L’emigrazione come autocoscienza collettiva [di Nicolò Migheli]
Come raccontare la Storia? Bastano le indagini asettiche- se mai fossero possibili- sui documenti? Basta il romanzo che dà maggiore libertà nel raccontare i fatti rispetto alla ricerca storica professionale? Paolo Di Stefano con il suo La Catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956, ha scelto di raccontare la tragedia mineraria con le voci dei sopravvissuti, con le testimonianze delle mogli, dei figli degli amici delle vittime. Una somma di memorie personali messe di fronte agli atti algidi del processo che ne seguì. Presentato nel corso dell’iniziativa “Uomini contro carbone” – che proseguirà almeno fino ad ottobre – ad Ula Tirso il 17 agosto nella Piazza IV Novembre ha avuto un incredibile riscontro di gente che ha partecipato al dibattito ed alla proiezione del capolavoro di Paul Mayer ”Là dove vola il fiore magro”. Proiettato nella versione originaria per la prima volta nel paese da cui provengono i protagonisti del film. Tornando al libro di Di Stefano come nel film dolore, carne e sangue contro l’afasia irresponsabile dei dirigenti della miniera, la rimozione dei governi belga ed italiano; il loro senso di colpa per quell’accordo intergovernativo del 1946: uomini contro carbone. Ancora oggi la memoria di quei fatti, lo sradicamento di migliaia di contadini ed artigiani gettati nelle viscere della terra in cambio di tonnellate di minerale è fonte di imbarazzi e silenzi. Meglio che non se ne parli, né in Italia né in Sardegna. Perché furono migliaia i sardi che si trasferirono in Belgio in quelle miniere. Il racconto di Di Stefano va oltre la tragedia, racconta di un perenne spaesamento. Lo si coglie nelle testimonianze trascritte fedelmente in una neo-lingua, dove il fondo dell’italiano regionale si riveste di sovrastrutture linguistiche francesi. Un effetto estraniante che racconta i drammi, l’emarginazione, il sentirsi sempre fuori posto, il bisogno di comprendere e di rielaborare non solo il lutto, ma la perdita di quelle sicurezze personali che solo il luogo natio riesce a garantire. Una nostalgia perenne come anima dei sogni, delle speranze, di una vita intera. Chi non ha avuto l’esperienza dell’emigrazione, ha vivo però il ricordo delle partenze. Giovani vestiti con l’abito buono- chi l’aveva- accompagnati da madri in lacrime alla fermata della corriera. Valige di cartone legate con lo spago, il maialetto arrosto in borsa come memoria ultima di cucine amorevoli. E i loro ritorni periodici, con auto in affitto, le compagne straniere esibite come trofeo. Lo sguardo dei compaesani, tra l’invidia e il sarcasmo per quell’accento cambiato, per il sardo infarcito di bon, right, gut, guesto e guello. Lo stesso Enrico Berlinguer non ne fu esente quando dopo gli anni romani pronunciava guera invece che guerra. E le donne, andate a servizio in famiglie romane o milanesi che solo per i capelli corti, un trucco del viso e delle labbra un po’ acceso, per l’abito vistoso, sospettate di comportamenti poco morali. E la nostalgia, ancora quella, che ti fa sentire fuori posto ovunque. Trovare il proprio paese cambiato, più ricco di come l’avevi lasciato e non riconoscerlo. Volere che fosse rimasto fermo all’atto della partenza, in modo che confermi continuamente la scelta fatta. Stare nel luogo di adozione e sentire il bisogno struggente della tua terra, ritornare e rimpiangere l’efficienza nordica. Un confronto costante che si riverbera nella salute psicologica, il deraciné come condizione estraniante. La vergogna di essere italiano all’estero e sardo in Italia. Sentire gli stigmi su di un popolo che ricadono sulla tua persona. Essere sardi in Toscana negli anni dei sequestri significava essere schedati, visitati da Polizia e Carabinieri, le case perquisite. Li abbiamo raccontati questi dolori? Li abbiamo inclusi nelle narrazioni della nazione sarda? In parte, solo in parte. Il più delle volte noi sardi dell’isola non abbiamo capito il loro dramma. Abbiamo riso dell’accento, o del loro voler essere, a volte, più sardi di noi, dell’averci rinnegato perché rappresentiamo quello da cui loro sono fuggiti. Ci siamo resi conto della catastrofe antropologica di cui siamo vittime loro e noi? Delle ricchezze umane ed economiche perse? Noi sardi, quelli dell’isola, e cussos de su disterru, abbiamo una necessità che è compito. Dobbiamo ricomporre le memorie, raccoglierle ed elaborale in un rito collettivo. Un processo che medi tra le identità e le appartenenze, che ci restituisca la complessità del nostro vissuto e del nostro presente di persone della contemporaneità. Riscoprire esperienze e drammi individuali e collettivi, ma anche storie di successo, sono non solo un processo di autocoscienza di un popolo, diventano costruzioni empatiche che ci aiutano a capire le immigrazioni di oggi, il confronto tra tradizioni culturali differenti. Ne abbiamo bisogno per essere soggetti e non oggetti della Storia. È trovare negli occhi dell’altro quello che abbiamo vissuto noi. Il “vietato ai cani e agli italiani” che campeggiava nei locali pubblici di Marcinelle in quell’8 agosto del 1956, ci deve parlare oggi. Un tempo dove i predicatori di odio, i sacerdoti delle differenziazioni vogliono costruire un mondo di monadi impaurite dalla diversità, sfruttare la guerra tra poveri per ribadire e conservare il dominio nelle società ineguali. Un presa di coscienza che deve essere prima di tutto individuale per non rimanere vittime del pensiero facile, delle identità claustrofobiche, degli stigmi ed auto-stigmi. Compito non facile, ma non provarci significa arrendersi, darla vinta a chi vuole la nostra scomparsa. |
Bellissimo racconto, dolente e lucido. Resta l’insensatezza della Storia. Che tutto macina e divora. Divora le parole di Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Divora le comunità a cui è dato vivere in tempi in cui il sostentamento e l’accumulazione non reggono il passo ed il confronto con altri lidi ed altre genti. A quel punto la catastrofe antropologica è lì dietro l’angolo, deterministicamente spietata e leopardianamente matrigna. Concordo che si debba resistere: ad occhi aperti e comprendere. Non perché qualcuno voglia la nostra scomparsa, (mi parrebbe enfatico e velleitario), ma per noi, per la consapevolezza che ci fa sentire vivi, e che conta ancor più che capire se si è oggetti o soggetti della Storia, cosa sempre a rischio di grave peccato di hybris.