Il grano, il latte, i vini, l’olio, le terre. Vocazione o Land Grabbing in Sardegna? [di Sergio Vacca]
Ultimamente gli organi di stampa trattano con enfasi i problemi riguardanti l’agricoltura in Italia. Richiamo “L’egemonia del Barolo, così il re delle Langhe mette a rischio gli altri vini” di Carlo Petrini (la Repubblica 7 agosto) e, nello stesso quotidiano, il 15 agosto l’ intervista a Oscar Farinetti: “Ci sono materie prime che è giusto importare. La sfida con l’estero è sulla qualità dei prodotti.”. In entrambi emerge la “vocazione delle Terre”, ovvero il rapporto ottimale tra “caratteristiche e qualità delle terre” e “qualità dei prodotti”: vini, olio, latte, grano e via elencando. Preferisco “attitudine” delle terre, utilizzato nella Scienza del Suolo, anche se il dizionario Treccani, alla voce “vocazione” specifica “in agricoltura (specialmente in viticoltura), e in zootecnia, speciale idoneità di un terreno a una determinata coltivazione, e rispettivamente di razze animali a una determinata produzione: v. viticola; colline di alta v. per la coltura di un particolare vitigno; vacche a v. carnea, lattifera”. Mentre alla voce “attitudine” definisce “raro, di cose, idoneità a un uso, rispondenza a uno scopo”. E’ quindi l’angolo visuale delle vocazioni o delle attitudini a determinati utilizzi, che si vede trascurato nelle politiche agricole in tutti i livelli di governo, come in certe forme d’uso delle Terre, siano estensive o industriali. Lo dice Petrini quando parla del lavoro che negli anni venti del 1900 fece Ferdinando Vignolo Lutati di “identificazione dei cru di Langa, le particelle considerate migliori non erano, contrariamente a quanto potremo immaginare, quelle in cui si coltivava il Nebbiolo da Barolo. Al contrario, nelle aree tenute in maggiore considerazione si piantava la Barbera”. E conclude con una considerazione molto importante: “Quando sento produttori che vogliono espiantare Dolcetto e Barbera per coltivare il Nebbiolo da Barolo mi fa male il cuore, perché significa rinnegare quello che è in definitiva il vero valore della viticoltura di Langa, fatta di diversità di terreni e dunque di caratteristiche che diversamente si adattano a vitigni evolutisi nei secoli, insieme ai vignaioli, per dare ciascuno il meglio di se. Così come, quando vedo svendere bellissimo vigneti di Dolcetto che i nostri vecchi ritenevano di assoluta eccellenza e al contempo strapagare cifre folli vigneti di Nebbiolo da Barolo classificati meno bene, penso a come reagirebbero i grandi patriarchi del vino di Langa. Sono sicuro che non sarebbero affatto d’accordo.” Specie in viticoltura, “cru”, dal francese croitre, “ciò che cresce in una regione”, definisce le Terre dal punto di vista delle loro produzioni e delle qualità che possono esprimere. In enologia ha il significato di zona delimitata produttrice esclusiva di un vino, ovvero di vigneto che fa parte di tale zona, capace di produrre vino di caratteristiche organolettiche particolarmente pregiate [Treccani]. Perché questa premessa? Ecco alcune considerazioni che riguardano la nostra isola. La prima riguarda la delimitazione degli areali di produzione dei vini nel territorio regionale. Dei Terroir, secondo la terminologia francese, che può tradursi col termine Terre, secondo le indicazioni del Consiglio d’Europa. “Terroir, concetto più ampio rispetto al termine cru, è una combinazione, consolidatasi nel tempo (secoli o, almeno, alcune decine di anni) dei fattori, che determinano un vino di alta qualità e immediatamente riconoscibile: posizione geografica, denominazione, suolo, clima, vitigno, modalità di coltura in vigna e di vinificazione/affinamento in cantina, modalità di commercializzazione e di consumo. Quindi non solo fattori fisici, chimici, ma anche antropici e storici. Con terroir, quindi, si intende un concetto molto vasto che riassume tutti i criteri che contribuiscono alla tipicità di un vino.” Come si adatta tale tradizione vitivinicola europea ma anche italiana da oltre un secolo, alla politica vitivinicola in Sardegna? Accennerei al caso della Vernaccia di Oristano. La denominazione di origine controllata del vitigno “Vernaccia di Oristano” è riservata al vino che risponde ai requisiti stabiliti nel relativo disciplinare di produzione. E, fin qui nulla da eccepire. I problemi sorgono quando si procede alla delimitazione delle aree. “Le uve devono essere prodotte nella zona di produzione appresso delimitata che comprende in tutto o in parte i seguenti territori comunali” e ne elenca sedici, tra i quali Oristano, Baratili S. Pietro, S. Vero Milis, Cabras, Milis e via elencando, comprese sette frazioni. Ma ciò che lascia perplessi è la definizione dei confini. Di seguito un esempio: “Il confine della zona partendo dal piccolo centro abitato di S. Giovanni Sinis costeggia la riva settentrionale degli stagni di “Mistras” e di “Mardini” fino alla congiungente di questo ultimo con la strada provinciale Cabras- Gran Torre e seguendo questa, si giunge in località Gran Torre. Da questa località, il limite segue il percorso della strada che conduce a Oristano fino al 1° bivio della litoranea “Brabau”, congiungendosi questa con la strada per il “Pontile“. Come si fa a pensare che simile delimitazione degli areali di produzione della Vernaccia di Oristano, basata su limiti stradali o ferroviari, possa consentire di definire dei “cru”, ovvero permettere di delimitare zone, o più in particolare un “vigneti che fanno parte di tali zone, capaci di produrre vino di caratteristiche organolettiche particolarmente pregiate”. Ma anche di delimitare il Terroir della Vernaccia, o meglio le Terre della Vernaccia, secondo la definizione data nel volume La Vernaccia di Oristano a cura di Enzo Biondo? Si tratta, è vero, di un disciplinare approvato nel 1971, tuttavia modificato nel 2011 e pubblicato nel sito ufficiale del Ministero delle Politiche Agrarie e Forestali. Questo, mentre la definizione dei principali “cru” delle Langhe avveniva – come riportato da Petrini – negli anni venti del 1900 e mentre, lo stesso Ministero produce studi di zonazione viticola per i grandi vini della Toscana. Occorre che la “politica agricola” della Regione dimostri a questo importante vino l’attenzione che merita. Vino che – occorre ricordarlo – in poco meno di trent’anni ha perso il 90% della superficie coltivata, passando da poco più di tremila ettari a meno di trecento. Come? Ad esempio, così come è stato avviato per il Cannonau di Jerzu [AAVV, 2012, Le Terre e le vigne del Cannonau di Jerzu], con un’attività di zonizzazione viticola del territorio in Ogliastra, coinvolgendo le Agenzie regionali operanti in Sardegna nel settore della Ricerca e dell’Assistenza Tecnica in Agricoltura, l’Ente di Ricerca del Ministero delle Politiche Agricole e le Università isolane. Uno strumento che, riunendo e facendo interagire diverse discipline, pone in evidenza gli elementi naturali ed umani che concorrono a dare forma e notorietà ad un vino, ma, nel contempo, si prefigge anche di far emergere quei fattori tecnici che possono contribuire ad utilizzare le risorse varietali e naturali di un comprensorio produttivo. Fondamentale negli studi di zonazione, il ricorso ad indagini riguardanti il suolo, la geo-morfologia e il clima, per pervenire alla migliore definizione dei paesaggi e delle unità che lo compongono. Quindi lo studio delle interazioni tra vitigno e ambiente. Ed infine i vini, con la valutazione delle caratteristiche organolettiche. La definizione dei “cru” e del “Terroir” o meglio la vera delimitazione delle “Terre della Vernaccia di Oristano”. Appunto. La seconda considerazione riguarda il rapporto vocazionale o attitudinale tra le Terre e l’installazione di impianti industriali, in particolare, di produzione energetica come il “solare termodinamico”. In tutte le definizioni di suolo l’aspetto centrale è rappresentato dall’assunto “il suolo supporta o e capace di supportare la vita delle piante all’aperto” [U.S.D.A., 2006, Keys to Soil Taxonomy, the 10th edition]. Per cui, il suolo, che riceve energia dal sole, produce, o può produrre, biomassa vegetale in ragione dell’ estensione delle proprie superfici e dell’energia che riceve direttamente attraverso l’atmosfera. Osserverei perciò che qualsiasi mezzo sottragga l’incidenza diretta dell’energia solare sul suolo inibisce, fino ad impedirla, la produzione di biomassa vegetale. Per riferire di un dibattito molto vivo in Sardegna in questo periodo, gli impianti, che le Società Gonnosfanadiga e Fluminimannu intenderebbero realizzare nel Campidano di Cagliari, distruggeranno i suoli con la realizzazione dei plinti d’ancoraggio profondi 8-10 metri, nell’ordine di 40-50 plinti per ettaro. E non sarà una distanza di 15-20 metri tra gli allineamenti del milione e cinquecentomila specchi paraboliche a determinare – come falsamente viene scritto nelle relazioni di accompagnamento ai progetti – a realizzare percorsi di resilienza” rispetto a condizioni edafiche squilibrate. Aggiungo un richiamo a quella che viene ancora considerata a livello internazionale la principale metodologia di valutazione del consumo dei suoli. Il gruppo di lavoro, operativo in Sardegna negli anni 70-80 del 1900 nel Progetto Finalizzato “Conservazione del Suolo” del C.N.R., sotto la guida di. Angelo Aru, studiò una metodologia di analisi del “consumo di suolo”, testandola sull’espansione urbanistica della città di Cagliari e dei centri dell’hinterland tra il 1954 ed il 1975. Vennero utilizzate come riferimenti cartografici le foto aeree di tre diversi periodi e vennero effettuati rilievi pedologici di dettaglio. E’ stata così ricostruita la carta dei suoli al 1954 e, con le foto aeree delle due levate successive, è stato misurato il consumo di suolo intervenuto, non solo in termini globali, ma soprattutto individuando le tipologie di suoli consumati. I diversi tipi di suolo sono stati perciò caratterizzati e classificati secondo il sistema del Soil Survey Staff del U.S.D.A. Soil Taxonomy e quindi valutati in relazione alla loro potenzialità – o se si preferisce – vocazionalità agricola, utilizzando il metodo della Land Capability Classification. In relazione alle rispettive “capacità d’uso” per l’agricoltura (I-IV classe), per il pascolo (V-VI) e per la selvicoltura e la protezione dell’ambiente (VII-VIII) i diversi suoli sono stati inseriti nelle diverse classi di L.C.C. E’ emerso che l’espansione di Cagliari e dell’hinterland ha prevalentemente consumato suoli dalla I^ alla IV^ classe, ossia i migliori del sud della Sardegna. Per un totale, al 1975, di circa novemila ettari. Questo lavoro fu presentato a Berlino nel settembre del 1980 al Congresso della Società Tedesca della Scienza del Suolo, venendo riconosciuto come ricerca di alto valore metodologico. Alcune domande sono, infine, d’obbligo. Può un impianto industrial-energetico venir considerato ottimale per la vocazionalità delle Terre? Ovvero, in base a quali principi e a quali metodologie le Terre utilizzate per l’agricoltura, nelle sue diverse forme e accezioni, o per il pascolo per centinaia e centinaia d’anni, possono manifestare una vocazione o un’attitudine agli impianti industrial-energetici? Come si conciliano le profonde modificazioni dei suoli, che si realizzeranno all’atto della costruzione degli impianti, con il mantenimento delle loro caratteristiche e qualità, in primis, con la capacità di produrre biomassa vegetale? E cosa sono i “percorsi di resilienza” tanto declamati e richiamati nelle relazioni di accompagnamento ai progetti propugnati dalle due società? In chiusura, i problemi prospettati, di natura assai differente tra loro, ma legati dal filo comune della vocazionalità delle Terre, non hanno solo un carattere tecnico e scientifico, ma, nell’attuale temperie, il carattere politico mi sembra essere assolutamente preminente. Non sarà il caso che le competenti Commissioni del Consiglio regionale ne discutano e assumano informazioni anche in pubbliche audizioni? E non sarà altresì il caso che il Governo regionale, non solo faccia altrettanto, ma, soprattutto, assuma le necessarie determinazioni? |