Anna Banti, signora dei libri. Generosa, autorevole, libera [di Paolo Di Stefano]

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Il Corriere.it 18 agosto 2016 L’annuario «Il Giannone» dedica un numero monografico all’intellettuale fiorentina, considerata un’eminenza letteraria degli Anni ‘50 e ‘60 «dominati» dagli uomini.

Tra tanti uomini, Anna Banti è stata una delle pochissime donne del mondo culturale italiano che siano riuscite, negli Anni ’50 e ’60, a esercitare un potere, o meglio un’autorità, editoriale. Basta leggere le lettere in cui dava consigli, sollecitava pubblicazioni, ospitava scrittori e scrittrici nella rivista fiorentina, «Paragone Letteratura», di cui era la redattrice-capo quando le riviste erano un passaggio obbligato per la consacrazione. «Le scrittrici esordienti si attendono [da lei] non solo un’opportunità di stampa e di visibilità ma anche l’incoraggiamento a perseverare nel lavoro, e con esso la conferma del loro talento».

È quanto osserva Luisa Ricaldone introducendo, nel numero monografico dell’annuario «Il Giannone» dedicato alla Banti, una scelta di lettere inviate a tre scrittrici in erba: Gina Lagorio, Lucia Sollazzo, Camilla Salvago Raggi. Sono carteggi a senso unico, perché, come ha ricordato la sua collaboratrice Fausta Garavini (poi divenuta, oltre che grande francesista, la sua maggiore studiosa), Anna Banti, ossessionata dall’accumularsi delle carte, svuotava volentieri i cassetti.

 Alberto Arbasino, che l’ha conosciuta bene sin dai suoi esordi facendo poi parte della redazione, ha scritto che «Anna Banti, benché di carattere generoso, era più altera nei modi e nei proponimenti», nonché «meno propensa di Roberto Longhi, suo marito, al sense of humour»: «Lei era assai esigente e rigorosa circa l’altezza e la serietà del “tono” letterario. Anche con piccoli sermoni nel suo studio. Ma prontezze di spirito». Un ritratto in chiaroscuro che viene confermato dalle lettere alle giovani scrittrici amiche. Alle quali la Banti trasmette la sua stessa fede nell’attività letteraria come chiave di identità e conforto per i dolori della vita.

Quando, nell’ottobre 1964, le giunge notizia della morte prematura di Emilio Lagorio, il marito di Gina, la Banti non esita a raccomandarle di rifugiarsi nella scrittura: «Lei sa che il Suo dolore acerbo mi è sempre presente e che desidero quanto lei che il lavoro La compensi della Sua pena e Le restituisca un po’ di serenità». Senza risparmiarle sentimenti materni: «Si faccia coraggio, cara Signora: parole, lo so, ma Lei ha due figliole che la riporteranno verso la vita».

La generosità della Banti si coniuga in vari modi: nell’ospitalità (presso la rivista) e nell’impegno che mette nel promuovere, nel creare contatti e relazioni, ma anche nell’elargire consigli e giudizi. Sempre piuttosto nitidi e non sempre elogiativi. Aveva, per utilizzare le brillanti parole di Gina Lagorio, il dono raro dell’«autorevolezza dei massimi sacerdoti designati all’aspersione dell’incenso letterario». Eppure, il primo approccio personale con «la severa direttrice della esclusiva orchestra di “Paragone”» non fu facile per la Lagorio.

Lo racconta in una pagina di Inventario che vale la pena rileggere: «Io andai a trovare Anna Banti qualche mese dopo che mi aveva pubblicato un racconto. Arrivai alla sua casa, una villa ai piedi della Villanella sui colli fiorentini, di meravigliosa aristocrazia per una provinciale come me». Le apre un maggiordomo in giacchetta di rigatino azzurro. La Banti appare a Gina «bella e altera come una regina».

Quando il discorso cadde su Natalia Ginzburg, di fronte all’entusiasmo della Lagorio per Lessico famigliare («mi aveva restituito l’atmosfera di anni che erano un po’ la mia preistoria»), la Banti protestò opponendo critiche pesanti che non ammettevano repliche, ma Gina replicò: «Cadde un silenzio che mi gelò: a salvarmi arrivò proprio lui, Longhi, che chiedeva il tè. Intorno alle tazze l’aria si fece più mite, e me ne andai con le orecchie non del tutto basse». Lo screzio non bastò a interrompere la corrispondenza.

Il tono della Banti, nell’esprimere giudizi sui libri degli altri, si presenta spesso e volentieri «autorevole e sbrigativo». A proposito di alcuni nuovi racconti della Salvago Raggi, risponde secca: «Le dico la verità: mi sono parsi buoni ma non mi sembra che costituiscano per Lei un passo avanti». A proposito di un altro testo, non la scoraggia dall’uso dell’«espressione dialettale», purché «la scelga bene, tra le più pungenti e calzanti, e la assorba nella frase».

Trova «un po’ chiuso ed ermetico nella prima parte» un testo della Sollazzo, chiarendo che le sembra «trasferito in un clima poetico un po’ astratto, quasi una poesia in prosa». Consiglia alla Lagorio di puntare sul racconto Il silenzio che ritiene «il più arrivato»: «Ed è davvero una riuscita che Lei abbia saputo rendere originale, vivo, un contenuto così tradizionale». Le suggerisce invece di «ritornare» sul racconto Vacanza, «un po’ formalmente grezzo», a differenza delle «altre cose sue, così limpide, così equilibrate».

«Pessimismo energico»: così Anna Banti definisce il proprio temperamento. È un’ottima definizione. Ma va detto che nell’energia ci sono anche i frequenti moti di rabbia («Stamane avrei voglia di bestemmiare») verso un mondo letterario che non le piace e a cui dice di sentirsi estranea, probabilmente anche un po’ ad arte, per non dare troppe illusioni alle autrici che le avanzano le loro proposte.

Fatto sta che dopo aver raccomandato invano un libro di Gina Lagorio alla Rizzoli, si concede uno sfogo contro i dirigenti editoriali del momento, sospettando nel rifiuto ragioni personali: «Me lo aspettavo. Noi, cioè di “Paragone”, non siamo più in mano alla Rizzoli, ormai ridotta a una specie di feudo retrivo e grossolano, dominato da mezzissime figure come Lecaldano e Porzio. La nostra libertà di giudizio (l’ultima, a proposito del furbastro Berto) non era più sopportata: e ci hanno congedato». Il «furbastro» Giuseppe Berto si era aggiudicato, nel 1964, due premi per Il male oscuro, il Viareggio e il Campiello.

Se qualcuno volesse godersi il sapore antico delle polemiche sui premi, si legga la del 24 luglio 1967 lettera alla poetessa Lucia Sollazzo, dove si scusa del ritardo nella risposta ricordando le grane della rivista e un intrigo del «maledetto Viareggio infestato di manovre e di “mi ritiro”», in cui era stata coinvolta dalla Mondadori, il suo editore, che la candidò senza sostenerla. Conclusione: «Che schifo paese e che schifa letteratura (…). Sono quisquilie, ma mi hanno stomacato». Un «pasticcio nauseante» è, nel marzo 1968, l’affaire all’interno della Mondadori con l’allontanamento di Alberto da parte del padre Arnoldo, che nominò successore alla presidenza l’altro figlio, l’«industriale» Giorgio.

E già che ci siamo, non manca una nota pungente contro il «feudo Einaudi» («di carattere aristocratico»), dove «imperano i Calvino, i Vittorini, tanto dire gente di parte, dalle idee molto confuse ma che si crede tutto lecito in materia di “intelligenza”». In generale, dice, «questi editori fanno veramente schifo».

Certo, ne ha per tutti: ha pessimi rapporti con la Bompiani; Cecchi, deus ex machina di Garzanti, ha fiducia nelle sue opinioni ma «non è tipo da prendersi a cuore certe cose»; Luzi e Bilenchi «hanno la testa che hanno»; sconsigliabili Soldati e Gadda: «Il primo ha mille occupazioni e poco si cura del lavoro altrui, il secondo è un tipo così particolare… e anche lui se ne infischia del lavoro degli altri»; con Bertolucci, «Dio te la mandi buona».

Non osa esprimere pareri sulla poesia, perché considera privatissimi i suoi contatti con la lirica, «estremamente ombrosi e personali» (dunque delega le opinioni a Bassani, Bertolucci, Bigongiari). Ma sulla prosa ci tiene a chiarire: «Ormai non prendo consigli che da me stessa». E anche per questo non nasconde l’amarezza per quello che considera per le sue opere, tutto sommato, un riconoscimento (di critica e di pubblico) insoddisfacente: «Ma coraggio, andiamo pure avanti, la vita è breve, non bisogna drammatizzare, se qualcosa rimarrà bene, se no un saluto, e ci rivediamo alla prossima reincarnazione».

I colleghi scrittori, ne salva pochi. Su tutti Fenoglio, celebrato subito dopo la morte con un omaggio sincero: «Ecco uno scrittore che l’inflazione ha vergognosamente trascurato. Poveretto, l’unico riconoscimento che abbia, praticamente, avuto, è stato quel piccolo premio Alpi Apuane che siamo riusciti a fargli dare». Non certo le avanguardie che ancora nel ’67 «si dimenano e rompono l’anima anche ai malpensanti».

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