Quando un terremoto mette in crisi la Ragione [di Adriano Sofri]

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La Repubblica, 7 febbraio 2001.  In appendice agli interventi sull’ illuminismo metterò assieme l’ epocale terremoto di Lisbona del 1 novembre 1755, che Scalfari ha ricordato in conclusione, con il terremoto che ha appena devastato il Gujarat. Di quello si disse dapprima che avesse fatto centomila morti, poi si ripiegò su trentamila. Di questo si è detto ora che siano trentamila, o forse centomila o più. Di questo vediamo le immagini ora per ora, la notizia di quello impiegò 23 giorni per arrivare a Parigi. Anche a Ginevra lo si seppe solo il 23 novembre. Voltaire scrive il giorno dopo a un corrispondente: “Mio caro signore, la natura è crudelissima“.

Voltaire ha 61 anni, e ai visitatori fa l’ impressione di “un uomo che sembra quasi morto” (ma arriverà vigorosamente agli 84). E’ colpito dal terremoto in modo ossessivo: secondo qualcuno, perché é ossessionato dalla propria morte. Ha davanti il “Saggio sull’ uomo” di Alexander Pope (1733) e i suoi versi consolatori: “Il male di una parte è il bene del tutto, e nonostante l’ orgoglio, nonostante la debole ragione, è chiara una verità: tutto ciò che è, è giusto“. In Voltaire avviene una ribellione, una specie di conversione.

Sarebbe dunque questo il migliore dei mondi possibili? “Lisbone est abmée, et l’ on danse à Paris” – “Lisbona è sprofondata, e a Parigi si balla”. Voltaire scrive di getto il “Poema sul disastro di Lisbona“. Fa scandalo fra i devoti; ci sono versi che “sanno assai di materialismo“. Voltaire li addolcisce qua e là. “Un jour tout sera bien, voilà notre espérance, / Tout est bien aujourd’ hui, voilà l’ illusion” – “ Tutto andrà bene un giorno, ecco la nostra speranza / tutto va già bene adesso, ecco l’ illusione.”. (Più tardi Voltaire aggiunge un punto interrogativo dopo “speranza“; ma è affiorata qui la parola decisiva che Leopardi difenderà prima, poi abbandonerà impavidamente: illusione).

Scrive Voltaire: “Centomila persone, il nostro prossimo, schiacciate di colpo nel nostro formicaio...”. Immagine ovvia, quella del formicaio. Gli illuministi del resto pressoché per primi parlarono degli “umani e gli altri animali“; e sulla loro scorta Leopardi. In questi giorni l’ abbiamo sentito evocare tante volte, il formicaio, per le decine di milioni di pellegrini alla confluenza di Gange e Yamuna. Rousseau si indignò per il poema e rinfacciò a Voltaire di aver ripudiato la Provvidenza: argomentò anche che gli uomini avessero la loro responsabilità, per essersi affollati in città così enormi.

Mi pare di ricordare che per Rousseau la repubblica ideale non dovesse eccedere i trentamila cittadini. Ho controllato: a metà del ‘ 700, appunto, la popolazione della terra toccava, più o meno, 770 milioni. Oggi, sapete, supera i sei miliardi. La sola India ha raggiunto l’ anno scorso il miliardo, e l’ ha festeggiato col nome e cognome di un neonato. (Facciamo sempre così, tra i mucchi dei vivi e dei morti, la bambina di tre anni salvata “miracolosamente illesa” mentre recita versetti del Corano, la centenaria estratta dalle macerie dopo sei giorni, il diciassettenne dal pozzo dopo nove – e intorno i centomila, più difficili da vedere.

E’ strano come sia più facile vedere il mucchio dei vivi, i tre milioni col papa a Manila, i trenta nel Gange: coi morti l’ obiettivo resta più stretto, e la distesa a perdita d’ occhio compare solo per eccezione, nei meticolosi teschi cambogiani, o in certi campi di ruandesi subito dopo la mietitura). Deve pur influire sulla natura umana, o almeno sulle sue distanze di sicurezza, una tal esplosione della demografia. Pare che la società propriamente di natura, quella in cui si viva di raccolta e caccia, presupponga un territorio di due chilometri quadrati a testa: in Italia ci sarebbe posto per 150.000 persone.

In radure simili doveva stipularsi il Contratto sociale, suppongo. C’ è una domanda, quanto al Progresso, che è insieme la più ovvia e la più impossibile – così almeno mi pare. I sei miliardi di umani di oggi – e i trenta di domani ecc. – sono un progresso o no? Se siete tentati di rispondere di no, attenzione: è sul vostro diritto di stare al mondo, di mettere il cappello sul vostro posto, che vi state pronunciando. Che siate tentati di dir di sì, non lo prendo in conto. Per invidia dei topi.

Il 26 gennaio in India era la festa nazionale. Il 1 novembre del 1755 a Lisbona si festeggiava Ognissanti, ed era in calendario un autodafé contro gli ebrei da parte dell’ Inquisizione. Voltaire si augurò che almeno il palazzo dell’ Inquisizione fosse crollato. Era crollato.

Voltaire aveva un nemico giurato, e lo chiamava l’ Infame: il fanatismo delle guerre di religione e delle ortodossie, le “guerre condotte per dei paragrafi“. Questo, e il ripudio del sistema in favore della digressione e dell’ eclettismo, è il suo miglior tratto: più che un’ esaltazione della ragione, alla cui onnipotenza non credeva affatto. “Quali che siano i nostri sforzi, non riusciremo mai a rendere la nostra ragione sovrana di tutti i desideri della nostra anima“. (La citazione è in Maria Laura Lanzillo, “Voltaire. La politica della tolleranza“, Laterza 2000). Era prudente, e pensava che se Dio non ci fosse bisognerebbe inventarlo, per paura che altrimenti non si tenesse a freno il delitto. In Voltaire è una questione di ordine pubblico quella che in Dostoevskij sarà una tragedia esistenziale: se Dio è morto, tutto è lecito.

Oggi in India, e fra l’ India e altri grandi paesi, ci sono guerre di religione, o fatte passare per tali. Non so perché in quel territorio fatale, dove la penisola indiana alla deriva dall’ Africa cozzò con l’ Asia impennando l’ Himalaia, la faglia del Gujarat, in cui lo scorso sisma catastrofico avvenne nel 1819, sia chiamata “faglia di Allah“. Leggo le cronache del “martello di Dio“: il gruppo islamista Lashkar-i-Toiba, legato a Osama bin Laden, ha definito il terremoto un castigo divino contro il terrorismo indiano in Kashmir e la persecuzione interna delle minoranze musulmane, cristiane e sikh. Soccorritori cristiani lamentano il boicottaggio dei nazionalisti hindu. Intervistati hindu si accusano: “Il dio Shiva si è vendicato delle nostre malefatte“. L’ unico ministro cristiano dello Stato di Karnataka ha dovuto dimettersi per aver dichiarato che il terremoto era la punizione divina contro le aggressioni ai cristiani nel Gujarat.

Ho però raccolto dai giornali anche altre notizie. Il Pakistan, altro paese atomico e in guerra con l’ India, ha offerto e, dopo qualche reticenza indiana, inviato aiuti (“unità cinofile“, soprattutto: più bella, questa solidarietà fra umani in guerra per interposti cani). Il mondo ha mandato mezzi, persone e denaro (anche gli italiani, di cui non si vorrebbe che i telegiornali avessero così fretta di dire “in prima fila“, come a teatro). Il mondo è diventato così vicino. D’ altra parte, centomila morti, sono spiccioli per noi…

Dopo Lisbona, la feroce guerra dei Sette anni indusse Voltaire a mettere l’ accento sulle catastrofi di origine umana: “Nelle nostre guerre si massacrano più persone di quelle che scompaiono nei terremoti“. Il capolavoro in cui si condensò la svolta “pessimista” di Lisbona fu il Candide, nel 1759. (Il termine inglese pessimism, leggo, fu introdotto in inglese nel 1794 da Coleridge. E’ curioso da noi che l’ equivalente al grado positivo invece che superlativo sia invenzione recente: buonismo).

Nel “Candide” c’ è uno scrupoloso catalogo degli orrori dell’ epoca, naturali e umani. Candide e Pangloss sbarcano a Lisbona proprio il giorno di Ognissanti del 1755: mettono piede a terra ed ecco la terra trema. Subito dopo si allestisce un bell’ autodafé: bruciare a fuoco lento un po’ di eretici è l’ infallibile segreto contro i terremoti. Candide viene fustigato e Pangloss impiccato. Tutto va per il meglio.

Leopardi annotò il Poema sul disastro di Lisbona e ne trasse il “barbaro Arimane“: “Vivi, Arimane e trionfi, e sempre trionferai“. La mirabile canzone penultima, “la Ginestra“, affronta anch’ essa la violenza distruttiva e indifferente della natura. Il Leopardi degli anni napoletani non si sarebbe concesso la consolazione interrogativa di Voltaire: vorrei riparlarne a proposito di un grande e scontroso maestro di questi pensieri, Sebastiano Timpanaro, che è morto da poco. E del “progresso” che ha vendicato l’ uomo della inerme soggezione alla natura matrigna, tramutandolo, con un corto circuito fra storia fatta dagli umani e storia naturale, nel precipitoso distruttore di sé e del pianeta.

L’ accostamento fra Lisbona del 1755 e Ahmedabad e Bhuj del 2001 (anche se è solo il nostro 2001) mi suggerisce un altro aneddoto sulla lunga durata, se non della natura umana, di certe abitudini. Ho sott’ occhio una lettera recente (presto pubblicata) a Ernesto Olivero di Norberto Bobbio: “Non ho bisogno di dire che la presenza del male e della sofferenza indipendenti dalla malvagità umana non mette in discussione l’ esistenza di Dio in quanto essere onnipotente… ma in quanto padre misericordioso… E’ ben noto quali grandi e appassionate discussioni abbia sollevato, in epoca illuministica, il terremoto di Lisbona. Perché Lisbona e non Madrid o Roma? Il male non dipendente dall’ uomo esiste e come esiste!, ed è anche distribuito, secondo il comune modo di vedere, bizzarramente, irrazionalmente, senza alcun apparente criterio di giustizia…”.

Lo potrete prendere per un tic libresco: a me piace che il vecchio filosofo, a mondo pressochè spacciato, chiami ancora a testimone della sua incredulità un terremoto di duecentocinquant’ anni fa.

C’ est la faute à Voltaire: merito suo. Del resto, davanti alla famelica città che sale lungo le pendici del Vesuvio è ancora all’ antica Pompei che pensiamo, e ai suoi bordelli. La prossima volta la calca sarà tale che il Plinio che tenti di fenderla per andare a vedere la meravigliosa catastrofe da vicino, sarà ricacciato inesorabilmente in mare.

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