Ancora su Raffaello a Mosca [di Tomaso Montanari]
La Repubblica online 15 settembre 2016. «“Le relazioni culturali sono da sempre un pilastro del rapporto bilaterale tra l’Italia e la Russia che hanno permesso, anche nei periodi di maggiore difficoltà a livello internazionale, di mantenere un dialogo intenso tra i due Paesi e tra i due popoli” –, ha poi aggiunto l’ambasciatore, ringraziando il Museo Pushkin per “il suo interesse a portare a Mosca nei prossimi mesi e anni nuovi capolavori italiani”, da Michelangelo, a Dante e ai Caravaggiti, per citarne alcuni». Questo testo imbarazzante (che risale al 17 dicembre 2014) è preso di peso dal sito ufficiale del nostro Ministero degli Esteri. Davvero pensiamo che possiamo usare la cultura senza avere nessuna cultura? Uno storico dell’arte sarebbe probabilmente un disastro, se si improvvisasse diplomatico: e allora perché dobbiamo ridurci, a leggere sul sito della Farnesina, che saranno portati a Mosca «nuovi capolavori italiani, da Michelangelo a Dante e ai Caravaggiti»? È vero, per secoli l’arte figurativa è stata un’importante leva diplomatica. Ma questo avveniva perché i principi, o i loro ministri, erano personalmente appassionati d’arte: un modello che non ha più alcun senso con l’avvento delle democrazie moderne, e con la nascita della storia dell’arte come disciplina scientifica. E infatti l’ultima fase, drammatica e farsesca, della diplomazia dell’arte ha coinciso con le grandi dittature: Mussolini ha usato con particolare intensità un patrimonio artistico che personalmente non conosceva, o che addirittura disprezzava. Oggi, l’unica possibile diplomazia dell’arte è quella non governativa: quella della comunità internazionale della conoscenza, che fa ricerca e divulgazione secondo i propri tempi e i propri percorsi, senza ridurre le opere d’arte a prigionieri che seguano in catene gli effimeri trionfi internazionali dei capi di governo pro tempore. Quando gli Uffizi furono costretti a prestare una delicatissima Annunciazione di Botticelli al Museo di Gerusalemme per festeggiare i 65 anni dello Stato ebraico, io e il mio collega israeliano Sefy Hendler scrivemmo al Corriere della sera: «Crediamo profondamente nell’amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell’amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzati da scambi di singole opere ‘feticcio’ decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento delle comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un ‘evento’ del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell’antico regime: nelle democrazie moderne le opere d’arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini». Ma, almeno in Italia, queste ovvietà sembrano destinate a non essere ascoltate. Solo da noi i governi del Dopoguerra hanno continuato sulla strada delle mostre fasciste: invano, nel 1952, Roberto Longhi si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite». E così ancora tutti i ministri recenti, da Sandro Bondi a Dario Franceschini, hanno continuato ad organizzare mostre politiche: esattamente come questa di Raffaello a Mosca, compresa in un accordo economico firmato dal presidente del Consiglio Renzi in un suo viaggio d’affari a San Pietroburgo nel giugno scorso. A proposito della quale, uno dei superdirettori nominati da questo governo mi ha scritto privatamente che trova sconcertante che il suo collega degli Uffizi si pieghi ad «una mostra su Raffaello a Mosca su richiesta dell’ambasciatore, dopo il viaggio del presidente del consiglio, con domande mandate a giugno per un’inaugurazione a settembre». Vedere l’Autoritratto di Raffaello ridotto a comparsa d’onore in un ricevimento all’Ambasciata italiana a Mosca (esattamente nello stesso luogo dove hanno posato negli ultimi anni Caravaggio o Bellini, secondo un format ormai grottesco) dovrebbe dare da pensare. Se ci chiediamo perché non succeda niente di simile in nessuna ambasciata straniera in Italia, la risposta va forse cercata nella maggior serietà degli altri governi e delle altre diplomazie, che rispettano la sovranità dei musei, e non giocano a travestirsi da mecenati del Rinascimento, finendo poi a scrivere «caravaggiti». Ma la colpa non è solo dei politici: è anche dei tecnici che piegano il capo pur di proteggere la loro carriera. C’è qualcosa di tristemente ironico in questa vicenda, perché quando (nella Commissione Bray per la riforma del Ministero per i Beni culurali) iniziammo a discutere la possibilità di riconoscere ad alcuni grandi musei un certo grado di autonomia, lo facemmo dicendo esplicitamente che uno degli obiettivi era evitare che i direttori degli Uffizi fossero costretti a inviare all’estero le opere più importanti del museo per ragioni politiche. Questo accadeva perché, nel vecchio ordinamento, il direttore era sottoposto al soprintendente: e siccome quest’ultimo era a sua volta sottoposto ad un rinnovo contrattuale, l’autonomia scientifica veniva in sostanza vanificata. In pratica, il soprintendente si genufletteva di fronte al ministro, e quindi imponeva al direttore di prestare. La riforma Franceschini ha cambiato tutto perché tutto rimanga com’era: anzi, ha saltato un passaggio, perché oggi il ministro nomina direttamente il direttore. E il direttore scatta immediatamente sull’attenti. Ed è degno di amara ironia il fatto che a sostenere l’autonomia del direttore c’era, in quella commissione, anche Matteo Ceriana: che oggi, da responsabile della Galleria Palatina di Pitti sottomesso al superdirettore degli Uffizi, si è visto imporre (sebbene lui e tutti i suoi funzionari storici dell’arte fossero contrari) la partenza dei Raffaello del suo museo. Il caso del prestito dei ritratti di Agnolo e Maddalena Doni è particolarmente imbarazzante, perché l’Opificio delle Pietre Dure ha scritto agli Uffizi che «i rischi a cui andrebbero incontro a seguito di un loro spostamento potrebbero cambiare sostanzialmente lo stato di conservazione». E ancora: «esporre le opere al rischio di sollecitazioni meccaniche che possono provenire da un lungo viaggio e da un cambiamento di clima potrebbe esseremolto rischioso». La contrarietà dell’Opificio era così radicale che nessuno dei suoi restauratori ha voluto accompagnare le opere. Eppure il direttore degli Uffizi si è assunto la responsabilità di spedirli comunque, diramando poi un comunicato che cerca di ribaltare il senso della relazione dell’Opificio, e che si conclude – con un tono di sfida decisamente inopportuno, visto che manca ancora il viaggio di ritorno e che i danni eventuali si potranno constatare solo a consuntivo – affermando che per ora sono sani e salvi. La mostra di Raffaello a Mosca è – usiamo le parole con cui Antonio Cederna ne fulminava una, del tutto analoga, nel 1956– «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti. Grandi equilibristi, disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare». Sarebbe ingeneroso dire che nulla è cambiato: oggi i soprintendenti non ci sono più, ad obbedire sono i superdirettori.
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