La geografia esatta delle vene varicose [di Giulia Clarkson]
“Peggio per voi, ognuno si sceglie i suoi aguzzini” avrebbe detto mia nonna. Che non era fanatica dell’ hard sex sadomaso né sarebbe stata capace di ideologizzare intorno a temi di autonomia e dipendenza. Una cosa però l’aveva ben chiara: le necessità vitali. Ai nipoti diceva “via, lontano, che mi soffocate”. Con una mano li allontanava, mentre l’altra se la poggiava sulla gola per verificare che già non le avessero sottratto troppa aria: i bambini approfittano di tutto e non sono mai riconoscenti. Credono che tutti gli sia dovuto. Ma lei li preveniva. Era scaltra, mia nonna. Aveva vissuto le due guerre. Si era scampata giusto quelle mediatiche, l’aids, il buco nell’ozono, l’11/9 e le ecomafie. Aveva un piccolo orto, coltivava biologico prima della sua invenzione. Prima dei marchi di qualità. Anche se il genuino non l’ha aiutata a scansare le vene varicose. Brutto guaio ereditario, le vene varicose. Ne sappiamo qualcosa anche noi, le nipoti. Che ci siamo trasferite più a nord. Sì, emigrate ormai. Il lavoro, si capisce. Ma accanto al mare e al sole. E no, non abbiamo fatto la fine di alcune amiche sprofondate tra Rho e Vercelli che le mani alla gola se le mettono pure loro ogni mattina, ma per l’irritazione, e di bambini non ne hanno perché “fuori dalla finestra piove piombo e galleggia SO2 e anche se la natalità è bassa, noi una mano sulla coscienza ce la siamo messa e non imponiamo simili condizioni a creature innocenti”. Strano tipo, mia nonna. Vene varicose, gambe storte. La fissa di morire dov’era nata. Stesso letto in cui è stata partorita. Ah, l’identità… L’identità per lei era una geografia esatta. Era una che prevedeva le cose e preparava l’essenziale. Aveva assistito da lontano all’innalzamento delle fabbriche. “Ma che dovranno mai bruciare, per salire così tra le nuvole?” si chiedeva. Era venuta alla conclusione che cercavano un dialogo con Dio in persona. Forse era un nuovo cammino d’ascesi. O un escamotage perché le anime non si distraessero sul mare, prima di arrivare al Regno dei cieli. Ma non era del tutto sicura, perché un giorno domandò a noi, che fummo costrette a risponderle: piombo, zinco, acido solforico, bauxite, fumi di acciaieria, oli combustibili. Settecento ettari tra Portoscuso e Paringianu. Nucleo di industrializzazione del Sulcis Iglesiente. Le miniere ormai chiuse, viva l’era della chimica! Ottomila stipendi. Tutti i mesi. Protezione sindacale. Ferie pagate. E persino la maternità, per chi aveva il coraggio. Perché l’aria aveva cominciato a farsi pesante. Ed erano solo gli inizi. Mia nonna morì la prima domenica di targhe alterne. La crisi del petrolio per una guerrina tra le grandi guerre. C’era stato il Kippur e il Libano, l’Opec, Camp David e le targhe alterne. Mia nonna sottoterra. Non è salita al cielo per le ciminiere dell’Enel né per quelle dell’Enirisorse, venuti a pavimentare le nostre strade di campagna con i residui tossici delle lavorazioni. Sbarcati assieme agli americani dell’Alumix con i veleni all’amianto. Oggi si chiama Alcoa, ma forse per poco ancora. Hanno dispensato polveri e fluoruri dall’elettrolisi dell’allumina. Storie di anodi e catodi, tutti assieme a comporre il ciclo dell’alluminio. É bastato poco, per insidiare il ciclo. Un taglio lì, alle Partecipazioni Statali, e tutto è crollato. Abbiamo tremato, la prima volta e le successive. I posti di lavoro si sono ristretti. Solo la cassa integrazione ingrassava, ed i costi energetici. Ma intanto abbiamo iniziato ad ammalarci e a morire in troppi. Ogni volta che si ventilava l’ipotesi di controlli seri, fuoriusciva la storia dell’insostenibile competizione internazionale e minacciavano di metterci in cassa integrazione, di chiudere. Uno, due reparti o tutto quanto, via baracca e burattini. Via elettrolisi e lavoro. Per anni è andata avanti così. E noi allora in piazza, al palazzo della Regione, a Roma con le bandiere. E dategli l’energia, agli americani! E anche agli svizzeri, che sono gli ultimi arrivati ma ne hanno fatto di marasma, riuscendo persino a far lievitare la fabbrica. Su e su, almeno tre metri sopra il livello delle altre. Si mormora che sia umana. Cresce. E trattiene tutto. Dicono che sotto ci sia un mare di rifiuti. Affezionati al luogo. Pure loro, come mia nonna. Interrati sotto uno strato d’asfalto in maniera grezza e veloce. Una tomba senza fodera, insomma. Ma sono solo voci, nessuno è autorizzato a verificare e chi sarebbe tenuto a farlo se ne è sempre guardato bene. Mia sorella l’aveva conosciuto uno dei manager della salute pubblica. Era già stato direttore generale della sicurezza. Di una delle industrie, però. Ho sgranato gli occhi per un intenso minuto, quando me l’ha detto. «Sì – mi fa lei – una persona così a modo. Pensa, ha rinunciato allo stipendio della multinazionale per avere contatti più stretti con la gente come noi. E come ci aiuta…». Più di una volta il santo manager l’aveva rassicurata: non si preoccupasse se la cantina sociale non le comprava più il vino del vigneto. Che portasse tutto qualche chilometro più avanti. Lì mischiavano bene le uve, in percentuali non pericolose. Nessuno d’altronde aveva mai obbligato i viticoltori della zona a non vendemmiare o a distruggere i raccolti. E chi aveva l’orto non mangiava forse la propria insalata? Tutte frottole di qualcuno che voleva fare carriera, quelle dei veleni nel terreno o delle polveri per aria. Certo, poi la vita può essere anche bastarda e mettersi in combutta con il lutto, lavorare pancreas e polmoni e scendere in profondità, cesellare intenzioni e stati d’animo. Iniettare dosi quotidiane di cancro e neoplasie. Specie quando la libertà non è un’opzione e non esiste scelta. Quando ci si accontenta del lavoro purché sia. E si legittima al potere mediocri come noi, con poca immaginazione e ancor meno progetti. Ma certo quel che non avremmo mai creduto, dopo esserci prestati a tutto, era di diventare inutili. Siamo esuberi, oggi, e siamo fuori. Non rientriamo per età e perché nessuno osa rompere con quel che è stato, programmando un nuovo inizio. Mia nonna, che aveva ragione quasi su tutto, su una cosa si sbagliava: non possiamo neanche scegliere i nostri aguzzini. Gli aguzzini hanno scelto noi. Hanno forgiato un mondo di spietati concorrenti in cui tutto deve essere massimizzato: le fatiche umane e gli inumani processi, le risorse e le produzioni. E i costi vengono ripartiti fra il maggior numero. E allora, noi tutti, quanto volume di sopportazione possediamo? E la terra, quanto è profonda? E il mare, fino a dove arriva? E l’aria, non è infinita, l’aria? E no. Alt. Stop. Lo sapeva già mia nonna, quando ci allontanava perché si sentiva soffocare, da tanti nipoti chiassosi. Lo diceva la sua geografia inequivocabile, dove nessuno era costretto ad aprire la porta di casa alla violenza travestita da benessere inesauribile. Alla fine, io sono partita e mi sono sposata. “Ho le vene varicose”, gli ho detto prima della fede. Così non avrebbe potuto raccontare che non sapeva chi ero. E poi sono nati due gemelli, perché la ragione non comanda proprio su ogni cosa. Altrimenti non avrei l’ansia del ritorno cucita sulla pelle come un ricamo che, in confronto, quello delle vene varicose gli fa un baffo. |
Ciao Giulia, ho apprezzatto il tuo articolo e se non mi sbaglio tu sei quella piccola Giulia che ho allenato tanti anni fa al tennis club di Cagliari. Un abbraccio e a rivederti presto. Paolo Porcina
Grazie Paolo. Se gli anni passati sono decenni, direi di sì. Ci siamo rincontrati, dunque. Sulla scia di Sardegna Soprattutto. A presto, allora. Giulia