Le presunte “feritoie” dei nuraghi [di Massimo Pittau]

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Il prof. Raimondo Zucca ha preparato per la recente opera in collaborazione La Sardegna – I tesori dell’archeologia, pubblicata da Carlo Delfino per conto della “Nuova Sardegna” (Sassari 2011), un articolo intitolato “L’itinerario”, nel quale egli ha continuato a citare le supposte “feritoie” che si troverebbero numerose anche nel Nuraxi di Barùmini. Invece in realtà quelle “aperture” non sono affatto “feritoie”, per tutta una lunga serie di considerazioni.

In primo luogo c’è da osservare che queste “aperture” non si trovano in alcun nuraghe propriamente detto, bensì si trovano in qualche edificio anch’esso circolare annesso ad alcuni nuraghi complessi, ad esempio ai nuraghi Losa di Abbasanta, Santu Antine di Torralba, su Nuraxi di Barumini, Palmavera di Alghero, Santa Barbara di Villanova Truschedu, Domu de s’Orcu di Domusnovas, Orrùbiu di Orroli, Ortu Commidu di Sardara, ecc.. Che questi edifici circolari muniti delle “aperture” in questione non fossero altrettanti nuraghi è dimostrato da due fatti costruttivi:

1°) Le loro pareti interne non sono aggettanti, ossia con giri di massi restringentisi sempre più fino a congiungersi sulla cima, bensì sono normali pareti verticali, le quali lasciano supporre o una copertura lignea sulla cima oppure una totale mancanza di copertura.

2°) Alcuni di questi edifici circolari muniti di “aperture” non sono collegati in maniera organica al corpo costruttivo del rispettivo nuraghe, né più o meno direttamente comunicanti con questo o fra loro, bensì ne risultano separati ed isolati.

Orbene, nella supposizione della destinazione militare dei nuraghi non si comprenderebbe per nulla perché questi edifici muniti di “feritoie” fossero staccati e perfino isolati dal restante corpo difensivo del complesso nuragico e non strettamente connessi e conglobati con questo. Nella medesima supposizione resterebbe inspiegabile un’altra importante circostanza: perché le presunte “feritoie” sono poste tutto attorno ai suddetti edifici circolari, a forma di raggiera, con un angolo di tiro, pertanto, che avrebbe battuto anche la muraglia esterna del nuraghe propriamente detto? E l’avrebbe battuta con le frecce per quale scopo?

Oltre a ciò, se le «aperture» in questione fossero state altrettante “feritoie”, la loro strombatura sarebbe stata rivolta, non già all’interno, bensì all’esterno, al fine di consentire per ciascuna di esse un più vasto angolo di tiro ai difensori. Tutto al contrario, se si considera con sufficiente attenzione questo particolare costruttivo, si deve concludere che, nella ipotesi che le aperture fossero state “feritoie”, la loro strombatura allargata verso l’interno avrebbe reso molto più vulnerabili i difensori chiusi nell’edificio, che non i nemici che avessero tentato l’attacco dall’esterno.

Ma l’argomento più forte che si oppone a che le aperture di cui stiamo parlando, siano da interpretarsi come “feritoie”, consiste nella difficoltà di indicare e spiegare quale tipo di arma potesse consentire il tiro di proiettili da parte dei difensori attraverso quelle presunte feritoie. In proposito si deve ricordare che nella storia della tecnica militare l’avvento di effettive «feritoie» si ebbe solamente con l’invenzione e l’uso, largo e perfezionato, delle armi da fuoco e, dunque, soltanto posteriormente al secolo XVII dopo Cristo. Le armi da fuoco, infatti, con la loro canna lunga e sottile, potevano essere usate attraverso «feritoie» relativamente lunghe e strette, praticate nei muri dei forti e delle muraglie difensive.

Questo fatto invece era assolutamente impossibile con l’unica arma da getto a tiro preciso che era conosciuta ed usata nei tempi antichi, l’arco. Nelle presunte feritoie degli edifici nuragici in questione, data la loro notevole lunghezza e strettezza, soprattutto all’uscita esterna (si tratta di aperture di 10/20 x 60/90 cm circa) per un arciere sarebbe già stata una notevole abilità scagliare una freccia senza farla urtare contro le pareti dell’apertura.

L’angolo di tiro poi, sempre a causa della lunghezza e strettezza delle presunte feritoie, sarebbe stato ridottissimo, nel senso che avrebbe “battuto” uno spazio esterno ampio solamente qualche decina di centimetri. Inoltre sarebbe stato un lancio di frecce fatto alla cieca, dato che l’arciere, nella stretta apertura attraverso cui stava per scoccare la freccia, non avrebbe avuto alcuna possibilità di infilare la testa per cercare di vedere il nemico da colpire.

Ancora: essendo gli archi, antichi e moderni, lunghi almeno un metro e mezzo – come dimostrano anche le proporzioni dell’arma di una dozzina di arcieri raffigurati da bronzetti nuragici – e dovendosi necessariamente usare sempre in posizione verticale, non si riuscirebbe a comprendere come frecce scagliate almeno a un metro dal suolo, potessero infilarsi in aperture sopraelevate dal suolo stesso appena alcune decine di centimetri.

Infine, mentre si deve ribadire che gli edifici circolari muniti di “aperturenon erano affatto nuraghi, inversamente si deve segnalare e sottolineare che i nuraghi veri e propri non hanno mai quelle “aperture”. Dei circa 7 mila nuraghi solamente pochi hanno nella muraglia qualche piccolo pertugio orizzontale, o nella scala elicoidale oppure dietro qualcuna delle nicchie; questi pertugi però non si possono affatto considerare «feritoie», per il fatto che non hanno alcuna strombatura, né interna né esterna; essi erano semplicemente fori praticati nella muraglia per dare aria e un po’ di luce all’ambiente interno, proprio come avviene per quei pertugi praticati in molti campanili di chiese cristiane al fine di dare aria e luce alla scala.

Si consideri questo parere autorevolissimo di un militare di professione, Alberto La Marmora: «Sulla parete esterna del corridoio ad elica, esistono certe piccole aperture che traversano la muraglia in tutto il suo spessore; si prenderebbero a prima vista per feritoie, ma essendo orizzontali, non lasciano vedere che molto lontano e per lo più soltanto il cielo; d’altra parte tali aperture, che in media hanno 2 dm di larghezza su 3 di altezza, non possono aver avuto altro scopo che quello di dare aria e un po’ di luce al corridoio ad elica».

In generale, se fosse vero che i nuraghi erano fortezze e che le «aperture» in questione erano “feritoie”, allora tutti i 7 mila nuraghi le avrebbero avute; la qual cosa invece è totalmente contraddetta dalla realtà dei fatti: nessun nuraghe vero e proprio ha “feritoie”. Neppure il caso del nuraghe di Santu Antine di Torralba smentisce questa mia asserzione: il nuraghe vero e proprio, cioè la torre centrale, ha semplici lunghi e stretti buchi, mentre le «aperture» si trovano solamente sulla muraglia del paramento triangolare che circonda il nuraghe vero e proprio.

 E siccome, per la ragioni su esposte, quelle «aperture» non potevano essere adoperate come “feritoie” (alcune sono lunghe 4 metri ed altre sono perfino storte), non resta altra soluzione che quella di interpretarle come semplici «finestrelle», indispensabili per dare luce ed aria ai lunghi corridoi, che altrimenti sarebbero stati completamente al buio e pieni di umidità. Facendo poi riferimento agli edifici circolari muniti di «aperture» disposte a raggiera, distinti e quasi sempre staccati dai nuraghi veri e propri, c’è da chiedersi che cosa essi fossero e quale funzione avessero le «aperture» praticate nelle loro pareti.

Due edifici di questo tipo sono stati individuati dal Taramelli nel nuraghe complesso di Ortu Commidu di Sardara ed hanno attirato la sua attenzione. Egli ha concluso con l’interpretarli come «forni» adoperati per la fusione dei metalli necessari per la produzione dei bronzetti, largamente usati sia come ex voto offerti dai fedeli alle divinità adorate nel santuario, sia come oggetti sacri acquistati come ricordo di un viaggio di devozione fatto al santuario stesso.

Del Taramelli ricordo la “ricostruzione ideale” di uno di questi forni, invitando i lettori a fissare la loro attenzione su quelle che egli chiama “bocche d’accensione”: si tratta appunto delle «aperture» in discussione, erroneamente interpretate dagli autori militaristi come “feritoie” e che invece non sono altro che “prese d’aria” o “bocche d’areazione” dei forni stessi, indispensabili per l’accensione e per l’alimentazione intensa e prolungata del fuoco necessario per la fusione dei metalli.

In questa interpretazione delle citate «aperture» nel quadro della attività metallurgica dei Nuragici, trovano esatta spiegazione alcuni elementi costruttivi che invece si opponevano alla loro interpretazione in senso militare:

1°) Quasi tutti gli edifici in questione risultano staccati dal vero e proprio corpo nuragico o almeno non comunicanti con esso, per l’ovvio motivo che erano costruzioni a sé stanti, non aperte all’accesso del pubblico, anche perché molto pericolosi durante la lunga ed intensa accensione del fuoco.

2°) Le loro pareti sono verticali e non aggettanti, per il fatto che prevedevano non una chiusura sulla cima, bensì un’ampia apertura verso l’alto per il tiraggio dell’aria e lo sfiato del fumo.

3°) Le “prese d’aria” o “bocche d’areazione” risultano aperte in tutte le direzioni del loro muro circolare, anche nella direzione della muraglia esterna del corpo nuragico, al fine di rendere più forte, regolare e costante l’entrata dell’aria per l’accensione e l’alimentazione del fuoco.

4°) I forni fusori per metalli si trovano solamente nei grandi complessi nuragici, ossia nei santuari comunitari, dato che soprattutto in questi saranno stati frequenti l’uso ed il commercio dei bronzetti, adoperati come ex voto o come oggetti-ricordo di carattere sacro. Se ne trovano ad esempio due nel nuraghe Losa, nove nel Nuraxi di Barùmini ed uno a Santa Vittoria di Serri. c’è da precisare che la stessa abbondanza dei bronzetti ex voto od oggetti-ricordo ci spinge a supporre che attorno ai nuraghi-santuari ci fosse un notevole smercio di tale materiale e quindi anche una notevole produzione. In molti nuraghi, infatti, sono state trovate le sicure tracce di fonderie, nelle quali appunto si producevano quei bronzetti.

Il Taramelli, parlando di importanti nuraghi si è espresso nel seguente modo: «Al nuraghe Losa di Abbasanta si trovarono vari crogioletti spezzati in trachite, alcuni dei quali avevano ancora tracce di minerali di rame; così a Palmavera d’Alghero, nel cortiletto del nuraghe, con le tracce di ceneri assai copiose, ebbi moltissime scorie e gocce di rame fuso. Anche a Lugherras, in un angolo di una cella, si ebbero scorie e materiale vetrificato da intensi fuochi di fondita. E notizie di avanzi di fornaci e di scorie scoperte entro ai nuraghi provengono continuamente da vari luoghi della Sardegna».

Nei nuraghi-santuari dunque, oltre che le fornaci, sono stati trovati i coni o stampi in pietra, nei quali veniva colato il metallo fuso per la formazione dei diversi oggetti. Dalla forma di questi stampi si trae la conclusione che in quelle officine si producevano non solamente statuette di carattere sacro, ma anche oggetti di uso comune, come accette, martelli, picconi, zappe, bipenni, puntali di lance, pugnali, falci, falcette, ecc.

Il fatto che nelle fonderie dei santuari nuragici l’operazione parareligiosa della fusione degli ex voto e degli oggetti-ricordo andasse di pari passo con la fusione di oggetti di bronzo di uso comune non solamente non deve stupire, ma anzi si spiega perfettamente alla luce di questa esatta osservazione fatta ancora dal Taramelli: «Così si spiega anche la presenza di panelle di rame e di frammenti di metallina e di cassiterite, prodotti tutti che indicano la industria metallurgica che era affiancata a questo o ad altri Santuari, e formava parte di quellinsieme di segreti e di abilità tecniche che metteva le classi sacerdotali al di sopra dei comuni mortali».

C’è infine da precisare che il fatto di non aver compreso che nel Nuraxi di Barùmini i citati 9 edifici circolari, senza copertura e forniti di “aperture” rivolte in tutte le direzioni non fossero altrettanti nuraghetti laterali o locali di comune disimpegno, ma fossero altrettanti “forni fusori”, ha spinto l’archeologo scavatore e disegnatore a collegarli arbitrariamente tra di loro con muraglioni, di cui in sito non c’è nessuna traccia. Dunque facciamoci convinti che la pianta del complesso nuragico di Barùmini, che va in giro in tutte le pubblicazioni, scientifiche e turistiche, è gravemente falsata e stupisce molto che il prof. Raimondo Zucca non se ne sia ancora accorto.

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