze e tradizioni fino ad arrivare ai bisogni indotti dai mercati odierni. Provando a immaginare un suggerimento sulle possibili strade da percorrere, quello che ne dovrebbe conseguire non dovrebbe essere un’omogeneizzazione culturale su un modello unico, ma l’emancipazione da tradizioni ottuse e l’esplorazione di nuove possibili forme di cultura originali, in sintonia con le esigenze soggettive e quelle comunitarie, tenendo come punto fermo la condivisione di conoscenze scientifiche utili a orientarsi e obiettivi quali il benessere comune: di tutte le specie e dell’ecosistema. La faccia complementare del problema è connessa con la coda di queste ultime considerazioni. Ritornando al piccolo villaggio di pescatori di mante, quando i documentaristi arrivarono per filmarli vennero accolti con diffidenza, ma dopo aver guadagnato un minimo di fiducia, durante una sorta di riunione comunale, la comunità esplicitò quanto fosse ben consapevole del problema. Si erano accorti che le mante stavano diminuendo e che in futuro sarebbero probabilmente scomparse, lasciando la comunità senza fonte di sostentamento. Dunque essi sarebbero stati ben predisposti ad adottare una soluzione concreta e immediata per cooptare la loro attività in qualche altra direzione che potesse garantirgli un futuro. In risposta a questo problema venne proposto loro di puntare sul turismo [16]. Una possibilità discutibile, ma comunque un’alternativa. Ma questa è la parte difficile. Elaborare alternative sostenibili valide e renderle attuali. Molte attività umane sono così dannose che andrebbero cessate immediatamente, ma a questo conseguirebbe la perdita del lavoro di molte persone e successivi disagi sociali e politici. Leopardi aveva colto poeticamente questo punto quando scrisse “Infracidando nell’ozio”. Il pensare attraverso categorie millenariste ataviche, che portano ad attendere che una soluzione cali dall’alto senza comportare alcuno sforzo, alimenta soltanto i danni. La difficoltà di promuovere diversi comportamenti, magari anche modelli di sviluppo diversi da quelli dominanti (i quali non hanno fatto altro che incrementare le disuguaglianze), e convincere moltitudini di persone ad adottarli può essere scoraggiante. Aldilà delle resistenze e dei boicottaggi che possono subire, molti individui si impegnano quotidianamente nel promuovere un cambiamento attraverso piccole azioni quotidiane. Importante è la diffusione di idee utilizzando ogni mezzo disponibile. Ogni settimana vengono pubblicati articoli su riviste, su blog, su quotidiani e libri che informano sui cambiamenti in atto, sui danni, su possibili soluzioni a problemi specifici [17]. Associazioni e istituzioni (pubbliche e private) tentano di promuovere un’istruzione scientifica che possa emendare gli orrori che con superficialità si perpetrano ogni giorno. Alternative esistono, basta solo non essere pigri, elaborarle o andarle a cercare. Non fosse altro che per amore delle generazioni future. La qualità della nostra vita dipende in modo fondamentale dalla biodiversità terrestre: quotidianamente sfruttiamo i servizi di 40000 specie come fonte di cibo, per le sostanze medicinali (penicillina), per il ruolo che svolgono nei cicli biogeochimici nella biosfera [18] (produzione ossigeno, impollinazione, fissazione azoto, prevenzione dell’erosione dei suoli, decomposizione dei resti organici…). Non è vero che ci siamo liberati dai vincoli evolutivi, siamo parte integrante della biosfera, e al contempo il suo flagello. Il nocciolo della questione è variare i comportamenti, rimodulare i fini che godono di prestigio sociale nelle nostre società, perché essi sono risultati incompatibili con la salute della biosfera ma anche con la possibilità di preservare il mondo umano. Abbandonare credenze, valori, abitudini tradizionali che finiscono con il corrodere le persone e l’ambiente diviene necessario. Dai resoconti della storia naturale passata, una storia contingente, senza fini, non edificante, possiamo imparare che ciò che è scomparso è perduto per sempre, ma che i caduti aprono al contempo nuovi spazi di possibilità, perché i sopravvissuti possono occupare quelle nicchie ecologiche abbandonate e diversificarsi facendo ripartire l’esplorazione dei sentieri evolutivi. È possibile un altro mondo e si è di fronte a una biforcazione, il futuro adiacente sarà certo più povero di biodiversità ma forse si può ancora agire per evitare che esso rimanga senza di noi [19] (non che la natura ci tenga particolarmente alla nostra presenza, ma per una volta possiamo fare un pensiero egoistico). Il biologo Paul Ehrlich ha affermato che Homo sapiens sta recidendo il ramo dell’albero della vita sul quale esso stesso si posa. Si prefigura un mondo futuro più cupo, povero, conflittuale. A seconda del sentiero che la società globalizzata prenderà si potrà emendare o meno Leopardi, perché se si percorrerà ancora la strada miope in cui siamo adesso forse tra qualche secolo non saranno un folletto e uno gnomo a chiedersi come siamo potuti sparire, ma un ratto e uno scarafaggio. NOTE [1] Si parla di sesta estinzione di massa perché, ad oggi, le ricerche più aggiornate hanno rilevato cinque grandi catastrofi negli ultimi 500 milioni di anni, ovvero a partire dall’esplosione della vita pluricellulare. In ordine: estinzione dell’Ordoviciano 450-440 Ma, estinzione del Devoniano 375-360 Ma, estinzione del Permiano 252 Ma, estinzione del Triassico 201 Ma, estinzione del Cretaceo 66 Ma. Di queste estinzioni la più massiva è stata quella della fine del Permiano per la quale si è calcolato che si siano estinte tra l’80 e l’85% di tutte le specie. Benton, Michael, La più grande catastrofe di tutti i tempi: quando sulla terra la vita rischiò di scomparire, Roma, Newton Compron, 2005. [2] Barnosky, Anthony D., et al. “Has the Earth’s sixth mass extinction already arrived?.” Nature 471.7336 (2011): 51-57. [3] Ceballos, G., Ehrlich, P. R., Barnosky, A. D., García, A., Pringle, R. M., & Palmer, T. M. (2015). Accelerated modern human–induced species losses: Entering the sixth mass extinction. Science advances, 1(5), e1400253. [4] Dirzo, R. et al. (2014). Defaunation in the Anthropocene. Science 345, 401-406. [5] Si veda Tattersall, Ian, I signori del Pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo, Torino, Codice Edizioni. [6]Koch, Paul L., and Anthony D. Barnosky. “Late Quaternary extinctions: state of the debate.” Annual Review of Ecology, Evolution, and Systematics (2006): 215-250. Anche Jessica L. Metcalf et al., Synergistic roles of climate warming and human occupation in Patagonian megafaunal extinctions during the Last Deglaciation, Science Advances, 17 Jun 2016 : e1501682. E anche http://www.sciencemag.org/news/2016/06/rising-temperatures-and-humans-were-deadly-combo-ancient-south-american-megafauna. [7] Kolbert Elizabeth, La sesta estinzione. Una storia innaturale, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2014, cap. 12. [8] Molte piante vengono banalmente bruciate e tagliate per far posto a coltivazioni e allevamenti (http://italiaxlascienza.it/main/2015/10/limpatto-di-agricoltura-e-allevamento-secondo-la-scienza/). Molti tendono spesso a dimenticare che la nostra esistenza dipende interamente dagli organismi vegetali per due fatti: essi trasformano l’energia luminosa dei raggi solari in energia chimica che viene immessa all’interno delle reti trofiche e che permette a tutti gli altri viventi, senza cloroplasti nelle proprie cellule, di esistere; in secondo luogo esse si cibano di CO2 restituendo come scarto utile ossigeno. E come non tener conto delle utili sostanze chimiche di cui disponiamo grazie ad esse: per esempio l’aspirina, gomma, addirittura farmaci antitumorali! (https://dtp.cancer.gov/timeline/flash/success_stories/S2_taxol.htm ) Diminuire la superficie delle foreste e contribuire alla desertificazione potrebbe essere un’ottima strategia se il masochismo fosse il nostro obiettivo esistenziale. Per quello che riguarda l’allevamento: se si tiene conto della superficie dei terreni dedicati alla coltivazione per l’approvvigionamento degli animali, le superfici dedicate al pascolo, quanto gas produca un singolo organismo (una mucca produce più di 200 litri di metano al giorno), la catena di macellazione e distribuzione, si giunge a calcolare una quantità spaventosamente alta di gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale a ai fenomeni connessi che ne derivano (http://www.climatecentral.org/news/farmings-climate-impact-rises-20445. Caro, Dario, et al. “Global and regional trends in greenhouse gas emissions from livestock.” Climatic Change 126.1-2 (2014): 203-216. http://www.repubblica.it/ambiente/2014/04/10/news/ambiente_le_mucche_del_futuro_a_impatto_zero-83202269/ ). [9] http://racingextinction.com [10] Hall-Spencer, Jason M., et al. “Volcanic carbon dioxide vents show ecosystem effects of ocean acidification.” Nature 454.7200 (2008): 96-99. [11] Per ulteriori informazioni e una descrizione più precisa degli effetti dell’acidificazione degli oceani sulla barriera corallina si rimanda a Kolbert Elizabeth, cit. cap. 6-7. E al sito http://oceanservice.noaa.gov/facts/coralreef-climate.html [12] Kolbert Elizabeth, cit., p. 153. [13] http://www.scientificamerican.com/article/antarctic-co2-hit-400-ppm-for-first-time-in-4-million-years/ (si potrebbe festeggiare il nuovo record!). http://www.climatecentral.org/news [14] http://www.nytimes.com/2016/06/15/world/… [15] http://www.limesonline.com/avorio-loro-bianco-del-jihad/55207 [16] http://voices.nationalgeographic.com/201… [17] libri informativi sulla sesta estinzione: Kolbert Elizabeth, La sesta estinzione. Una storia innaturale, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2014. Eldredge Niles, La vita in bilico. Il pianeta Terra sull’orlo dell’estinzione, Torino, Einaudi 2000. Leakey Richard, Lewin Roger, La sesta estinzione. La complessità della vita e il futuro della vita, Torino, Bollati Boringhieri 1998. Altri libri informativi e utili proposte di cambiamento: Weisman Alan, Conto alla rovescia. Quanto ancora potremo resistere?, Torino, Einaudi 2014. Rees Martin, Il secolo finale. Perché l’umanità rischia di autodistruggersi da qui a 100 anni, Milano, Mondadori 2005. Wilson Edward, Metà della Terra. Salvare il futuro della vita, Torino, Codice 2016. Wilson Edward, La diversità della vita. Per una nuova etica ecologica, Milano, BUR 2009. Pievani Telmo, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, Bologna, il Mulino 2012. Chelazzi Guido, L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, Torino, Einaudi 2013. Diamond Jared, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Torino, Einaudi 2005. [18] Eldredge Niles, La vita in bilico. Il pianeta Terra sull’orlo dell’estinzione, Torino, Einaudi 2000, p.310. [19] Weisman Alan, Il mondo senza di noi, Torino, Einaudi 2008.
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