Per salvare i quotidiani sardi serve uno choc culturale e una rivoluzione manageriale: altrimenti l’agonia sarà lunga e dolorosa [di Vito Biolchini]
La settimana scorsa per due giorni La Nuova Sardegna non è stata in edicola a causa di uno sciopero, poi sono arrivate le dimissioni improvvise e per certi aspetti traumatiche del direttore dell’Unione Sarda a sconvolgere il panorama del giornalismo e dell’editoria nell’isola. Tutto in quattro giorni: uno choc. Basterebbe questo dato per farci comprendere che da noi la stampa quotidiana versa in una crisi profonda di cui forse abbiamo sottovalutato la portata, avendo inserito questa crisi, tutta specifica, all’interno di quella più generale che riguarda i giornali in Italia e in Europa. La specificità sarda è data dalla limitata vocazione urbana della nostra isola: i quotidiani nascono nelle città e ne sono uno dei frutti più magnifici. Ecco perché solo Cagliari e Sassari sono ancora oggi sede di queste imprese dalla natura particolare, commerciale e culturale allo stesso tempo, il cui ambito di sviluppo da noi è dunque limitato. La crisi dei quotidiani sardi è allora anche la crisi delle città che li esprimono e insieme del concetto di urbano presente nella nostra regione. Poi c’è un aspetto più legato alle logiche dell’impresa: negli ultimi dieci-quindici anni ci sono stati in Sardegna numerosi tentativi di ampliare il numero dei giornali a disposizione dei lettori: nuovi quotidiani che però (a causa di limiti a volte editoriali, a volte imprenditoriali) sono tutti falliti. Il peso di questi fallimenti ora grava ora su chi vorrebbe provarci ancora (oggi la Nuova Sardegna si può prendere in affitto per un milione di euro all’anno, ma vorrei sapere cosa passa per la testa di chi sta pensando di farlo) e si somma alla paurosa regressione del mercato editoriale che investe tutta l’Italia, ma che da noi colpisce un ambito già duramente provato, fragile e poco strutturato. In Sardegna in poco tempo siamo tornati indietro di almeno trent’anni e la caduta non accenna a fermarsi. Fossero solo un’impresa commerciale, i quotidiani andrebbero per la loro strada, regolati unicamente dal famoso e mitizzato “mercato”. I giornali però costituiscono anche uno spazio di libertà intimamente connesso all’idea di democrazia così come la abbiamo sviluppata negli ultimi 150 anni in questa parte di occidente. La presenza di una opinione pubblica libera e indipendente è proprio l’elemento principe che determina la qualità di una democrazia al di là delle sue istituzioni formali (libere elezioni, separazione dei poteri, magistratura indipendente, eccetera eccetera). L’Italia sconta un pauroso ritardo rispetto al tema della libertà di stampa. Ma se nella famosa classifica ci fosse anche la Sardegna, temo che noi ci piazzeremmo ancora più indietro perché la libertà di stampa è data non solo dalla qualità del prodotto giornalistico ma dalla presenza nel mercato di una pluralità di soggetti. La libertà di stampa, la sua qualità, sono fattori determinati dalla pluralità dell’informazione: senza una pluralità di testate in un mercato, sia la libertà che la qualità della stampa sono limitate. Non è un caso che la Sardegna vive invece da decenni in una perdurante condizione di oligopolio. Solo una cifra. Il primo rapporto sul sistema dei media locali in Sardegna, redatto nel 2008 dalla Fondazione Rosselli per il Corerat Sardegna (e da tempo attendiamo una seconda edizione), stabilì che nel 2006 il mercato media sardo (composto allora da venti tv, cinquanta radio e 465 testate) fatturava complessivamente 86 milioni e 200 mila euro. Volete sapere quanto fatturavano complessivamente assieme i media del gruppo Unione e La Nuova? Ben 70 milioni di euro! E in percentuale oggi questa cifra è sicuramente salita, visto che dal 2006 ad oggi moltissime radio e tv hanno chiuso i battenti. Proprio perché la stampa è fondamentale per un corretto funzionamento della democrazia, la politica nel bene o nel male si occupa di essa: nel peggiore dei casi per cercare di condizionarla, nel migliore per creare i presupposti per un suo ampliamento. Tutte le politiche messe in campo dalla Regione Sardegna dagli anni 90 a questa parte hanno avuto come obiettivo quello di consolidare la posizione di oligopolio delle testate dominanti. E anche la giunta regionale attualmente in carica ha seguito questa strada. Questo conservatorismo ha danneggiato le imprese editoriali perché non ha sviluppato la concorrenza e stimolato l’innovazione. La politica ha tutelato i gruppi oligopolistici impendendo la nascita, lo sviluppo e il consolidamento di serie alternative ad essi; i gruppi oligopolistici si sono accontentati di vivere di rendita, immaginando che bastasse stringere un patto con la politica (affinché questa ostacolasse o non favorisse l’accesso nel mercato di nuovi soggetti) per poter continuare a fare utili, offrendo in cambio una informazione politica convenzionale, rassicurante, senza slanci, senza dibattiti. In questo modo, fattore più spesso di conservazione che di innovazione, i giornali sardi hanno continuato a fare sempre lo stesso prodotto, senza più seguire i cambiamenti della società isolana. Il patto stipulato con i poteri forti per l’allocazione privilegiata delle risorse li ha distolti dall’obiettivo primario, cioè la continua ricerca di un dialogo nuovo con i lettori. Il deficit di ascolto, l’assoluta autoreferenzialità, ha accomunato nel medesimo declino giornali e partiti. I giornali sono così diventati sempre meno un prodotto culturale e sempre più un prodotto e basta, con il risultato che ora sono in mezzo al guado: incapaci di dare senso alle cose, non sono più i giornali di una volta, ma non sono ancora i giornali del futuro. E con questa crisi internet non c’entra nulla. Con una battuta vorrei dire che non è colpa della rete se su un quotidiano sardo, qualche giorno fa, si è letta una notizia nella quale si informava dell’autopsia effettuata su un asino deceduto per la Febbre del Nilo, animale “di cui non sono state rese note le generalità”. No, internet non c’entra nulla con un tale scadimento della qualità giornalistica. *** È chiaro che poi il mondo è anche cambiato. La “società liquida” di Bauman oggi è citata anche nei bar ma sembra non essere conosciuta da chi vive con sgomento la dissoluzione di due delle istituzioni culturali più significative frutto della società di massa: i partiti e la stampa cartacea quotidiana. Entrambi in crisi, entrambi in declino. Per ironia della sorte, in Sardegna sono entrati in crisi contemporaneamente il partito più grande e il gruppo editoriale maggiore, quasi a ricordarci che qualità della politica e qualità della stampa vanno a braccetto, uniti da una sorte comune. Nella società delle reti accade anche questo: che al pari della forza, anche la debolezza si trasmette da un soggetto all’altro. Oggi in Sardegna tutto è debole: la politica, il giornalismo, le istituzioni, le banche, tutto. Il tema della crisi dei quotidiani è uno dei più dibattuti nell’ambiente degli addetti ai lavori. In maniera molto superficiale si può affermare che l’avvento di internet ha messo in crisi il prodotto editoriale, ma in realtà non è esattamente così: perché laddove si sono ristrette delle prospettive, per i gruppi di medie o grandi dimensioni (come sono quelli a cui fanno riferimento i due quotidiani sardi: uno legato ad un grande gruppo italiano, l’altro composto anche da una radio da una tv e da sito internet) se ne sono aperte altre, legate proprio a queste nuove prospettive. È chiaro che un cambiamento epocale del genere ha bisogno di essere governato e non subito. Tutto è cambiato e di questi tempi non è sufficiente avere una solida cultura giornalistica per poter guidare una qualunque testata e bloccare l’emorragia delle copie vendute: servono nuove competenze, legate al mondo della tecnologia, dell’innovazione, della comunicazione. Con una battuta potremmo dire che oggi non basta essere giornalisti per fare i giornalisti. Occorrono anche ulteriori competenze specifiche. Pensare che la fortuna di un quotidiano dipenda dalla sua linea politica o dal suo posizionamento nel confronto dei poteri forti è infantile. Bisogna invece rinnovarsi e rinnovare ogni aspetto del processo produttivo, perché nella comunicazione di oggi o si è innovatori o si è condannati all’irrilevanza. Ogni impresa editoriale deve essere per forza una impresa innovativa. I nostri quotidiani la sfida dell’innovazione la stanno perdendo clamorosamente, da anni. Perché si rifiutano di accettarla. E l’aspetto più sconcertante è che la Sardegna aveva un vantaggio enorme rispetto ad altre realtà, se è vero come è vero che Cagliari nei primi anni 90 è stata una delle capitali mondiali del nascente web e che nel 1994 l’Unione Sarda è stato il primo quotidiano europeo e il secondo al mondo a finire on line! Come è stato possibile dissipare questo incredibile vantaggio? Io la penso così. I giornalisti non sono stati all’altezza della sfida dell’online e si sono rinchiusi nelle loro rassicuranti redazioni, ritenendo di avere ancora il monopolio della notizia, con la superbia di chi pensa che la realtà è solo ciò che viene raccontato dal proprio giornale, senza volersi mettere in gioco e in discussione, in primo luogo con i lettori. Gli editori invece hanno semplicemente deciso di vivere di rendita, limitandosi ad incassare utili o a limitare le perdite quando in realtà dovevano investire in innovazione. E di questa scelta poco lungimirante ora ne pagano le conseguenze *** Gli esperti sono concordi nell’affermare che le testate che stanno affrontando meglio la crisi sono quelle che investono in qualità e in innovazione. Qualità significa giornalisti più preparati, specializzati e continuamente formati; significa un management che conosce il nuovo mercato editoriale digitale e che non si affida solo agli accordi con la politica o all’ennesima collana di ricette per tirare su il numero delle copie vendute; significa una organizzazione del lavoro diversa, dove si opera in gruppo e non da soli (neanche nell’editoria esiste il salvatore della patria) perché nella comunicazione ogni lavoro è un lavoro collettivo che ha bisogno di professionalità diverse per arrivare all’obiettivo. Innovazione invece vuol dire coraggio e sperimentazione di nuove tecnologie. Vuol dire avere editori che hanno il gusto di essere pionieri, perché nella comunicazione di oggi o si è pionieri o si muore. I quotidiani che non seguono la strada della qualità e dell’innovazione sono destinati a morire dopo una lunga agonia o, nel migliore dei casi, ad essere condannati all’irrilevanza economica e sociale. Contenere i costi senza fare alcun investimento in qualità e innovazione non basta a salvare la baracca, rischia anzi di essere deleterio. A meno che non si voglia snellire una società editoriale per poi metterla in vendita “pulita”. Esattamente come ha fatto Meridiana. E magari cercando di venderla agli stessi acquirenti. Conclusione: anche i giornali sardi si salveranno solo attraverso uno choc culturale e una rivoluzione manageriale. Se così non sarà, assisteremo ad una agonia lunga e dolorosa, con gravi ripercussioni anche per la qualità del nostro dibattito democratico, già ridotto ai minimi termini.
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Beh l’asino “di cui non sono state rese note le generalità” fa il paio con alcuni titoli dell’Unione degli anni ’80:
Semafori spenti a Lollove
Tutto esaurito ad Austis (in agosto).
Che la crisi dell’antico quotidiano sia cominciata già allora?
Gentile Vito, condivido molte delle sue considerazioni: la qualità di ciò che leggiamo nei quotidiani sardi è quella che è e nell’informazione c’è sicuramente bisogno di uno choc culturale e di una rivoluzione manageriale. Quello che non mi convince del suo ragionamento è il ridurre il discorso all’ambito sardo, che ha certo le sue specificità ma che non sono decisive: non credo che qui sia peggio che altrove. Temo che sia un problema generale: sardo, italiano e globale. Internet ha cambiato tutto: la carta è un supporto del passato, in esaurimento, ma è ancora quello che paga lo stipendio dei giornalisti che lavorano in redazioni sempre più ridotte e dunque in condizioni sempre più difficili, mentre il web – la piattaforma da cui tutti, sempre di più, si informano “gratis” – non genera entrate sufficienti a sostenere l’impegno di chi deve cercare, approfondire e spiegare le notizie. Non dico niente che non si sappia già: i giornali di carta spariscono, il web da solo non regge. Al mondo, purtroppo, non c’è ancora un business model per il settore news che funzioni davvero. Molti fanno investimenti, sperimentano nuovi modelli di lavoro ecc. ma la china è ancora discendente e a occhio non si fermerà. A questo punto il problema non è più solo dei giornalisti e delle aziende editoriali, è anche dei cittadini. Con tutti i loro difetti-colpe-sciatterie-partigianerie ecc. gli organi di informazione, nel loro insieme, consentono a tutti noi di farci un’idea abbastanza precisa di ciò accade. Ogni giornale che chiude (o che non apre), soprattutto se ha una storia alle spalle, è un colpo alla possibilità di conoscere e capire il nostro mondo. In Sardegna, certo. Ma non solo. Cordiali saluti