Quel messaggio da Serdiana [di Silvano Tagliagambe]
Quello che si è verificato ieri nelle sale strapiene della comunità “La Collina” di Serdiana per la presentazione della neonata Associazione Terra di Pace e Solidarietà è un piccolo miracolo. È la rivincita e la riappropriazione da parte dei cittadini di quello che Hannah Arendt chiama lo “spazio infra”, sottolineando che “pubblico è il mondo comune, l’infra, le cose e gli uomini”[1]. Ettore Cannavera, presidente dell’Associazione, nel suo breve ma denso e coinvolgente intervento iniziale ha ripreso e approfondito questo concetto della Arendt, dicendo chiaro e forte che la crisi della politica ha a che vedere proprio con la distruzione di questo spazio tra gli uomini, quell’infra da cui originano leggi, costituzioni e partecipazione. Il singolo, nel suo isolamento, non è mai libero e la libertà, pertanto, trae sempre origine dall’infra che si crea soltanto dove e quando, come ieri sera, si radunano molte persone, e che può sussistere soltanto finché esse rimangono insieme e si parlano, si confrontano, dialogano, ragionano di beni comuni e di benessere di tutti. Nel mondo greco lo spazio infra era limitato spazialmente dalle mura delle città, coincideva con la polis al di fuori della quale non era possibile essere uomini politici. Oggi si estende all’intera Sardegna, all’Italia, all’Europa, al mondo nella sua globalità. Per questo “l’infra è ciò che è autenticamente storico-politico […]; non è l’uomo a essere uno zoon politikon, o a essere storico, ma gli uomini, nella misura in cui si muovono nell’ambito che sta tra di loro”[2], nello spazio intermedio che li unisce. Il concetto di pluralità come possibilità di esistenza dell’infra è dunque importante per Hannah Arendt per definire la libertà politica e, in negativo, anche per definire il totalitarismo (come assenza di pluralità, cioè, come assenza di spazio fra un individuo e l’altro).
In “Ideologia e terrore” – l’ultimo capitolo di Le origini del totalitarismo[3] – la Arendt teorizza proprio la distruzione di questo infra come segno distintivo del totalitarismo, che sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di dimensioni gigantesche, un ego smisurato che pretende di rappresentarli tutti senza differenze. Il tratto distintivo del totalitarismo in tutte le sue forme e tipologie, apparentemente soffici o dure che siano, sta quindi proprio nel fatto di abolire i confini fra le persone, premendo gli uomini uno contro l’altro. Per questo lo spazio intermedio, questo spazio tra gli uomini, può essere legittimamente considerato presupposto indispensabile e precondizione della libertà e della democrazia e diviene, di conseguenza, un tema sempre più importante e affascinante per l’idea e la visione della politica, dal momento che è proprio questo intervallo che assicura la pluralità, l’esistenza di individui non schiacciati l’uno sull’altro. L’infra è uno spazio che tiene in relazione gli individui: questi stanno insieme, però sono anche distinti gli uni dagli altri. Lo spazio infra, lo spazio della politica di cui parla la Arendt e che ieri si è materializzato per più di tre ore a Serdiana, non ha nulla a che fare con lo spazio gremito. Certo, ieri le sale della Comunità “La Collina” erano gremite, ma sappiamo bene che l’uomo può essere profondamente solo e tremendamente isolato anche in uno spazio gremito. La sosta in un qualunque aeroporto o l’esperienza degli acquisti in una Città mercato sono esemplari in proposito.Ciò che segna la differenza profonda tra lo spazio infra e lo spazio gremitoè il fatto che nel primo, ma non necessariamente nel secondo, si ha contatto, si ha scambio, si ha dialogo, si ha riconoscimento reciproco, si ha partecipazione autentica, si ha il senso profondo e sempre emozionante di una comunità che si forma e che vuol far sentire la propria voce. Dobbiamo fare un ulteriore passo per capire ciò che è successo ieri a Serdiana, nella speranza che lo sentano e lo capiscano anche gli altri, quelli che si isolano nelle stanze chiuse di una qualche segreteria di partito e pensano che ciò dicono sia significativo e rappresentativo per il solo fatto che proviene da quelle stanze, sempre più desolantemente vuote peraltro. Si tratta della differenza, anche questa fondamentale, tra lo spazio accessibile al pubblico, lo spazio dove tutti potrebbero entrare, e per lo più si guardano bene dal farlo, e lo spazio autenticamente pubblico, quello dove le persone entrano e si sentono subito a casa loro, perché possono parlare liberamente, perché possono muoversi liberamente, perché pensano e sentono di essere tra sodali, nel senso letterale di compagni di vita, di cammino, di fiducia e di speranza. Il messaggio che viene da Serdiana è nello stesso tempo semplice, diretto e tremendamente impegnativo: è un invito forte e chiaro alla politica a riacquistare il senso della collettività, a rilanciare occasioni di integrazione e di sinergia interna, a riacquistare una sua dimensione etica e culturale, a tornare a prendere in seria considerazione gli aspetti che la legano al luogo, alla specifica conformazione e organizzazione di quest’ultimo, alla sua storia, alla sua cultura, alle sue tradizioni, ai suoi obiettivi e valori, al destino di un popolo. Da questo punto di vista essa non può che essere spazio di attrito e di resistenza rispetto a quella omologazione spuria che vorrebbe cancellare le specificità e le differenze, dimenticando che il segno è differenza, che il significato è differenza, che la politica deve fare differenza, come ci ha insegnato magistralmente Calvino in una delle tappe delle sue Cosmicomiche, quella intitolata Un segno nello spazio. Dove si racconta che Qfwfq, resosi conto che il Sole impiega circa 200 milioni d’anni a compiere una rivoluzione completa della Galassia e stufo di girare in una voragine di vuoto senza principio né fine, nauseante, in cui tutto si perdeva, e dove non c’era niente che si distinguesse da niente, un bel giorno decide di fare un segno in un punto dello spazio, per poterlo ritrovare al momento del passaggio di lì al giro successivo. Che cosa fosse o dovesse essere un segno, non lo aveva ben chiaro “Avevo l’intenzione di fare un segno, questo sì, ossia avevo l’intenzione di considerare segno una qualsiasi cosa che mi venisse fatto di fare, quindi avendo io, in quel punto dello spazio e non in un altro, fatto qualcosa intendendo di fare un segno, risultò che ci avevo fatto un segno davvero. Insomma, per essere il primo segno che si faceva nell’universo, o almeno nel circuito della Via Lattea, devo dire che venne molto bene. Visibile? Si, bravo, e chi ce li aveva gli occhi per vedere, a quei tempi là? Niente era mai stato visto da niente, nemmeno si poneva la questione. Che fosse riconoscibile senza rischio di sbagliare, questo sì: per via che tutti gli altri punti dello spazio erano uguali e indistinguibili, e invece questo aveva il segno”[4]. Questo semplice gesto cambiò radicalmente non solo la situazione dell’ambiente in cui Qfwfq si muoveva, ma anche il suo stesso stato interno: “il segno serviva a segnare un punto, ma nello stesso tempo segnava che lì c’era un segno, cosa ancora più importante, perché di punti ce n’erano tanti mentre di segni c’era solo quello, e nello stesso tempo il segno era il mio segno, il segno di me, perché era l’unico segno che io avessi mai fatto e io ero l’unico che avesse mai fatto segni”[5]. Quel segno aveva dunque avuto l’effetto di “dare una piega” a un contesto in precedenza del tutto indiscernibile, il cui unico significato stava, proprio per questo, nella sua simmetria. Tracciando un segno nello spazio, Qfwfq aveva dissolto questa simmetria: ogni punto di questo spazio, non più omogeneo e indifferenziato, aveva perso il suo ruolo di centro di simmetria: ad eccezione, al più, di quello in cui era stato tracciato il segno. Contestualmente, con la riduzione della simmetria originaria, era emerso un criterio per ordinare i punti della galassia in base alla loro distanza dal punto in cui era stato tracciato il segno: “Comunque andasse, sapevo che il segno era là ad aspettarmi, fermo e zitto. Ci sarei arrivato, l’avrei ritrovato e avrei potuto riprendere il filo dei miei ragionamenti. A occhio e croce, dovevamo essere arrivati già a metà percorso della nostra rivoluzione galattica: ci voleva pazienza, la seconda metà dà sempre l’impressione di passare più alla svelta. Adesso non dovevo pensare ad altro che al fatto che il segno c’era e che sarei ripassato di lì”[6]. Nella struttura omogenea e isotropa della galassia, nella quale il segno tracciato da Qfwfq aveva operato una riduzione della simmetria, era dunque emerso un elemento di simmetria superstite, associato all’instaurarsi di un ordine proprio a partire da quel segno, divenuto in qualche modo l’elemento di riferimento per ordinare gli altri punti dello spazio in funzione della loro distanza da esso. Simmetria e ordine, lungi dall’essere sinonimi (come si visto, infatti, il secondo compare in seguito a una radicale riduzione della prima), compresenti, si propongono alla nostra attenzione suscitando stimoli che evocano riferimenti in varianti in equilibrio. Come sia finita la storia i lettori di Calvino lo sanno bene: quando finalmente Qfwfq tornò nei pressi del luogo dove, presumibilmente, aveva tracciato il suo segno lo trovò inflazionato di tantissimi segni, tutti uguali all’originale, che altri avevano fatto, vedendo e imitando il suo, che aveva quindi perso quelle funzioni di distinzione e di rottura della simmetria e dell’omogeneità dello spazio per le quali era stato tracciato. Un progetto, qualunque sia la sua natura, e a maggior ragione un progetto politico serio, provoca sempre la rottura di questo equilibrio e un riorientamento, più o meno brusco, del pensiero. Esso è dunque caratterizzabile, in prima istanza, come il passaggio da una situazione statica, di quiete e di appagamento, a un processo dinamico. In che cosa consista questo passaggio dalla stasi mortifera, che è la negazione della vita, a una situazione di movimento in cui ci si riappropria del proprio destino e ci si batte per conquistare gli strumenti che ci mettano in condizione di decidere del nostro futuro, ce lo dice ancora Calvino in una pagina magistrale del suo romanzo breve Il cavaliere inesistente. Quella, straordinaria e attualissima, dove il portavoce di un popolo diviso e inconsapevole, quello dei Curvaldi, che aveva finalmente acquistato consapevolezza di sé grazie a una battaglia per la conquista della libertà sotto la guida del cavaliere Torrismondo, dice con candore: “neanche noi sapevamo nulla, neppure d’essere persone umane, prima di questa battaglia… E adesso ci par di potere… di volere…di dover far tutto…Anche se è dura”[7]. Ecco, questa consapevolezza, quella di essere persone, persone libere, capaci di confrontarsi e di dialogare serenamente, senza conflitti e steccati precostituiti, divenendo comunità coesa e popolo, ci deve guidare nella nostra battaglia contro la cattiva politica, contro la sete di potere, contro l’usurpazione di posti di prestigio senza averne le capacità, le competenze e la necessaria tensione etica. Anche se è dura. [1] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 1994, pp. 37 e sgg. [2] H. Arendt, Diario filosofico. Frammenti (1950-1964), riportato in ‘Micromega. Almanacco di filosofia’, n. 5, 2003, novembre-dicembre, 32. [3] H, Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagìn, Edizioni di Comunità, Milano, 1996. [4] I. Calvino, Le cosmicomiche, in Id. Romanzi e Racconti, A. Mondadori, I Meridiani, Milano, 2004, pp. 108-109 (il corsivo è nostro). [5] Ibidem, p. 110. [6] Ibidem, p. 111. [7] I. Calvino, Il Cavaliere inesistente, in I. Calvino, Romanzi e Racconti, vol. I, Mondadori, I Meridiani, 2005, p. 1052. |