Venerdì 23 settembre a Zuri ultima tappa di “Uomini contro carbone” [di Umberto Cocco]

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Venerdì finisce, a Zuri, la serie delle iniziative pubbliche con le quali i 9 paesi del Barigadu hanno ricordato i 70 anni dagli accordi uomini-contro carbone fra Italia e Belgio con i quali prese avvio nel 1946 la grande migrazione italiana del secondo dopoguerra. Andarono via molte migliaia di sardi a lavorare in miniera, tra il Limburgo e la Vallonia, Genk e Charleroi, ma sino al 1956 i dati sono parziali, incerti, non veritieri.

Perché molti emigrati erano clandestini, non si registravano in uscita all’anagrafe dei comuni, capitava che morissero in incidenti in miniera e passavano per morti naturali perché anche un solo giorno d’ospedale evitava alle società minerarie di pagare le conseguenze.

Andarono via dal Sulcis già in crisi allora, e da queste zone interne, in una fascia che dalle Marmille risale sino al Barigadu, al Goceano, al Marghine, al Logudoro, e dalla Planargia alle Baronie. Centinaia da ogni piccolo paese (200 da Samugheo, 90 da Ardauli, 250 da Siniscola), in un solo convoglio dalla Sardegna e poi attraverso Milano c’erano 50 samughesi, racconta in un’intervista uno dei sopravvissuti, novantenne.

Sono numeri, che una ricerca coordinata da Martino Contu (Università di Sassari) sta scoprendo, e sono  storie incredibilmente ricche insieme della Sardegna dalla quale scappavano, almeno quanto del Belgio e in fondo dell’Europa che si costituiva dopo il disastro della guerra, alla vigilia del boom economico al quale questa gioventù forse non ancora classe operaia, molecolarmente contribuì, offrendosi in cambio del carbone, necessario anche all’Italia per accendere le luci a casa e sulle strade e far andare l’industria che riapriva.

Tra venti e trenta di loro, e una decina di vedove, figli di minatori morti, hanno raccontato (a Simone Cireddu e Barbara Pinna) in lunghe videointerviste, la vita difficile e dura nei pozzi e nelle baracche sulla superficie:« Un lavoro come i topi, in mezzo alla polvere» (Basilio Patta, Samugheo), Nudi, neri di una poltiglia di sudore e polvere di carbone, curvi in cunicoli di 40-70 centimetri e con il motopicco in mano.«Strisciavamo come serpenti» (Sebastiano Frongia, Samugheo).

Eppure Cosimo Carta, 97 anni, di Ardauli, dice: «Era un divertimento».  Le donne ricordano una storia di emancipazione, persino le baracche che erano servite come campi di detenzione per i prigionieri dei nazisti avevano comodità sconosciute nelle case di paglia e fango e pietrame della Sardegna, il riscaldamento con il carbone offerto gratis, un altro mondo rispetto allo stare abbracciato alle capre per tenersi al caldo nell’ovile delle campagne di Austis. Michele Pinna (Sindia), ricorda che la moglie «ha pianto tre mesi quando siamo arrivati in Belgio, e sei mesi quando siamo rientrati in Sardegna».

Si sono riempite le piazze dei paesi, da Ula Tirso a Samugheo, in giornate di vacanza, nei mesi scorsi di luglio e agosto, a seguire le interviste e i dibattiti. A volte si sono aggiunte testimonianze nuove, come l’altra sera a Fordongianus, di una donna belga figlia di un minatore scampato alla tragedia di Marcinelle perché quella mattina dell’8 agosto di 60 anni fa non sentì la sveglia dopo avere trascorso la notte insonne a causa delle figlia più piccola che non lo lasciò dormire.

Pagine da lungo tempo dimenticate, forse rimosse, come se la memoria avesse potuto perpetuare la povertà e la sofferenza, e non aiutare invece ad elaborarle, a rendere più ricche le comunità. Ce n’è lavoro da fare…. Un’altra volta, sembra che la Sardegna non riesca a narrarsi nella modernità, o è pastorizia o misteriosa civiltà antica, mentre la pastorizia sarda se ha forza è perché è diventata a un certo punto industria, e appena ieri, mentre sino ad avant’ieri eravamo pastori e contadini press’a poco come tutti gli altri popoli della terra.

La retorica sull’età nuragica e adesso dei Giganti e invece la rimozione di ogni memoria più recente, dell’ieri e dell’altro ieri. Si aprirebbe qui il capitolo di come si conserva e si trasmette questa conoscenza, con quali mezzi, nei musei, in quali musei, con quali tecnologie, strategie narrative, modalità di rappresentazione e di raccolta continua (il tema è stato oggetto di un confronto a Samugheo fra la presidente del Fai Sardegna, Maria Antonietta Mongiu, con  Paolo Piquereddu di Icom Italia, l’ex sindaco di Asuni Sandro Sarai, che aprì il museo dell’emigrazione nel piccolo paese della Marmilla, il sindaco di Samugheo Antonello Demelas, che ha già l’enorme compito di raccontare la storia della tessitura nel museo del tappeto, Romano Cannas che da direttore della sede regionale della Rai avviò il lavoro sugli archivi, la pubblicazione di pagine memorabili in cofanetto e nella Sardegna digital library della Regione che la giunta Cappellacci ha distrutto).

Sono i minatori ancora vivi – e quelli morti nel ricordo dei loro parenti – una riserva anche di coscienza civile, europei prima dei ragazzi che volano su Ryanair, almeno quanto i pizzaioli di Londra, i liceali dell’Erasmus. Non eroi, nessun mito di sé, molta umiltà, mitezza, orgoglio di quel lavoro sì ma senza il carico di rappresentazione e di teatro al quale sembrano ormai costretti i loro colleghi del Sulcis dalla pubblicistica, dalla tv del piagnisteo, anche da un libro recente (Addio, di Angelo Ferracuti).

Sono tornati lasciando fuori figlie, figli, nipoti, fra i 30mila sardi che oggi sono ancora e ormai forse definitivamente in Belgio. Integrati e a volte con belle carriere. Giovanna Corda, attesa a Zuri venerdì, oggi vicesindaco di Boussu nel Borinage, già parlamentare europea eletta con Di Rupo nel gruppo socialista, è figlia di un minatore emigrato da Illorai. Ma attenzione, dice Anne Morelli, storica belga delle migrazioni, relatrice anche lei a Zuri: «La gran massa degli italiani, figli e nipoti dei primi emigrati, appartiene al mondo dei salariati, operai, sempre più precarizzati. Hanno fatto le scuole professionali, non i licei, e ora la crisi li spinge al limite dei processi produttivi e anche della società».

Adriano Prosperi, professore emerito della Normale di Pisa, storico dell’Età moderna, terrà una lezione sulla casistica storica attorno al pendolo delle migrazioni/emigrazioni, mentre la segretaria del sindacato europeo dei pensionati, Carla Cantone, partecipa alla tavola rotonda finale con Maria Antonietta Mongiu presidente del Fai Sardegna, a Martino Contu, alla sociologa Mariantonietta Cocco (Università di Sassari).

C’è un altro appuntamento a Macomer, il 30 settembre, poi un supplemento con la presentazione a Busachi e a Cagliari del libro di Toni Ricciardi (Marcinelle, 1956, Donzelli, 2016), e il 1 ottobre a Sedilo la presentazione della ricerca condotta da  Martino Contu negli archivi comunali del Barigadu, finanziata dalla Fondazione di Sardegna come tutto il progetto, e dall’Unione dei Comuni. Sono iscritti agli elenchi degli emigrati residenti all’estero (Aire) in questa zona, poco meno di tremila persone, su ottomila suppergiù di residenti. L’equivalente di un paese poco più piccolo di Samugheo, più grande di Busachi.

 

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