Movimento dei pastori ed altro [di Umberto Cocco]
“Capo e croce” (documentario sul Movimento dei pastori) è nei cinema sardi, e non so se attrae. A Nuoro giovedì c’erano poche persone, nella grande sala di Pratosardo parenti e amici dei protagonisti barbaricini. E’ un atto d’amore dei registi (Marco Antonio Pani e Paolo Carboni, e dell’Etnografico che lo ha prodotto) e, come ogni atto d’amore, squilibrato, semplificante. Ma andrebbe visto: racconta di noi, di una fase della vicenda sarda contemporanea, di un’umanità che quanto più urla più viene emarginata, quanto più rivendica di essere centrale nella vita e nella storia della Sardegna tanto più viene rimossa, e che mentre immagina di essere mitologica e biblica, romantica, è invece prosaica, dura, a volte antiestetica, ormai fuori moda, isolata, vinta (?). In centoquattro minuti, il film (in bianco e nero) racconta una sconfitta, un’altra, dei pastori sardi e di un’avanguardia che pure ha tenuto la scena a lungo, che piace ancora a una parte della società sarda (c’era qualche eco anche al Convegno Nazionale del Fai a Cagliari), perché ha (aveva) tutte le caratteristiche dei movimenti che ci sembrano ora moderni, grillini prima di Grillo, né di destra né di sinistra, la politica come bersaglio. In realtà è il premoderno quasi per definizione, come le jaquerie contadine dalla Vandea francese a ogni altra valle dell’Europa medievale, niente di diverso da quel che è la Coldiretti anche in questi giorni che flirta con i forconi siciliani, blocca i camion al valico del Brennero, ricorre a forme di lotta sgradevoli, versa il latte per terra, maneggia letame, visceri, sangue animale, mentre i dirigenti sono assai organici alla politica, alla gestione delle politiche agricole. Attenzione: l’estetica delle belle bandiere nasconde a volte molta più violenza. Non erano pulite e rigorose, “geometriche”, le Brigate Rosse? E qui Felice Floris invece no, fa da freno alla violenza, e quasi meno male che Floris c’è, con quell’ innata capacità di modulazione dei toni e dei gesti che rende veramente esagerata lo schieramento di poliziotti in manganello e tenuta antisommossa, il blocco fatto a Civitavecchia, e da allora in ogni città e porto dove il movimento si è recato, e prima ancora a Bruxelles, nel 1994, primo vero exploit di Floris leader di una folla. “Capo e croce” li racconta tutti questi momenti, anche se non hanno mai la forza del dramma, sembrano balletti calcolati e previsti, e lo stesso Floris che chiede ragione della durezza della polizia al ministro dell’interno Maroni, mostra di credere alla sua versione, di accettarne le scuse in un incontro a Oristano, che offre al suo popolo, che gli crede. Questa contrapposizione allo stato e alla regione – identificati nelle sedi parlamentari, non del governo -non è mai politico, realmente politico. Ne è in balia, anzi, subalterno alla politica, e fa tenerezza Floris che in una stalla dove ha riunito i suoi ragiona sugli esiti di tutte queste dure giornate di scontri e dice, consolatorio: “Bisogna comprendere che abbiamo ottenuto poco per noi, ma 150 milioni per il sistema. Non è poco”. Invece è poco, e sono finiti presto, in assegni “de minimis” cosiddetti, contributi, sostegno anche agli industriali messi a fare cooperative al posto delle cooperative vere, per incassare i soldi a sostegno dell’aggregazione della domanda strappati dal movimento in una legge sfuggita di mano. Gli industriali, a proposito: grandi assenti nel documentario. Evocati soltanto da un pastore, ovoddese, uno su una decina di testimonianze. Perché tutta la vicenda, nel film almeno, è giocata sulla contrapposizione con la politica, il consiglio regionale appunto, la lontana Europa, perché queste entità sembrano detenere i cordoni della borsa, maneggiare i soldi mentre invece sfuggono i meccanismi del potere, le non sempre intelligibili dinamiche dell’economia. Così, in questo alternarsi di urla, invettive e lamentazioni, la forza del movimento man mano si affievolisce, paradossalmente ma non tanto per carenza di politica, e non sembra far tesoro della riflessione che Floris fa a un’assemblea a Tramatza, introducendo il tema delle alleanze, insieme all’ollolaese Priamo Cottu. I due dirigenti pensano, e dicono, che non si va lontano se la società sarda resta indifferente alla sorte dei pastori, e continua a consumare formaggi e beni alimentari di importazione, preferendoli ai pur pochi prodotti sardi. Di alleanze, si vede in “Capo e croce” abbozzata solo quella con gli altri disperati della Sardegna di questi anni,le aziende espropriate per debiti, i tartassati di Equitalia: in una scena gli elicotteri della polizia sorvolano la campagna del Sulcis e mentre anche uno stormo di uccelli sembra danzare una danza macabra in cielo, in pochi a terra, uomini e donne, presidiano invano la casa agricola che il magistrato ha dato ordine di sgomberare. Quando i pastori tornano a casa, al lavoro nei loro ovili moderni raggiunti in pick-up, fra mungitrici abbandonate per risparmiare elettricità, in questi capannoni giganteschi, sgangherati per i quali ora bisogna pagare le tasse, con grandi trattori che solcano i pascoli per trasportare il fieno, qui viene fuori insieme una antica rassegnazione (“Abbiamo confuso i bisogni con i vizi” dice Priamo Cottu. “Bisogna accontentarsi di mangiare un boccone di pane”), una saggezza arcaica che fa tutto riconsiderare: dalla responsabilità dei poliziotti (“che magari sono figli di pastori”, suggerisce uno, alla Pasolini) alla propria responsabilità, alla propria concezione dei rapporti umani (“sei tribale” dice un altro al suo compagno) e quel misto di consumismo passivo che ha raggiunto anche questo mondo e forse lo ha più di altri conquistato, e le virtù “resistenziali” dei pastori sardi, la loro bella lingua, le cadenze, la libertà dei corpi quando si trovano a camminare in campagna, l’essenzialità dei gesti, delle parole, dei sorrisi ai figli, e l’ironia che tutto avvolge, sorridendo delle microspie piazzate sotto i fuoristrada dai carabinieri e delle esagerazioni del vicino che dice di mungere settecento litri di latte per volta (a mano….). E’ in questa insieme desolata, povera e potentissima ruralità sarda,vissuta sempre con dignità dai protagonisti, sullo sfondo della natura non ancora perduta, fra la piana di Ottana, la Barbagia di Ollolai, il Sulcis, il Campidano, l’Ogliastra, che il film diventa anche poetico, e quasi più vero, lasciando fluire “penzamentos” dopo le grida, riflessioni sul senso della propria vita, i figli (che un pastore di Bolotana racconta di avere mandato al liceo classico di Macomer, e finge che è stata una scelta della quale si è pentito ma gli si illuminano gli occhi a pronunciare solo la parola: classico). Sono dieci-quindici i protagonisti del film,sono anche i dirigenti di fatto del Movimento: originari di diverse parti della Sardegna, da Olmedo ad Aidomaggiore, al Campidano di Cagliari, si vedono in incontri in incontri periodici nei loro ovili, a turno (sempre tutti uomini), attorno a tavole imbandite, a rievocare i momenti felici di un’avventura che forse loro stessi sentono che è già finita, ma in un clima di solidarietà fra di loro, che cresce di volta in volta e sembra una fratellanza salda, e coinvolge anche i due autori del film, non c’è dubbio. Però sono sconfitti: li continueranno ad invitare a qualche trasmissione tv, a turno con i minatori del Sulcis, a lasciar urlare e versare lacrime in diretta, continueranno ad adottarli paternalisticamente come si adottano le pecore in qualche settimanale patinato, in qualche sito internet. Enormi, alla fine del film, e delle trasmissioni tv, restano le questioni irrisolte. Il declino di una cultura, e anche se non a tutti è chiaro il nesso, nei nostri paesi chiudono le biblioteche mentre si spengono le mungitrici….
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