Il latino ci dice che non c’è solo il presente [di Ivano Dionigi]
La Repubblica, 15 settembre 2016. Se il genere umano vuole progredire e non spegnersi non basta far funzionare meglio le macchinette che hanno fatto diventar ricchi e ricchissimi i pochi e poveri e poverissimi i molti. «Una riflessione su scuola discipline umanistiche e formazione dei cittadini. Estratto del libro Il presente non basta (Mondadori). La parola «scuola» evoca una stagione della nostra vita, un titolo di studio, la Cenerentola dei nostri Ministeri, il ricordo di un ottimo insegnante, l’origine dei nostri fallimenti o successi. Non si ricorderà mai abbastanza che «scuola» deriva da «scholé», parola greca che indica il tempo che il cittadino riservava alla propria formazione, quella che i Greci chiamavano «paideía» e che volevano non specialistica e monoculturale, bensì completa e integrale: «enkýklios», «circolare». Secondo questa prospettiva originaria, la scuola è il contrappeso di certa modernità polarizzata sul «presente», sull’«adesso», sull’«ora» (modo, da cui appunto derivano sia «moderno» che «moda»). Essa è il luogo dove si formano i cittadini completi e non semplicemente — direbbe Nietzsche — «utili impiegati». In un Paese civile e colto, centrale è la figura dell’insegnante, del docente, del maestro (magister), vale a dire «colui che sa di più e vale di più» (magis) e che si mette in relazione con gli altri (- ter); in opposizione a minister, «colui che sa e vale meno». Sono termini del linguaggio religioso: magister era il celebrante principale, minister era il celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Segno dei tempi: noi oggi abbiamo sostituito al rispetto per i Maestri l’ossequio per i Ministri. Alternativa ciclicamente ricorrente è quella che si chiede se la scuola deve avere lo sguardo rivolto al passato o al futuro, privilegiare la conoscenza o la competenza, mirare alla formazione o alla professione. A chi sostiene che la scienza è destinata a scalzare inesorabilmente le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà rispondere che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere della domanda; e pertanto tra scienza e humanities ha da essere un’alleanza naturale e necessaria, perché i linguaggi sono molteplici ma la cultura è una. Steve Jobs ci ha ricordato la necessità del ritorno alla figura dell’ingegnere rinascimentale. Ma cosa rispondere a chi – pur consapevole che la scuola, intesa come scholé, ha il compito di insegnare ciò che non si apprende né dalla famiglia né dalla società né dalle istituzioni – deve fare i conti con la realtà aggressiva e incontrovertibile di un mondo extrascolastico parallelo, di un’altra educazione, di un altro apprendimento? Di fronte a questo nuovo scenario giova continuare a credere che la scuola è l’unico luogo di incontro reale rispetto al mondo immateriale dei nuovi media? Che siamo in presenza di puri strumenti, mentre i valori sono altri? O piuttosto sarà bene riconoscere che con la realtà «fisica» convive la realtà «digitale» e che le tecnologie e i social network creano un nuovo «ambiente», il che significa nuovi pensieri, nuove relazioni, nuovi stili che entrano nella vita di tutti i giorni? Indubbiamente questa nuova cultura e formazione ha rischi seri: su tutti, quello che Eliot chiamava «il provincialismo di tempo », proprio di chi crede che la vita e il mondo inizino con noi e col nostro presente; e quello che Byung-Chul Han chiama «l’inferno dell’Uguale»: un mondo senza il pathos della distanza e l’esperienza dell’alterità. Cosa sa del presente chi conosce solo il presente? Cosa sa di tecnologia chi conosce soltanto la tecnologia? Cosa sa dell’altro chi con un clic ne vede la faccia ma non il volto? Solo la scuola può – e, io aggiungo, deve – comporre tale querelle, coniugare il momento «noto» dell’insegnamento dell’aula (docere) con quello «nuovo» dell’apprendimento della rete (discere), tradurre (trans-ducere) la comunicazione in comunione e fare dei tanti «io» il «noi», che dovrà essere il pronome del terzo millennio. Compito della scuola è insegnare che le scorciatoie tecnologiche uccidono la scrittura; ricordare ai ragazzi che la vita è una cosa seria e non tutto un like; formare cittadini digitali consapevoli, come essa ha fatto con i cittadini agricoli, i cittadini industriali, i cittadini elettronici; convincere che la macchina non può sostituire l’insegnante; dimostrare che libro e tablet non sono alternativi e rivali ma diversi perché il libro racconta, il tablet rendiconta. Una sfida tanto auspicabile quanto utile sarebbe la compresenza del professore di «latino» – e in generale dei professori delle discipline umanistiche – e del professore di «digitale», ora infelicemente denominato dalla burocrazia ministeriale «animatore digitale», come se si trattasse di un ruolo ludico e ricreativo. Da tale confronto i ragazzi capirebbero sia la differenza tra il tempo e lo spazio sia la necessità della coabitazione tra l’hic et nunc («qui e ora») e l’ubique et semper («ovunque e sempre»). Non ho mai capito la rovinosa alternativa per cui l’inglese o l’informatica debbano sostituire, e non piuttosto integrare, altre discipline come il greco e il latino. Errore ben rappresentato da quanto proponeva l’ex ministro Luigi Berlinguer: «Rendere opzionale il latino, dando così spazio alla necessaria accentuazione scientifica». Ma io dico: cosa di più arricchente e convincente di un liceo classico dove il ventaglio dei saperi umanistici si dispieghi e si coniughi con quelli scientifici? Aumentare e accrescere, non diminuire e sottrarre; et et e non aut aut deve essere la misura della scuola. Questo è possibile con provvedimenti seri e investimenti veri: dilatando gli orari scolastici, abolendo i compiti a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti. L’unica riforma degna della scuola: crocevia del futuro. Il nostro Paese, fino a non molti anni or sono, ha conosciuto – e riconosciuto anche economicamente – l’importanza e la nobiltà della figura dell’insegnante, del docente, del professore: colui che «professa» (dal latino profiteri) la ricerca, il fondamento e la trasmissione del sapere e dei saperi. Figura cardine di un Paese civile che abbia il futuro nel sangue: da riscoprire e riabilitare, perché oggi maldestramente delegittimata da politici e famiglie e sciaguratamente derubricata a dimensioni amministrative e mansioni burocratiche. Peggio: ridotta al ruolo di «facilitatore», una sorta di «super-capoclasse»; e così si fa un torto triplice: agli insegnanti, che sanno che per alcuni traguardi culturali occorre munirsi – avrebbe detto Mandel’stam – di «scarponi chiodati»; agli studenti, che chiedono testimonianze di coerenza e verità; e alla scuola, che non è e non deve essere il luogo dove si attenuano o si occultano le difficoltà; dove, per una malintesa idea di democrazia o egualitarismo, si rendono deboli i saperi anziché forti gli allievi.
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