Ma davvero «siamo in guerra»? [di Guido Barbujani]

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Il Sole 24ore – Economia e Società- 24 luglio 2016. La situazione dev’essere molto seria, se neanche un commentatore pacato come Michele Serra ha resistito alla tentazione, e lo ha messo per iscritto: «Siamo in guerra».

Lo dicono in tanti: Magdi Cristiano Allam e Giampaolo Pansa, il presidente francese François Hollande e il suo primo ministro Manuel Valls, Umberto Eco l’anno scorso e Giovanni Sartori sei mesi fa. Lo dicono quasi tutti. A rigor di termini, è evidente che si sbagliano. Anche dopo la strage di Nizza, non siamo in una «situazione giuridica esistente fra Stati in cui ciascuno di essi può esercitare violenza contro il territorio, le persone e i beni dell’altro o degli altri Stati con osservanza delle norme di diritto internazionale» (Il Nuovo Zingarelli) e non è in corso una «lotta armata tra due o più stati o tra fazioni di uno stesso stato» (Dizionario Garzanti online).

Non è stata richiamata alle armi alcuna classe di coscritti, tantomeno c’è stata la mobilitazione generale; l’industria non è stata riconvertita alla produzione di materiale bellico, non si segnalano coprifuochi, non è stata proclamata la legge marziale, non si stanno ammassando truppe ai confini del paese. Molte persone innocenti sono morte, alcuni aspetti cruciali della nostra vita quotidiana sono fortemente minacciati, ma non siamo in guerra.

Quindi, forse chi sostiene che siamo in guerra usa la figura retorica dell’iperbole, come quando si dice «Agnese mi spezzi il cuore» alla donna che ci sta piantando. Ma a che scopo? Dicendole «mi spezzi il cuore» speriamo di convincere Agnese a fare marcia indietro, anche se le probabilità di successo sono poche.

Qui invece, se lo stiamo dicendo a Daesh, le probabilità di fargli cambiare idea sono zero: la guerra è quello che cercano, cosa glielo diciamo a fare? A meno che l’iperbole non sia rivolta ai Governi dell’Occidente, per esigere misure drastiche, appunto leggi marziali o ammassamento di truppe ai confini. Ma, almeno per Manuel Valls, mi sentirei di escluderlo: se non altro perché, se così fosse, un primo ministro starebbe parlando per iperboli a se stesso, non proprio un segno di salute mentale.

Viene allora il sospetto che non lo si stia dicendo a nessuno. Che «Siamo in guerra» non sia neanche un’iperbole, ma uno slogan, orecchiabile e di scarsa utilità come tutti gli slogan. Come gridare «Laziali conigli bastardi ebrei» dalla curva dello stadio: frasi che non comportano alcuna responsabilità, non rimandano a scelte concrete, ma danno un effimero sollievo a chi, pronunciandole, trova un momento di sfogo. Se fosse così, e temo proprio che sia così, sarebbe meglio smetterla.

Lanciare slogan è peggio che inutile, è nocivo, perché crea un’inquietante simmetria con il nemico che si vorrebbe combattere. Da un lato, chi propone l’applicazione planetaria della sharia e l’eliminazione fisica di chiunque vi si opponga; dall’altro chi, magari animato da giusto sdegno, anziché ragionare ripaga il nemico con la stessa moneta, con insulti e paradossi. È questo che ci serve?

Ci servirebbe, mi pare, esattamente il contrario. Davanti a un attacco efferato, che punta a farci perdere il lume della ragione, dobbiamo prima di tutto usare il cervello, non le corde vocali. Ragionare: e il primo obiettivo dovrebbe essere capire chi è il nemico (difficile) e cosa vuole (più semplice). Se Daesh ha qualche, minima, speranza di successo, è provocando reazioni brutali, che colpiscano allo stesso modo responsabili e innocenti, e inneschino una guerra civile fra vecchi e nuovi europei.

L’aveva proposto, all’indomani dell’11 settembre 2001, lo scrittore inglese Martin Amis: far soffrire «la comunità dei musulmani, toglierle le libertà» (alla comunità, non ai singoli sospettati di terrorismo), «sottoporre a perquisizioni intime tutti coloro che paiono essere di origine mediorientale o pakistana. Insomma, sottoporli a discriminazione, fino a quando tutto ciò non recherà danno alla loro comunità nel suo complesso».

La logica delle ritorsioni, estranea alla tradizione liberale secondo cui la responsabilità delle nostre azioni è individuale. Ma anche estranea alla logica: questo è esattamente ciò che vuole Daesh. Nella tetra stagione del terrorismo politico c’era chi si proponeva di colpirne uno per educarne cento. Colpirne cento per educarne uno, basta rifletterci un momento, è ancora più insensato.

La soluzione io non ce l’ho, è ovvio. Non ne usciremo né presto né facilmente. So però che non serve cercare scorciatoie, per esempio prendendosela con gli immigrati, quando gli autori delle stragi, lo sappiamo tutti, non sono immigrati, ma cittadini europei. So che la sfida del terrorismo è soprattutto una sfida ai nostri nervi, che vuole indurci a perdere noi stessi, a smantellare la civiltà dei diritti e dell’uguaglianza di fronte alla legge, che l’Europa ha l’enorme merito di aver inventato (insieme però, meglio non dimenticarlo perché un po’ c’entra, all’inciviltà del colonialismo e dello schiavismo).

Mi pare che finora, con parecchie, comprensibili, esitazioni, i paesi più colpiti, pur nel dolore e nell’incertezza, pur con un’opinione pubblica intimorita e disorientata, siano riusciti a tenere i nervi abbastanza a posto.

E penso, parafrasando quanto si diceva di Silvio Pellico, che ogni nostro «Siamo in guerra» rappresenti una battaglia persa: non tanto contro Daesh, quanto contro noi stessi: contro la parte oscura di noi stessi che si alimenta di timore e di angoscia, e che va tenuta a bada se non vogliamo che ci renda, giorno dopo giorno, la vita più triste, più aspra, meno umana.

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